QUEI POPULISTI CHE PIACCIONO ALLA DESTRA

di NICOLA R. PORRO ♦

In gergo tecnico si chiama analisi della salienza delle issues. Più semplicemente, è una procedura che utilizza commenti e suggerimenti di interlocutori spontanei per mettere meglio a fuoco gli argomenti di una ricerca, evidenziarne le criticità e apportare correzioni e sviluppi. Ringrazio perciò di cuore tutti gli amici intervenuti nella discussione stimolata dai miei articoli sul populismo. La quale mi sembra essersi sviluppata attorno a due prospettive distinte. Da una parte si è delineata un’opinione “di destra”, che critica in radice l’approccio alla questione populista da me proposto. Dall’altra, è emersa una visione “di sinistra” che si interroga sul “che fare” per restituire protagonismo alle forze di opposizione e sollecitare una riflessione autocritica, soprattutto da parte del Pd. Mi occuperò qui soltanto della posizione, minoritaria fra gli intervenuti ma certamente diffusa a livello di massa, che ricorre quotidianamente nella pubblicistica di alcuni quotidiani di destra, Libero in prima fila, e negli editoriali di giornalisti come Feltri, Senaldi e altri. Quella di populismo sarebbe una denominazione di comodo, adottata dalla sinistra per screditare una domanda di democrazia che si è espressa nitidamente nel voto italiano del 4 marzo e che pare avanzare in altri contesti nazionali. In sostanza, un escamotage verbale prodotto dalla doppia morale progressista, per la quale la volontà popolare verrebbe degradata a manifestazione di populismo quando non coincida con le idee e i programmi della sinistra. Corollario logico di questa posizione – come ha commentato sul blog un nostro lettore il 1° settembre us – è che la democrazia in quanto tale costituirebbe addirittura la “quintessenza del populismo”.

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Questo punto di vista, assai lontano dalle mie convinzioni, ha il merito di sollecitare una definizione concettuale del fenomeno di cui ci occupiamo più appropriata di quella, quanto mai ambigua e generica, di populismo. Io stesso, del resto, l’ho ripetuto più volte: l’analisi critica si arrende alla fortuna mediatica del termine, senza rinunciare alla ricerca di una formula più adeguata. Continuiamo a parlare di populismo (o populismi) in mancanza di meglio, non essendo ancora pervenuti a coniare una convincente alternativa. La difficoltà potrebbe discendere dalla obiettiva anomalia del caso italiano. Solo da noi, infatti, ha preso forma un contratto di governo, retto da una logica di puro potere, fra due forze tanto diverse da essere difficilmente riconducibili a un unico comun denominatore. Impossibile offrire una definizione univoca e sensata del populismo di lotta e di governo. Ci ha provato Nadia Urbinati, insistendo sulla definizione di antipartitismo e sul profilo antisistema dei movimenti populistici (absit iniuria verbis!). A me pare una soluzione sghemba: il M5s può essere classificato come antipartitico, non certo la Lega salviniana. Essa costituisce la più antica forza organizzata a scala nazionale presente in Parlamento e possiede da quattro decenni una struttura decisionale, un ceto politico e un sistema di rappresentanza a tutti i livelli esemplarmente modellati sul paradigma dei partiti novecenteschi. Le due forze non-alleate che compongono il governo gialloverde non sono nemmeno classificabili come antiparlamentari in senso stretto, alla stregua delle insorgenze fasciste del primo Novecento, della tradizione “sovversiva” dell’anarchismo classico o di alcuni movimenti gemmati dal ciclo di protesta degli anni Settanta. Il Parlamento costituisce, anzi, il teatro privilegiato della loro azione e della loro narrazione. I cinquestelle, in particolare, ne hanno fatto per anni una sorta di scenografica corte di giustizia dove dar voce al risentimento contro la vecchia politica e sottoporre a processo sommario l’odiata casta. Possono piuttosto destare allarme, come ho segnalato negli articoli, alcune esternazioni estemporanee di marca Grillo-Casaleggio su ruolo, funzioni e futuro delle istituzioni democratiche. Sortite forse estemporanee da parte di leader influenti ma non non eletti: sufficienti a insinuare dubbi e preoccupazioni ma non (ancora) a individuare un sistema di pensiero esplicitamente alternativo alla democrazia parlamentare. A somiglianza della Lega – che per di più non ha certo disdegnato un uso assai disinvolto delle risorse pubbliche -, hanno sfruttato a tutto campo la concreta funzione legislativa delle istituzioni, occupando golosamente ruoli istituzionali di primissimo piano e promuovendo iniziative a beneficio delle proprie strategie e delle proprie campagne propagandistiche.

