All’origine dello stato e della sovranità. Seconda parte.
di ANTONIO MAFFEI ♦
Nei primi anni settanta del XX secolo, cioè prima che i fenomeni naturali e gli interventi antropici obliterassero in gran parte le antiche testimonianze, ho potuto verificare personalmente la realtà e la vastità dei depositi antropici costieri. I resti dell’insediamento villanoviano relativo a Castrum Novum erano disposti ancora su di una fascia di circa un chilometro tra Torre Chiaruccia e la zona subito a nord della foce delle Guardiole. I depositi antropici ubicati alla foce del Malpasso, noti sin dagli anni cinquanta, (Peroni 1953; Barbaranelli 1954-55) sono stati coperti dagli impianti del porticciolo turistico Riva di Traiano, effettuati alla fine degli anni ottanta. Questi lavori hanno permesso di individuare tuttavia un deposito antropico non visibile in precedenza. Il deposito antropico era esteso per oltre m 300, spesso circa m 1,40, e sormontato da uno strato con ceramica etrusca e dal vespaio di base dell’antica via Aurelia. La sezione del terreno evidenziata dai lavori di sbancamento del costruendo porticciolo ha permesso di verificare che la parte superiore del deposito antropico, contenente ceramica villanoviana, era composto da strati sovrapposti da mettere in relazione ai resti di capanne e di pozzetti rivestiti con un intonaco impermeabile.
Le recenti indagini effettuate sulla riva a sinistra della foce del Marangone hanno evidenziato che il deposito antropico protostorico si estende ancora per circa 400 metri.
L’insediamento villanoviano di Punta del Pecoraro si sviluppava per circa m 500 dai ruderi della villa marittima romana, distrutta dai lavori effettuati per realizzare il campo sportivo, sino alla radice nord della punta ove passa l’attuale via Aurelia. Sempre in questa località, poco prima del ristorane Ideale, sono visibili in mare ambienti quadrangolari ricavati nel banco di scaglia da mettere in relazione a fondi di capanne.
Il grande insediamento villanoviano relativo all’approdo di Algae, ben protetto un tempo dalle mareggiate da due lunghe secche rocciose disposte a tenaglia, occupava una larga fascia costiera che, dalla Mattonara-Buca di Nerone sino a Torre Valdaliga, si sviluppava sul litorale per circa due chilometri senza soluzione di continuità (Barbaranelli 1956; Barbaranelli 1966; Maffei 1981 b). Una stima prudente fa ritenere che l’area occupata da questo abitato superasse i duecento ettari.
Le ricognizioni topografiche effettuate nel 1970 dall’Associazione Archeologica Centumcellae dopo una leggera aratura del terreno occupato dalle pinete costiere, hanno permesso di verificare che anche l’abitato tirrenico della Frasca si estendeva sulla riva del mare per almeno 100-150 ettari, con depositi antropici stratificati spessi ben m. 1,60 a testimonianza della vivacità e degli elevati indici demografici degli insediamenti protourbani costieri (Toti 1993, 42).
La successione degli insediamenti villanoviani interessava inoltre anche il tratto di costa situato subito a nord del fiume Mignone. Gli affioramenti di ceramica della prima età del Ferro individuati negli ultimi 15-20 anni sul litorale di Tarquinia, pur non essendo concentrati ed evidenti come quelli di Civitavecchia, si estendono alle Saline per almeno 60 ettari.
Le nuove comunità villanoviane costiere, seppur prive di difese naturali, potevano disporre di ottime sorgenti d’acqua, che sgorgano tuttora sulla spiaggia, e la località presentava condizioni climatiche e risorse economiche ottime.
Gli insediamenti costieri non avevano protezioni naturali, la difesa era assicurata solamente da una consolidata potenza navale sul mare dei Pirati o meglio Navigatori Tirreni
Dalle notizie tramandateci da Eforo (ap. Strab. VI, 267), i Tirreni, chiamati “pirati” dal termine greco che significa “colui che assale, colui che va all’attacco”, esercitavano una pressante attività navale nel mare della Sicilia già dai tempi della fondazione delle prime colonie greche intorno al 750 a.C. (anche il nome “vichingo” in origine significava “assalitore”).
La fama di pirati perseguiterà poi i Tirreni o Etruschi per tutto l’arco della loro storia. Fama certamente non usurpata, ma della cosa, d’altronde, non sono immuni tutte le altre marinerie dell’epoca, per le quali il mestiere di pirata non è considerato infamante. Anche se occorre aggiungere che, ad un più attento esame, scopriamo trattarsi il più delle volte, non di vere e propri atti di pirateria, ma azioni di guerra da corsa. Quest’ultima riceverà una sua legittimità soltanto in tempi abbastanza recenti (anche i commerci inglesi e spagnoli del 17-18° secolo erano molto “prepotenti” e le incursioni dei corsari erano la regola).
