POPULISMO E POPULISTI (XIII)

di NICOLA R. PORRO 

Che razza di Paese: trasformazioni sociali e imprenditori della paura 

Il nostro viaggio nell’Italia che invecchia fra le sirene dei populismi e l’anomia della vita quotidiana può ripartire dalle informazioni fornite dal rapporto Istat di recente pubblicazione. Esso ci consegna l’immagine di un Paese in sofferenza. L’invecchiamento della popolazione, effetto congiunto del crollo della natalità e dell’allungamento della vita media, si traduce nel proliferare di nuove solitudini. Tre milioni di persone non hanno letteralmente nessuno: né le tradizionali reti famigliari né quelle lavorative né circuiti di relazioni sociali di altro tipo. Anche la solitudine ha a che fare con le disuguaglianze. Fra gli operai in pensione uno su quattro dichiara di non avere nessuno su cui contare in caso di necessità. Il 22% delle famiglie a basso reddito con almeno un componente straniero vive una condizione simile. Nemmeno chi si colloca nella “classe dirigente” è esente dal rischio dell’abbandono, ma fra i più abbienti il male della solitudine affligge soltanto un intervistato su dieci.

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Nel 2017 sono nati in Italia 458.151 bambini: il numero più basso dalla formazione dello Stato unitario (1861), quando la popolazione superava di poco i venti milioni. Da tre anni siamo sotto la soglia “di allerta”, fissata dai demografi in mezzo milione di nascite all’anno. Il calo è più accentuato al Centro (-5.3% rispetto all’anno precedente). I bambini stranieri nati nel 2017 sono stati 68 mila, pari al 14.8% delle nascite, mentre la percentuale di stranieri residenti si attesta all’8.5%. Anche i nati da genitori non italiani sono però in diminuzione, a conferma del fatto che già nell’arco della prima generazione gli immigrati tendono a imitare i comportamenti demografici del Paese di accoglienza. Siamo anche l’unico fra i maggiori Paesi europei a conoscere un calo netto della popolazione rispetto all’anno precedente: al 31 dicembre 2017 eravamo 60.483.973, di cui circa 5.600.000 di cittadinanza straniera. In un anno abbiamo perso complessivamente 105.472 residenti: 202.884 in meno fra gli italiani, compensati solo in parte dalla popolazione straniera (+97.412 unità). La distribuzione della popolazione immigrata non è però uniforme: si va da una percentuale del 10.7% nel Centro-Nord per scendere al 4.2% nel Mezzogiorno.

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Si tratta di dati che smentiscono la narrazione allarmistica sugli effetti dell’immigrazione. Non c’è nessuna invasione di barbari. L’Italia si colloca fra i Paesi europei con una minore percentuale di immigrati ed è solo grazie al loro apporto se riusciamo ad accudire una popolazione anziana in costante crescita e a coprire le esigenze di un mercato del lavoro poco trasparente, pochissimo tutelato e caratterizzato da una domanda di attività che gli italiani rifiutano di svolgere. I veri dati inquietanti riguardano piuttosto:

(i) l’espansione dell’area della solitudine, che produce soprattutto nella popolazione anziana incomunicabilità sociale, impoverimento culturale e anomia;

(ii)  l’esclusione dal mercato del lavoro di un’ampia fascia di popolazione giovanile (vedi grafici Eurostat su occupazione e giovani NEET): siamo al primo posto in Europa nella triste graduatoria dei giovani fra i 18 e 24 anni che non studiano e non lavorano (il 25.7%). Ciò si accompagna a un regime di scambio ineguale nel mercato delle competenze: esportiamo giovani cervelli ma ne importiamo pochi fra quelli in grado di aumentare il capitale sociale ed economico, a confermare che il problema non sono gli immigrati ma la qualità dell’immigrazione e la capacità di inclusione;

(iii) l’insostenibilità su medio periodo del regime di welfare in un quadro di squilibrio demografico così accentuato a favore delle classi di età più anziane;

(iv)  il persistente (e addirittura crescente) divario di sviluppo economico fra Nord e Sud del Paese.

Temi gravi e urgenti, destinati a condizionare il nostro futuro ma completamente ignorati o elusi dai programmi dei partiti di governo.

