LEGGENDA DI NATALE – COME NASCE UNA PIZZA
di ETTORE FALZETTI ♦
Nel 1938 un ciclista toscano venticinquenne di nome Gino Bartali stravince il Tour de France: è storia nota.
Meno nota è la storia di un altro toscano venticinquenne che, nello stesso anno, inforca una bicicletta, certamente di minor qualità di quella di Gino, e compie anche lui una piccola impresa.
Parte dalla natìa Montecarlo di Lucca e in due giorni, fermandosi a dormire dove capita, percorre poco più di 300 chilometri per arrivare a Civitavecchia: si chiama Natale Seghieri. E’ destinato a entrare non nella storia del ciclismo, ma in quella delle abitudini alimentari della nostra città: accanto alla pizza di Pasqua, i civitavecchiesi impareranno ad amare un altro tipo di pizza, quella di “Natale”.
Viene da un mondo contadino povero, è un po’ il mondo che qualche decennio prima ci aveva raccontato Collodi (il mio babbo era talmente povero che il fuoco del camino era dipinto..). Lui, Natale, ha deciso di dare una svolta alla sua vita; così ascolta un compaesano che ha fatto il militare a Civitavecchia: ci son soldati tanti- gli dice- tutte bocche da sfamare a basso prezzo, se uno ci sa fare è il paese di Bengodi. Natale gli dà retta e sale in bicicletta.
A Civitavecchia. A fare che? E’ un toscano, la pizza napoletana non è il suo genere, il castagnaccio invece sì. Così si compra un carrettino e va in giro per la città a vendere il castagnaccio che ha preparato la mattina presto; spesso incrocia un altro carrettino di un abruzzese che vende bombe, maritozzi e gelati, destinato anche lui a diventare un campione dei gusti alimentari cittadini: si chiama Gabriele Di Pomponio.
Fra i due, esistenzialmente così affini, nasce un’immediata simpatia che si trasforma presto in amicizia al punto che Gabriele finirà con l’ospitare a casa sua Natale fin quando questi non deciderà di aprire un locale in via Buonarroti. Se prima, per infornare, doveva appoggiarsi al droghiere del quartiere, Appetecchi, adesso ha un forno in mattoni tutto suo: glielo ha costruito uno che poi si specializzerà in un altro settore, si chiama D’Andrea.
Ma intanto è scoppiata la guerra, c’è il rischio di bombardamenti. L’unica cosa da fare è tornarsene in Toscana e aspettare tempi migliori. Quando finalmente arriva il 1945 è il momento di riprendere la strada verso sud, stavolta in treno e in compagnia della donna che ha appena sposato, Leonida ( i toscani del contado, si sa, sono affascinati dal mondo classico e non sottilizzano sul genere). I due trovano una città devastata: il vecchio locale, semidistrutto, è stato occupato; bisogna ricominciare da zero, da un minuscolo locale in via Annovazzi che è al tempo stesso negozio e casa giacché la notte tocca arrangiarsi a dormire sulle pedane.
Ma l’attività comincia a decollare. Il castagnaccio c’è ancora, ma la pizza, così diversa dalle altre, così poco napoletana, così semplice nella struttura, ma inconfondibile all’olfatto e irresistibile al gusto sta incontrando sempre più estimatori. Sarà, ed è tuttora, “la pizza di Natale”, anche se in verità a creare la ricetta fu Leonida e a farla, da decenni, sono le figlie.
Per quelli come me, nati e cresciuti in via Buonarroti, quel locale non era solo un imprescindibile punto di riferimento, ma un luogo di culto. Ricordo ancora, sotto Pasqua, che mia nonna riempiva teglie su teglie con l’impasto della pizza. Tutte grandi, le future pizze, meno una, a forma di colomba e con l’uovo in mezzo, quella che spettava a me perché ero il piccolo di casa. Le pizze in potenza diventavano in atto solo dopo essere state portate a cuocere nel forno di Natale. Ma c’era un momento molto più importante: quando nonna ( e sia lode a Dio per aver creato le nonne..), tanto per non stare senza far niente, decideva di colmare un contenitore di alluminio di ovosissima crema e mi mandava da chi? Ma da Natale che, non so con quale benemerita macchina, la trasformava in gelato e me la riconsegnava dopo qualche ora. Con rispetto per il santo pauperismo, in quello consisteva la perfetta letizia.
Erano quelli gli anni cinquanta, gli anni delle decine di osterie che dopo le cinque si riempivano di operai che, muniti di bustine di Nazionali, scolavano vino da poco giocando a briscola con carte bisunte e quasi immescolabili per i bordi martoriati dall’uso. Gli anni del rito della festa di san Giuseppe nel cortile del palazzo a ringhiera della Nona con l’albero della cuccagna e i balconi addobbati di rose di carta velina fatte a mano dalle donne del quartiere, le stesse che si ritrovavano a spettegolare nel lavatoio pubblico delle case popolari.
Gli anni in cui, per la notte di Capodanno, la città era nuovamente bombardata: da piatti scrostati, bicchieri sbeccati, sedie sfondate e perfino qualche rudimentale protoelettrodomestico. Ma era forse l’unico giorno dell’anno un cui si produceva “monnezza”, perché per il resto latte e vino si andavano a prendere sempre con la stessa bottiglia panciuta e con lo stesso fiasco semispagliato, mentre l’acqua -incredibile a dirsi- si beveva dal rubinetto.