Questi Tirreni abili marinai stanziati nella costiera di Civitavecchia, con le loro imbarcazioni robuste e affusolate, effettuarono rapide incursioni nelle acque del mar Tirreno “commerciando”, secondo i sistemi usuali di quei tempi, con tutti gli altri popoli del Mediterraneo dai quali furono ben presto conosciuti e temuti per la loro abilità nell’arte del navigare.
Questi nuovi fermenti economici, sociali e culturali avranno influenza anche la concezione della vita nell’oltretomba e i Navigatori Tirreni saranno seppelliti con modellini di navi per testimoniare il desiderio, affascinante e ricorrente nell’immaginario collettivo, di dominare il mare e di veleggiare con la propria nave anche dopo la morte perpetuando le audaci e gloriose avventure compiute nella vita terrena. Il ritrovamento di modellini fittili di navi, avvenuto durante l’attività di ricognizione topografica condotta dall’Associazione Archeologica Centumcellae sui campi arati di Poggio dell’Impiccato, una delle necropoli villanoviane di Tarquinia, ci consente di avere un’idea molto chiara e precisa delle imbarcazioni utilizzate da questi etruschi arcaici. I reperti sono stati localizzati sulla sommità della parte occidentale del rilievo nella stessa zona ove all’inizio del secolo scorso furono scavate tombe ad incinerazione, esclusivamente della Prima Età del Ferro, di personaggi di elevato stato sociale.
I frammenti dei tre modellini fittili d’imbarcazioni recuperati sono molto realistici e ben curati (Nastasi 1992). Il primo modellino è relativo a una bassa e larga nave da carico che forse era trainata.
Il secondo modellino, esemplare incomparabile per l’accuratezza dei particolari, è attinente ad un’imbarcazione destinata a carichi commerciali ma molto adatta anche alle manovre navali che dovevano essere effettuate per le incursioni “da corsa”. Presenta uno scafo snello, compatto, idrodinamico. La ruota di prora è alta, slanciata, aggressiva, che si prolunga in alto sopra il capodibanda con una forma curvata in fuori e terminante, forse, con un ornamento zoomorfo, una testa d’anatra. Anche il dritto di poppa è alto, rotondo, ben modellato e con l’incavo occupato dal timoniere molto evidente. Sulle fiancate sono presenti i caratteristici fori corrispondenti agli scalmi di almeno 12 remi. All’interno dello scafo l’assenza del ponte permette la vista della costolatura trasversale: gli stamenali, secondo l’antica terminologia recuperata da padre Alberto Guglielmotti. In una posizione centrale si trova la scassa, in altre parole la mastra, per l’alloggiamento dell’albero maestro, armato forse con vela aurica.
Sotto la prora e la poppa sono presenti in basso, come prolungamento della chiglia, due lunghi speroni aguzzi da mettere in relazione o a dei “tagliamare”, che miglioravano la stabilità e le altre qualità nautiche della nave, o al famoso rostro, inventato, secondo Plinio il vecchio, da un etrusco.
Questa riproduzione molto realistica di una nave, ci permette anche di calcolare la lunghezza e le altre caratteristiche nautiche dell’imbarcazione originale presa a modello. Solamente la parte centrale dello scafo, valutando i 6 remi per fiancata ed uno spazio di voga di circa un metro, era lunga più di 6 metri. Partendo da questo dato, le misure del modellino ci consentono, in proporzione, di valutare, sull’asse di simmetria longitudinale, la lunghezza totale della nave in 10-11 metri “tutto fuori” e la larghezza massima dello scafo in circa 4 metri alla sezione maestra. L’imbarcazione, sempre in proporzione, doveva avere un tirante d’acqua, corrispondente all’opera viva, di circa m 1,0 0-1,20 simile all’altezza dell’opera morta. Di grande rilevanza idro-dinamica sulla prora appare la forma curva della chiglia, modellata seguendo l’onda prodotta dal moto della nave. Il terzo modellino rinvenuto dall’Associazione Archeologica Centumcellae presenta due serie di remi per fiancata. Altri modellini di navi villanoviane rinvenute a Tarquinia documentano dodici remi per fiancata e una lunghezza complessiva dell’imbarcazione di circa 25 metri.