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Anche la relazione fra rappresentazione sociale e cultura politica segna una discriminante netta fra i due movimenti al governo. Il M5s indulge a una visione demoniaca delle élite dl potere (la casta), identificate senza eccezioni con il male assoluto, a dispetto dell’assoluta assenza di profilo sociologico o storico del concetto. Ben altra consistenza hanno infatti la critica conservatrice rivolta al potere e alla concentrazione dell’autorità dall’antica Scuola elitistica italiana o quella radicale, ispirata alla sociologia critica nordamericana contemporanea. Non vuole essere un’osservazione saccente: la povertà dei riferimenti culturali e la sconfortante assenza di sostenitori intellettualmente autorevoli spiegano non poco della navigazione ondivaga della politica cinquestelle e del complessivo degrado della qualità del ceto politico nel suo insieme.
La Lega è invece un partito gerarchicamente organizzato, costituitosi da quasi quarant’anni sull’onda dei movimenti anti-tasse proliferati nel Nord Europa alla fine degli anni Settanta. Capace di passare allegramente, dopo il naufragio della linea Bossi, dal secessionismo padano a un nazionalismo a tinte sovraniste, la Lega Nord – alleata/non-alleata alla Lega Sud di Giggino Di Maio – è oggi come allora attenta soprattutto a tutelare il robusto sistema degli interessi dell’economia settentrionale. Peculiari dei populismi classici, dal peronismo al castrismo, dai Giovani Turchi alle stesse democrature contemporanee, sono piuttosto il culto del capo e l’ostilità a qualunque forma di intermediazione sociale che condizioni e limiti l’appello diretto alle masse da parte del leader. Nel nostro caso elementi carismatici di questo genere – peraltro riaffiorati di tanto in tanto anche in leadership di partito come quella renziana – sono presenti soprattutto nella Lega e nella figura di Salvini, ma siamo allo stato fortunatamente lontani da investiture plebiscitarie o da derive totalitarie. Quanto ai cinquestelle, è davvero difficile immaginare un Giggino Di Maio nei panni del conducator o l’esangue Giuseppe Conte eretto a lider maximo della non-coalizione gialloverde. In estrema sintesi: Salvini non è affatto un populista nel senso invalso nell’uso giornalistico, quanto piuttosto un politico di mestiere organico all’estrema destra anti-europeista, alla cultura sovranista e al cartello di Visegrad. Giggino è invece un classico populista, un professionista politico innamorato della sortita a effetto, privo del background culturale che consente ai veri leader di affermare una visione di ampio respiro ma pronto per amor di slogan a qualunque torsione demagogica del ragionamento. È un tweet leader, identificabile come un neo-qualunquista, ma non un razzista. L’ombra del Grande Fratello orwelliano aleggia caso mai nella combinazione fra le pulsioni autoritarie e le suggestioni sovraniste coltivate dal leader leghista, e la mitologia telematica alimentata dal sistema Casaleggio e dalla vulgata del populismo digitale.
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A prima vista, insomma, poco o nulla unisce i due movimenti di lotta e di governo. Differenti sono la composizione sociale degli elettorati, i criteri di selezione delle leadership, gli orizzonti internazionali (anche se il M5s non ha esitato a far fronte comune nel Parlamento europeo con formazioni appartenenti alla destra xenofoba), il modello di organizzazione. Per i cinquestelle, inoltre, la classica opposizione destra-sinistra o conservatori-progressisti è affogata in quella, indistinta quanto irriducibile ed ereditata dalla mitologia plebeista della ggente, di popolo vs élite, basso verso alto. La Lega ha invece sempre rivendicato la propria identità di destra. I due “populismi”, in sostanza, differiscono in tutto ciò che permette di costruire la morfologia di una forza politica. In comune hanno però (i) una gestione pragmatica, strumentale e non di rado opportunistica degli strumenti di governo, che permette di coltivare senza troppe interferenze i propri orticelli elettorali; (ii) una avversione verso le forme di rappresentanza sociale (sindacati, ong, associazionismo) che possano frapporsi alla comunicazione diretta fra i vertici politici e “il popolo”; (iii) un sentimento di diffidenza, che oscilla fra la sospettosa indifferenza cinquestelle e l’avversione viscerale leghista, verso le istituzioni sovranazionali, a cominciare dalla UE; (iv) una narrazione noi-loro che consente di alimentare e indirizzare il risentimento sociale, privilegiando talvolta il rapporto con frange fanatizzate (i no-vax e no-tutto cari al vecchio M5s grillino) o coltivando sistemi di interesse locali e corporativi storicamente vicini alla Lega.