Gli anni in cui le ragazzine aspettavano con ansia la festa dell’Ausiliatrice perché solo quel giorno –in tutto l’anno- venivano ammesse al rigorosamente maschile oratorio salesiano e si disputavano le due altalene disponibili. Racconta Franca Seghieri, una delle pizzaiole di oggi, di quanto angusti fossero allora i confini suoi e delle sorelle: le poche volte che potevano allontanarsi dalla pizzeria, scuola a parte, si potevano spingere al massimo a giocare con qualche compagna nel cortile del palazzo dei ferrovieri o fino al cantiere marmi Arcadi a rimediare qualche gessetto. A via Bramante no, non potevano andare, o meglio solo fino a un certo punto perché oltre si stagliava il palazzetto del vizio e della perdizione, il famigerato Dollaro.
Gli anni sessanta si aprirono con la grande espansione. I Seghieri presero in affitto un ampio locale di proprietà dei Salesiani che permetteva il consumo sul posto con somma soddisfazione dei militari, evidentemente assai poco entusiasti del rancio serale. Nel 1984 –dieci anni dopo la morte del titolare- la pizzeria si sarebbe spostata ancora di pochi metri e sempre insistendo sull’incrocio fra via Buonarroti e via Annovazzi: se prendessimo qualsiasi civitavecchiese e lo trasportassimo lì bendato saprebbe dire esattamente dove si trova, avvalendosi del solo orientamento olfattivo.
Anche le mura, in quel magico quadrivio, odorano di pizza.
Noterella: Ci sarebbe un Seghieri 2 (o Bachechi se volete), ma questa storia esula dalle mie competenze territoriali e la lascio volentieri raccontare ad altri.
ETTORE FALZETTI
Avevo degli amici romani che ci venivano da Roma a mangiare la pizza di Natale… ad essere sincero non ho mai capito perchè… a me piaceva la pizza napoletana e tuttora. Però penso che ogni città abbia il suo luogo cult per il cibo popolare, credo sia una cosa identitaria… Non sei civitavecciese dentro se non ami la pizza di Natale. Le mie sono supposizioni, non avendo “radici” non credo di riuscire a comprendere bene.
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Hai già risposto tu, Luciano. Questa è una pizza unica, non napoletana e ha il raro pregio di migliorare quanto più si raffredda, anzi ti dirò che gli intenditori, ai quali presumo di appartenere, la mangiano con maggior gusto addirittura il giorno dopo. Ha creato una forma di dipendenza fra i civitavecchiesi in pari misura del maritozzo con panna dello Chalet: ho più volte constatato che i concittadini che vivono lontano hanno nostalgia soprattutto di queste due cose:
Ma appunto bisogna essere nati e cresciuti qua
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Grazie a Ettore di avere ricostruito con amore questa bella storia. Ha evocato in me un’infinità di ricordi. Era d’obbligo per mio nonno accompagnarmi da Natale all’uscita da scuola quando si faceva il turno pomeridiano. Dopo mi sarei rassegnato a seguirlo all’osteria per il rituale chinato (per fortuna non esisteva ancora l’apericena). L’ambiente della pizzeria era affollato, rumoroso e gioviale: metteva allegria. Solo una volta – la scuola era già finita – ci accolse un silenzio gelido malgrado il caldo torrido della giornata. Era la fine di luglio del 1956, decine di persone erano state raggiunte dalla notizia del naufragio dell’Andrea Doria mentre attendevano in fila disordinata di agguantare l’agognato trancio di pizza. Natale teneva la radio accesa a tutto volume, una piccola folla accalcata nel locale seguiva la vicenda in un silenzio angosciato. Era ancora una città di marinai, quella tragedia toccava corde profonde della sensibilità popolare. Sì, la pizzeria di Natale ha rappresentato davvero un “luogo” della comunità e della sua memoria.
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Grazie a te, Nicola, per aver ricordato quel toccante momento
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il Seghieri 2 sarebbe la signora Ida, sorella di Natale, sposata con Gianfranco Bachechi (conosciuto come il Baco) che hanno anche loro fatto la storia della pizza di Civitavecchia, nella famosa pizzeria proprio dietro la Cattedrale. Lui aveva l’abitudine di chiamare tutti Roberta o Roberto, pronunciato tutto aspirato, un pò alla toscana. Purtroppo ci hanno lasciato, ma il loro caro ricordo rimarrà indelebile nei nostri cuori.
Una nipotina ❤
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Si e’vero chiamava anche me Roberta. Si diceva, allora, che lui chiamava cosi tutte con il nome di una figlia morta. Non ho.mai saputo se fosse verita’ o una leggenda metropolitana civitavecchiese..
Un saluto al mio prof
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Ringrazio per la testimonianza le mie ex allieve Valentina e Sabrina
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Deliziosa rievocazione. Uno come me, nato alla Nona, è praticamente cresciuto con quella pizza ( peraltro assai amata anche da mio figlio, mezzo civitavecchiese e mezzo milanese) .
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Grazie Ettore per questa preziosa ed emozionante testimonianza che ci ha fatto respirare, in un colpo solo, l’atmosfera della Civitavecchia postbellica e l’inconfondibile aroma della pizza di Natale. Aggiungo un ricordo personale: durante gli intervalli del cineforum ai Salesiani, Don Mancini ci concedeva di uscire dall’oratorio, andare da Natale a comprare la pizza bianca (altra inconfondibile prelibatezza) e rientrare di corsa al cinema.
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