Nell’inno a Dionisio, Omero narra dei marinai tirreni che navigando sul mar color del vino, avevano rapito il dio per andarlo a vendere fino alla terra degli Iperborei. Dionisio, allora, prese l’aspetto di un leone, inondò di vino la nave sulla quale i Tirreni navigavano, avviluppò le vele con piante di vite, e mutò in delfini i pirati che atterriti si buttavano in mare. Dionisio salvò solo il nocchiero perché era stato l’unico ad opporsi al suo rapimento.
Alcuni studiosi, sulla base di testimonianze archeologiche e di dati presi dalla tradizione letteraria, hanno ipotizzato che i Navigatori Tirreni partiti dalle basi navali dell’Italia centrale, almeno dall’VIII secolo a.C. frequentarono le coste della Sicilia e si spinsero sino in Grecia, nell’Egeo ed arrivarono sino a Lemno ove, come è noto, è stata rinvenuta un’iscrizione che presenta notevoli somiglianze con la lingua etrusca.
La pax villanoviana, le condizioni di non belligeranza e lo sviluppo di vita pacifica, che in tutta l’Etruria determinarono, durante la prima Età del Ferro, intense attività agricole, artigianali e commerciali, appaiono evidenti in questi enormi villaggi protourbani posti sul mare, così estesi e densamente abitati durante il IX e la prima metà del VIII secolo a.C. da costituire un fenomeno che anticipa di 200 anni l’urbanizzazione vera e propria di Tarquinia, Caere,Vulci, Veio, Roma.
La “pirateria”, o meglio la forma di controllo militare e commerciale del mar Tirreno, assume un enorme importanza storica, sociale, economica e politica che conferisce prestigio e ricchezza agli aristocratici “principi” proprietari delle navi.
I Navigatori Tirreni del litorale di Civitavecchia, già molto attivi e ricettivi, durante queste fasi storiche in seguito ai contatti con Greci, Fenici, Egiziani e con le altre popolazioni del Mediterraneo, ebbero un apporto di nuovi e vari elementi culturali che si fusero con il vivace sostrato locale. Quest’amalgama determinò sulla costiera di Civitavecchia i presupposti per la nascita e lo sviluppo della civiltà etrusca.
In mancanza di difese naturali ed artificiali, il dominio navale sul mar Tirreno, che prese il nome da queste antiche popolazioni, fu per le comunità villanoviane della costiera di Civitavecchia l’unica vera protezione dalle incursioni di nemici provenienti dal mare.
Le navi, infatti, sia per i problemi legati alla navigazione “a vista” tipica di quei tempi, sia per i venti prevalenti e dominanti, dovevano seguire una rotta che da Centumcellae, attraverso l’arcipelago toscano, passava vicino alla Corsica e alla Sardegna prima di arrivare alle isole baleari e alle coste africane.
Questi vastissimi complessi insediativi protourbani, collegati al “grande approdo” del litorale di Civitavecchia ed abitati nel IX-VIII secolo a.C. dalle dinamiche popolazioni dei Navigatori Tirreni, conosciute in tutto il Mediterraneo per la loro abilità marinara, rappresentando un’importante realtà culturale, demografica, economica e politica, non possono essere considerati, in modo limitante, come nuclei di minore entità gravitanti nella sfera d’influenza tarquiniese o ceretana, ma, al contrario, dovettero costituire dal punto di vista economico e politico dei centri preminenti, un significativo polo d’attrazione, ed un riferimento continuo per i piccoli insediamenti villanoviani dell’interno. L’importanza ed il potere delle città etrusche prenderà forza più di un secolo dopo.
Il saggio di scavo effettuato da Odoardo Toti nell’aprile 1965 alla Frasca offre, per la prima volta, una precisa testimonianza dello sfruttamento di minerali non metallici effettuato durante la Prima Età del Ferro dai Tirreni del mare. I numerosi pezzi di gesso alabastrino, rinvenuti in vari livelli della stratificazione antropica, che presentano chiari segni di arrostimento e di altre manipolazioni, inducono ad ipotizzare l’utilizzo della polvere anidra di gesso come colorante conosciuto nel 1700-1800 come “bianco di Spagna”, o, unito a sale marino ed allume, per la concia delle pelli.
Il ritrovamento riveste un grande interesse per la presenza, a brevissima distanza dalla Frasca, dei “tumuli di Pantano”, scoperti da Fernando Cordelli nel 1924. Le oltre cinquanta collinette, documentate nelle fotografie aeree, si elevavano dal piano di campagna per sei-sette metri ed erano costituite da un accumulo artificiale di tonnellate e tonnellate di scaglie di gesso alabastrino provenienti dall’escavazione dei giacimenti sotterranei presenti sul luogo ed in molti altri punti della fascia costiera di Civitavecchia. L’esplorazione archeologica di questi accumuli artificiali di gesso, effettuata da Raniero Mengarelli, permise di escludere una loro utilizzazione come tumuli funerari etruschi, anche se, da notizie raccolte dallo scrivente, durante l’attività di cava condotta dalla società Italcementi, che li utilizzò per la produzione del famoso “cemento bianco di Civitavecchia”, furono rinvenute delle gradinate scavate all’interno di detti tumuli.