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In breve: d’accordo sulla necessità di una definizione più adeguata di quella di populismo/i, non d’accordo nell’interpretazione vittimistica circa l’uso dispregiativo del termine populismo. Mi sento in diritto di criticare “quella cosa lì” senza rinunciare a ricercare una lettura più calzante, differenziata e coerente dei due attori politici al governo del Paese. La critica non discende dalle formule linguistiche: discende dalle cose che propugnano, dallo sdoganamento della xenofobia, dalle pulsioni sovraniste che coltivano (o tollerano) isolandoci dalle democrazie europee, dalla cultura del risentimento e della rabbia eretti a fonte di legittimazione politica, da uno stile di comunicazione che confonde propaganda e comunicazione istituzionale. Potrei continuare a lungo, purtroppo. Ecco: ”quelle cose lì” (e tante altre) io le chiamo provvisoriamente populismo. Si tratta di un’opinione, come tale inevitabilmente partigiana. Ho tuttavia cercato di suffragarla con gli argomenti e gli strumenti che erano alla mia portata. Più esplicitamente: la Lega di Salvini costituisce ai miei occhi una forza che si situa agli antipodi della mia idea di democrazia. Esprime una cultura schiettamente reazionaria e si colloca in una cornice ideologica propria della destra radicale. Il M5s costituisce invece un coacervo indistinto e volubile di idee, pulsioni, suggestioni e pure e semplici improvvisazioni. Difficile pervenire a conclusioni altrettanto perentorie di quelle sollecitate dal fenomeno leghista. Non escludo anzi che la mia rappresentazione possa essere viziata da un pregiudizio culturale, che discende dalla mia biografia intellettuale e politica. Ho anche presente casi di nuovi movimenti politici che, istituzionalizzandosi e sbarazzandosi man mano della cultura del sospetto e di velleità palingenetiche, hanno concorso a rivitalizzare il tessuto democratico (è la provocazione lanciata da Giovanni Orsina a proposito della “romanizzazione dei barbari”). Allo stato, tuttavia, prevale in me una visione desolata del panorama politico segnato dal governo del doppio populismo. E credo sia giusto attrezzarsi a una battaglia su due fronti. Per un verso combattere la Lega di Salvini per quello che è: per le sue simpatie per i regimi illiberali, per le sue pulsioni reazionarie, per il disprezzo che nutre per la cultura dei diritti e della solidarietà. Per l’altro, fronteggiare il M5s per quello che fa: un mix di promesse mirabolanti e di annunci a forte caratura demagogica e di provvedimenti concreti che il più delle volte ricalcano pari pari le politiche dei tanto deprecati governi “di prima”, senza rinunciare a una visione demagogica e puerile del conflitto politico.
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Carl Schmitt (1888-1985), il grande quanto controverso giurista tedesco, riteneva che la politica avesse inizio nel momento storico in cui si definisce la distinzione fra amico (Freund in tedesco) e nemico (Feind). Riteneva però necessario distinguere, ricorrendo questa volta al latino, fra due tipologie di nemico: l’inimicus e l’hostis: il nemico“altro”, che esprime una diversità irriducibile, e l’avversario. Distinzione, quest’ultima, che può forse suggerire di distinguere, nel campo avversario che abbiamo delineato, fra un opposto radicalmente ostile (la Lega inimicus) e un avversario hostis (il M5s) da contrastare con tutto il rigore necessario, senza però rinunciare a un confronto che cerchi almeno di scavare nelle sue tante contraddizioni.
Senza volerlo, ho anticipato il tema della prossima rimessa laterale. Che sarà indirizzata ai tormenti della sinistra e alle traversie della sua forza più rappresentativa.

NICOLA R. PORRO