Testimonianze di utilizzazione del gesso alabastrino le troviamo nelle necropoli etrusche di Tarquinia. Un vaso di gesso alabastrino con immagine antropomorfa rinvenuto negli scavi ottocenteschi della necropoli etrusca delle Arcatelle è stato studiato recentemente.
Le nuove campagne di scavo alla Doganaccia di Tarquinia hanno permesso di evidenziare alcune inedite caratteristiche costruttive del tumulo della Regina. Tra le tecniche edilizie innovative è da segnalare l’intonaco bianco di gesso alabastrino che rivestiva i lati del “piazzaletto”. L’intonaco, realizzato con una sofisticata tecnica, è composto di due strati sovrapposti; quello di fondo più grossolano per spianare le fessure e le rugosità dei blocchi, e quello superficiale di rifinitura molto accurato. Gli autori dell’articolo evidenziano come nella zona di Tarquinia sono presenti a Pantano dei notevoli depositi di gesso alabastrino.
La lavorazione di minerali di ferro è testimoniata, invece, dalla presenza di una grande quantità frammenti di ematite, pesanti da pochi grammi sino a 3-4 chili, attestata in mare e sul litorale negli approdi della Frasca e delle Acque Fresche in corrispondenza dei vasti depositi antropici della Prima Età del Ferro.
In recenti articoli è stata fatta l’ipotesi che gli stanziamenti villanoviani della costiera di Civitavecchia sono sorti solamente per la produzione del sale da cucina dall’acqua del mare. Considerare tali abitati esclusivamente come “stanziamenti produttivi di sale” è piuttosto limitante. La realtà delle documentazioni archeologiche testimonia che queste vastissime comunità protourbane costituirono gli insediamenti e le basi navali dei Navigatori Tirreni. Come risulta dalla documentazione archeologica rinvenuta a Torre Valdaliga, le attività economiche ed alimentari di queste popolazioni compresero l’allevamento, la pesca, la caccia, l’agricoltura, la lavorazione di minerali, la produzione di sale, e altre attività da collegare ai commerci da “corsa” che questi abili marinai effettuarono sul mare Tirreno che da loro prese il nome.
I contatti commerciali e culturali con la Sardegna effettuata dai Navigatori Tirreni della costiera di Civitavecchia, è stata recentemente testimoniata da una clamorosa scoperta: “Ciò che finora era solo un’ipotesi, ora trova conferma: gli Etruschi hanno abitato in Sardegna”. Così il Soprintendente d’Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per le province di Sassari e Nuoro, Francesco di Gennaro, spiega a L’Unione Sarda l’importante scoperta fatta nell’Isola di Tavolara: le tracce di un insediamento del cosiddetto periodo villanoviano, risalente al IX secolo avanti Cristo, la prima Età del Ferro dell’Etruria.
La distribuzione ravvicinata di questi insediamenti costieri di Civitavecchia rivela l’esistenza di rapporti armonici e comunitari, forse, senza distinzioni gerarchiche. Tali rapporti erano coordinati, possiamo immaginare come ho già detto, da un’autorità centrale politico-religiosa sul tipo delle successive confederazioni etrusche.
L’omogeneità “ugualitaria” villanoviana tuttavia è solo apparente. Le più antiche sepolture villanoviane testimoniano un epicentro di ricchezza e coerenza formale (Torelli 1986, 31).
Analizzando attentamente i corredi delle necropoli villanoviane ci accorgiamo che solo alcune tombe hanno restituito reperti (armi, elmi, morsi di cavalli in bronzo e modellini fittili di capanne e di imbarcazioni) che costituiscono chiaramente, già dal IX secolo a.C., il segnale di distinzione sociale ed economica di certi individui che possiamo considerare come personaggi di rango superiore rispetto alla restante popolazione.
Non avendo notizie sicure di questi avvenimenti, dobbiamo prendere in considerazione le conoscenze che abbiamo sulla società etrusca. I gruppi elitari, la cui formazione si stava forse già sviluppando nella precedente fase protovillanoviana, costituiscono una nuova categoria non più caratterizzata da “patres familias” ma da principes o dinatòtatoi. Ai ricchi proprietari terrieri componenti l’aristocrazia si asserviscono ben presto masse di persone del ceto popolare definiti penestài, che lavoravano i campi, combattono sulle navi e conservano, almeno nelle prime fasi, alcuni diritti politici e civili.
Facendo sempre riferimento alle scarse fonti romane e greche su questi argomenti, l’aristocrazia etrusca, che secondo l’etimologia greca significa “predominio dei migliori”, sosteneva un monarca, il lucumone, che doveva avere un potere assoluto, politico, militare e religioso, simile a quello dai primi re di Roma. Il prestigio dell’aristocrazia e dei lucumones era evidenziato da oggetti simbolici quali lo scettro, il trono, la bipenne, vere insegne del potere e, forse, dal tipo di abitazione.
La grande capanna della Buca di Nerone, di forma circolare larga m. 7,70 e scavata nella roccia per una profondità di m. 2,50, a somiglianza delle case appenniniche e delle capanne monumentali di Luni sul Mignone e di Monte Rovello scavate nella roccia (Östemberg 1967 ; Maffei 1973 ; Maffei 1987), ci offre la prova evidente della continuità di una concezione architettonico-spaziale molto antica.
Le case appenniniche e la capanna monumentale di Luni furono realizzate scavando rispettivamente mc 460 e mc 500 di roccia (tufo) con semplici attrezzi di pietra; anche la grande capanna di Monte Rovello fu ricavata nella roccia trachitica, molto più dura e compatta del tufo, per mc 420. Di grande interesse è la costatazione che i vani rettangolari delle capanne monumentali di
Luni e di Monte Rovello avevano le dimensioni, l’una il doppio dell’altra, dimensioni che trovano delle precise relazioni con l’antico piede italico (Maffei 1973).
Utilizzando con grande attenzione le fonti storiche ed i confronti etnografici, possiamo supporre che il capo di ognuno di questi insediamenti appenninici, subappenninici e protovillanoviani, otteneva con la costruzione degli edifici monumentali, realizzati con un grande impegno e il lavoro collettivo di tutta la comunità, un evidente simbolo del proprio prestigio di fronte ad una società ancora per molti aspetti essenzialmente ugualitaria. La massa, il “popolo”, ovvero le persone che realizzavano volontariamente queste costruzioni interrate e le opere artificiali per la difesa dell’insediamento, dovevano sentire un entusiasmo, un’estasi gratificate di gruppo che scaturiva dall’azione stessa del loro lavoro effettuato per il bene della comunità, simile a ai sentimenti provati dall’antico “Volkskunde” tedesco. Il capo per incentivare il lavoro collettivo, in occasione di una festività, ridistribuiva alla popolazione, sotto forma di dono, una parte dei tributi a lui dovuti. Sul pavimento della grande capanna di Monte Rovello sono stati rinvenuti molti focolari che forse testimoniano un uso collettivo dell’edificio in occasione di banchetti solenni organizzati dal capo dell’insediamento ai quali partecipava tutta la popolazione dell’insediamento.
Le grandi capanne incassate nella roccia costituiscono uno dei primi esempi di “edifici pubblici” e rappresentano il potere del “Lucumone”, l’unità dell’insediamento-stato sovrano ed il legame con le tradizioni antiche e mitiche. Il “sovrano” protovillanoviano di Monte Rovello, di Luni sul Mignone, dell’Elceto, della Tolfaccia, doveva avere dei poteri simili a quelli attribuiti ai primi re di Roma. Oltre a governare direttamente, per volontà e intercessione del volere divino, la popolazione dell’insediamento, costituiva la massima autorità religiosa.
Negli insediamenti villanoviani costieri la base delle capanne, per la maggior parte, era realizzata con muretti a secco in pietrame, ma oltre alla cavità della Buca di Nerone, tuttora ben visibile, furono individuate da Bastianelli e da Cordelli altre capanne circolari di m 7,70 e rettangolari di m 5×11 scavate nella scaglia che è una roccia molto compatta.
Le ricognizioni effettuate molti anni fa hanno permesso di individuare altre capanne scavate nella scaglia a Punta San Paolo, adiacente alla Mattonara. In tale località era presente un vasto banco di scaglia ove in epoca romana fu ricavata una peschiera per l’allevamento del pesce. Sempre in tale epoca nella roccia fu aperta inoltre una cava di pietra che livellò ed abbassò il banco di almeno m 1,50 di altezza, similmente alla cava di scaglia individuata da Massimo Sonno alla Mattonara. Il lavoro di cava tagliò orizzontalmente anche delle antiche capanne circolari di m 7,70 e rettangolari di m 4×7 e m 5×11, ed altre più piccole visibili nella fotografia aerea (Fotografia aerea effettuata il 19/6/1951 negat. 5117), che conservavano ancora, al momento della ricognizione, una profondità di circa m 1. A breve distanza, come si può osservare nella fotografia aerea, era presente un’altra capanna circolare scavata nella roccia per una profondità di m 2,5 e larga m 11, che non fu interessata dallo sbancamento effettuato dalla cava di scaglia.
Molto interessante è costatare che anche queste capanne, come a Luni e a Monte Rovello, hanno le dimensioni che presentano un preciso rapporto con l’antico piede italico di m 0,275. La ricostruzione della capanna più antica di Torre Valdaliga presenta una dimensione di m 7,70, come quella della Buca di Nerone e Monte Rovello, corrispondente a 28 piedi. La grande capanna di Punta san Paolo con i suoi m 11 di diametro è relativa a 40 piedi.
Queste capanne unifamiliari incassate nella roccia sono molto più monumentali delle altre costruite con pietrame. Per realizzare la cavità della Buca di Nerone furono asportate circa mc 113 e per la più grande di Punta San Paolo mc 237.
Anche se siamo lontani dalle quantità di roccia scavate a Luni e a Monte Rovello lo sforzo lavorativo fu notevole ed è impensabile ad una costruzione effettuata dai componenti di una sola famiglia.
Pur restando sempre nel campo delle ipotesi, basandosi sulle evidenze, possiamo immaginare che tali capanne unifamiliari servissero da abitazione per gli aristocratici e che fossero state costruite con il lavoro collettivo di gruppi di persone asservite ai gruppi gentilizi.
La capanna circolare di Punta San Paolo, più grande e monumentale delle altre, doveva aveva una funzione complessa ed era utilizzata, forse, dalla famiglia di un principes che poteva essere anche il re ovvero il “Lucumone” dei Navigatori Tirreni e, forse, il massimo sacerdote della confederazione della “collettività nazione-stato sovrano” tirrenica, che, torno a ripetere, esercitava un potere politico-amministrativo-militare-religioso simile a quello dei primi re di Roma.
Con un nuovo orientamento metodologico si deve considerare ogni singolo ambiente abitativo come un riflesso della struttura sociale di un popolo. Tenendo presente le “figure sedute” dell’Henken, trovate anche a Torre Valdaliga (Maffei 1981, Fig. 39/14), la scenografia di banchetto simboleggiata nel coperchio del cinerario di Montescudaio, l’olla e la tazza di bronzo rinvenuti a Tarquinia nella necropoli villanoviana di Poggio dell’Impiccato, possiamo supporre che in queste capanne monumentali gli aristocratici tenessero dei banchetti di rappresentanza, non come avveniva nell’Età del Bronzo con l’intera collettività, che non poteva esser contenuta nell’edificio a differenza di quello di Monte Rovello e di Luni sul Mignone, ma con le personalità politiche e religiose della comunità. Banchetti caratterizzati dal consumo del vino mescolato al formaggio grattugiato come avveniva nelle coeve “capanne delle riunioni” rinvenute in Sardegna.
Altre attività di produzioni alimentari, destinate anche al commercio, sono probabilmente testimoniate negli insediamenti protourbani costieri di Torre Valdaliga, della Mattonara, delle Acque Fresche e della Frasca, dalla presenza di “pozzetti domestici” scavati nel banco di scaglia ed accuratamente intonacati con uno strato di argilla giallastra impermeabile (Toti 1962; Maffei 1981 b, 211). I pozzetti domestici sono infatti, forse, da collegare all’estrazione del sale da cucina ottenuto dall’acqua di mare che, evaporando naturalmente nelle cavità esposte al sole, produce un deposito biancastro composto principalmente da cloruro di sodio, come avviene anche attualmente nelle piccole buche presenti nei banchi di scaglia litoranei che si riempiono d’acqua dopo una mareggiata.
Le testimonianze residue scoperte nei vasti abitati protourbani costieri dei Navigatori Tirreni, inquadrabili cronologicamente alla prima età del Ferro, rivelano una notevole omogeneità etnica e culturale, che, possiamo supporre, già da alcuni secoli aveva permesso a queste antiche popolazioni italiche d’identificarsi, in piena coscienza, con il Nomen etrusco.
La presenza nello strato superiore di Torre Valdaliga e nella capanna delle Acque Fresche, di ceramica d’impasto dipinta a bande rossiccie, simile al vaso biconico rinvenuto da Fernando Barbaranelli alla Mattonara (Barbaranelli 1956, 24), fornisce il segnale dell’abbandono delle vaste comunità tirreniche poste sulla riva del mare, avvenuto alla fine della fase villanoviana II A (760 a.C.) (Maffei 1981 b). La presenza di ceramica dipinta è senza dubbio collegabile all’attività colonizzatrice delle popolazioni greche che impegnate in questo periodo nella ricerca di nuove basi commerciali da conquistare, con la loro attività navale rendevano insicuro tutto il litorale tirrenico.
Venendo meno le condizioni di sicurezza, non essendo più possibile una evoluzione dei vasti insediamenti villanoviani protourbani della costiera di Civitavecchia verso una fase urbana, i dissensi, sempre latenti, tra i vari gruppi gentilizi, provocarono l’interruzione dell’armonia e della “pace” villanoviana e favorirono, con una svolta storica, la fine della collettività nazione-stato sovrano tirrenica e il ritorno della popolazione in località interne che presentavano buone difese naturali, ripristinando il quadro insediativo e politico dell’età del Bronzo secondo i vecchi concetti di ”insediamento-stato sovrano”.
Lo sfollamento massiccio degli abitati costieri e l’aggregazione con le altre popolazioni dei piccoli centri villanoviani sparpagliati nelle campagne contribuirà in modo decisivo ad avviare il processo sinecistico che, per le favorevoli condizioni insediative, per la presenza di copiose sorgenti d’acqua e d’ottimi terreni agricoli, favorirà il fenomeno della “città-stato sovrano”, ovvero la nascita della Civiltà etrusca avvenuta con l’urbanizzazione dei siti storici di Tarquinia, Caere, Veio e Vulci, con la concezione di una nuova forma di potere detenuta dal “re” (il lucumone degli Etruschi) con un ritorno ad una conflittualità tra le singole città che tuttavia fecero ancora parte della confederazione delle dodici città avente una fisionomia eminentemente religiosa.
Le indicazioni fornite dagli autori classici ci danno delle indicazioni utili per considerare che anche questa fase di aggregazione, questo sinecismo delle popolazioni, almeno per Tarquinia, fosse collegata alla sfera sacra ed al soprannaturale. Narrando il famoso episodio del mitico Tarconte, fondatore ed eroe eponimo di Tarquinia, che arando il terreno nei dintorni della città vide emergere dal solco un bambino, a cui fu dato il nome di Tagete, che possedeva l’erudizione di un vecchio, Cicerone (Divinatione, II, 5) dice: Poiché l’aratore stupito da questa apparizione, mandò alte grida di meraviglia, ci fu un accorrere di gente in massa; e in breve tempo, tutta l’Etruria convenne sul luogo.
In questo periodo saranno rioccupati molti siti naturalmente arroccati abitati durante l’Età del Bronzo come Cencelle, Luni sul Mignone, San Giovenale, la Tolfaccia, Grotte Pinza, ove saranno edificati oppida etruschi fortificati.
Un’ulteriore chiave di lettura delle fasi di sfollamento della costa è offerta dall’attento esame di alcune fotografie aeree effettuate dalla R.A.F. durante la seconda guerra mondiale per finalità belliche che ha rivelato la presenza di alcune aree circolari ubicate nel tratto di fascia costiera retrostante la Frasca e la Torre di S. Agostino.
Le cinque aree circolari individuate, delimitate da profondi fossati e con un diametro stimato da 55-60 a 120 metri, potrebbero essere messe in relazione a piccoli insediamenti villanoviani fortificati lasciati a presidio della flotta dei Tirreni durante la fase di abbandono dei complessi protourbani costieri.
Una precisa testimonianza che durante il fenomeno sinecistico furono lasciati in questa zona dei piccoli “presidi” villanoviani, è offerta dalla necropoli villanoviana dell’VIII secolo a.C. con tombe di inumati rinvenuta nel 1930 da Salvatore Bastianelli in località Terreno Bonaventura, adiacente a San Liborio e all’attuale faro di riferimento per le navi.
Concludendo, la mia ricerca cerca di evidenziare come, all’origine della civiltà occidentale, il nostro paese abbia concepito, prima della Grecia, delle originali forme di potere. Il territorio compreso “nell’Arco del Mignone”, in una fase terminale dell’Età del Bronzo, ci offre la diretta testimonianza dei primi esempi di “edifici pubblici” rappresentanti l’unità di ogni singolo “insediamento-stato sovrano” e il potere del “Lucumone”, che doveva avere già un’autorità simile a quella attribuita ai primi re di Roma.
Nella fase storica successiva, ovvero nella Prima Età del Ferro, con un fenomeno unico nel suo genere in tutta l’Italia, i vastissimi insediamenti protourbani della costiera di Civitavecchia privi di difese naturali e distribuiti vicinissimi uno di seguito all’altro, rivelano la presa di coscienza da parte di queste antiche popolazioni dell’esistenza di una “nazione” etrusca che fece scaturire la pax villanoviana e una diversa concezione del potere sociale legata alla “collettività nazione-stato sovrano”, comprendente tutta la popolazione dei Tirreni, o almeno di quella della fascia costiera.
Con l’avvento nel VII secolo a.C. della civiltà etrusca, con l’urbanizzazione di Tarquinia, Caere, Veio, Vulci, e possiamo dire di Roma legatissima alla sfera etrusca, il ritorno insediativo alle sedi arroccate per natura dell’Età del Bronzo, venendo mento la pax villanoviana, la visione del potere è di nuovo connessa ad ogni singolo insediamento, con il potenziamento delle difese artificiali e l’elaborazione del concetto di “città-stato sovrano”, si arriva, con il ritorno alle antiche contese, a nuove forme di conflittualità tra città e città. Cambiando nuovamente la tipologia del potere si impone la figura del “lucumone”, del “sovrano”, del “re” che si afferma nei secoli con le caratteristiche conosciute sino ai nostri giorni.
ANTONIO MAFFEI
Riferimenti bibliografici
Barbaranelli 1954-55
Fernando Barbaranelli, Ricerche paletnologiche nel territorio di Civitavecchia. Gli abitati dell’Età del Bronzo, in B.P.I. 1954-55
Barbaranelli 1956
Fernando Barbaranelli, Villaggi Villanoviani dell’Etruria meridionale marittima, in Boll. Pal. It. X 1956
Barbaranelli 1966
Fernando Barbaranelli, Ricerche paletnologiche sulla costiera tirrenica a nord di Capo Linaro, in Atti del VI Congresso Internazionale delle Scienze Preistoriche e Protostoriche, Sezioni V-VIII, 1966
di Gennaro 2008
Francesco di Gennaro, Insediamenti protostorici della costa medio tirrenica, in Il monitoraggio Costiero Mediterraneo: problematiche e tecniche di misura, Firenze 2008
Maffei 1971
Antonio Maffei – Giovanni Curreli, Codata delle Macine. Studio preliminare sullo stanziamento protostorico, in Boll. Inform. Ass. Arch. Centumcellae, Civitavecchia 1971
Maffei 1973
Antonio Maffei, La capanna di Monte Rovello: ricerca della forma e della funzione originaria, in Notiziario del Museo Civico A. Klitsche dela Grange, Allumiere 1973
Maffei 1981 b
Antonio Maffei, Il complesso abitativo proto-urbano di Torre Valdaliga, in La preistoria e la protostoria nel territorio di Civitavecchia, Ass. Arch. Centumcellae, Civitavecchia 1981
Maffei 1990 a
Antonio Maffei, Progetto di ricerca archeologico-topografica “Arco del Mignone”, in Caere e il suo territorio, da Agylla a Centumcellae, Roma 1990
Maffei 2012 b
Antonio Maffei, Premessa – Le ricerche effettuate dall’Associazione Archeologica Centumcellae nell’Arco del Mignone in cento anni di volontariato – 11/11/1911 – 11/11/2011, in Cento anni di ricerche per la ricostruzione dei Paesaggi Culturali e per la redazione della Carta Archeologica dell’Arco del Mignone, Associazione Archeologica Centumcellae, Civitavecchia 2012
Maffei 2017
Antonio Maffei, La città e il porto di Centumcellae-Civitavecchia, approdo dei Navigatori Tirreni, scalo di Roma, Civitavecchia 2017
Nastasi 1992
Francesco Nastasi, Navi villanoviane, in Archeologia Viva n. 27 – Marzo 1992
Östenberg 1967
Carl Eric Östenberg, Luni sul Mignone e problemi della preistoria d’Italia, A.I.R.R.S. Lund 1967
Peroni 1953
Renato Peroni, La stazione preistorica di Malpasso presso Civitavecchia, in BPI 1953
Pinna 1984
Mario Pinna, La storia del clima. Variazioni climatiche e rapporto clima-uomo in età postglaciale, Società Geografica Italiana, Roma 1984
Pinna 1996
Mario Pinna, Le variazioni del clima, Franco Angeli Milano 1996
Wiles 1969
Peter Wiles, Populism: Its Meanings and National Characteristics (1969)
Torelli 1986
Mario Torelli, La storia, in Rasenna – Storia e civiltà degli Etruschi, Milano 1986
Toti 1962
Odoardo Toti, Civitavecchia – Rinvenimento di tre pozzetti domestici in località “La Mattonara”, in Not. Sc. 1962
Toti 1973
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Biancofiore – Odoardo Toti, Monte Rovello, testimonianze dei Micenei nel Lazio, Incunabula Graeca vol. LIII 1973