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Un altro cavallo di battaglia della propaganda neo-populista riguarda la sicurezza. Campagne insistite tendono ad accreditare l’equazione aumento della criminalità-espansione dell’immigrazione e crescente aggressività di comportamenti devianti fra la popolazione “marginale”. Da qui slogan gridati a gran voce circa il diritto alla difesa e la necessità di pene sempre più severe. Argomenti anch’essi di facile presa propagandistica, ma privi di riscontri documentabili. È bene ricordare, ad esempio, che nel 1991 – prima che iniziassero le ondate migratorie di fine secolo – si registrarono in Italia 1916 omicidi volontari. Nove anni dopo erano meno di un terzo. Nel 2017 siamo scesi a 343: il numero più basso nella storia d’Italia. Nel nostro Paese ci sono 5.7 omicidi all’anno per milione di abitanti. Sono 11 nell’intera area UE e addirittura 49 negli Usa. Il calo dei fatti di sangue più gravi coincide con la fase di massimo espansione dell’immigrazione, quando il numero dei cittadini di origine straniera è passato da 3.5 milioni a 5.6. Persino l’odioso e socialmente allarmante fenomeno dei femminicidi, giustamente portato alla ribalta delle cronache per le sue implicazioni non solo giudiziarie, si è venuto contraendo negli ultimi anni. I dati criminologici vanno sempre indagati in profondità, ma quelli qui riportati sono in ogni caso più che sufficienti a smentire qualsiasi relazione fra flussi migratori e presunta crescita della criminalità.

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Una recente ricerca comparativa sul linguaggio dei media e la costruzione dei “palinsesti” informativi nei Paesi della UE ha invece evidenziato come l’Italia, insieme all’Austria e all’Ungheria (tre Paesi allo stato governati da forze populiste o dichiaratamente xenofobe), capeggi la classifica della comunicazione pubblica più “allarmistica”. La strategia di enfatizzare episodi di violenza alimentando offensive mediatiche che possono essere piegate a finalità politiche appartiene del resto al classico repertorio dell’allarme sociale. Fomentare nell’opinione pubblica, soprattutto la meno informata, sentimenti di ansia, rabbia, paura e una rappresentazione deformata e vittimistica dei fatti sociali, costituisce ovunque, e non da oggi, il mestiere dei cosiddetti imprenditori della paura.

Giornali, reti commerciali radio-televisive e la ingovernabile galassia del web si contendono ascolti, favori e contratti pubblicitari soffiando sul fuoco del moral panic che gonfia le vele dei populismi. Per ragioni che sarebbe possibile approfondire, e che includono una riconosciuta capacità di prevenzione del rischio maturata dalle nostre forze di sicurezza negli anni di piombo, l’Italia non ha sinora conosciuto drammatici episodi di terrorismo. Eppure ciò non ha impedito campagne di ispirazione xenofobica e populistica ispirate a un isterismo securitario fortunatamente privo sin qui di qualunque riscontro reale.

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Poca attenzione si dedica invece a ricerche che descrivono il male oscuro che consuma il futuro della società italiana. Il tema della solitudine e della riduzione degli individui a monadi esistenziali sembra un argomento di nicchia, riservato agli inserti di qualche quotidiano o ai dimenticati programmi “educational” della televisione di Stato. Ci sfuggono così gli effetti preoccupanti della rivoluzione demografica. Vivere più a lungo facendo sempre meno figli ha già bruscamente contratto le cerchie dei parenti stretti. I più anziani vedono via via venir meno genitori, fratelli e cugini. Spesso possono appoggiarsi a un unico figlio, costituendo le famiglie con un solo figlio la maggioranza relativa delle famiglie italiane. All’opposto, i giovani convivono più a lungo con parenti anziani. Hanno nonni longevi e pochi fratelli o addirittura nessuno. La rete famigliare tipo degli italiani risultava composta nel 2017 da 5,4 parenti stretti e 1,9 fra zii, cugini, cognati, suoceri. Un quinto dei maggiorenni afferma di non avere una sola persona su cui fare affidamento, anche se sono sei milioni gli italiani di età superiore ai 14 anni che si dichiarano appartenenti a qualche rete stabile di tipo professionale o amicale. Ben tre milioni, però, possono contare solo sul piccolo gruppo dei parenti stretti acquisiti alla nascita. L’immagine tradizionale della famiglia italiana – estesa, numerosa, solidale – si è disintegrata da un pezzo. Ci segnala l’Istat che le famiglie (si fa per dire) composte da una persona sola sono passate dal 21.5 % del 1997-1998 al 31.6 del 2015-2016. In sostanza una “famiglia” su tre rappresenta una monade sociale. La rilevazione Istat, tuttavia, non è ancora attrezzata a censire l’incidenza di nuove e meno istituzionalizzate forme di relazione. Crescono, ad esempio, le cosiddette coppie LAT (dall’acronimo inglese Living Apart Together: vivere insieme ma separati). Si tratta quasi sempre di coppie in condizione economica abbiente, o comunque non disagiata, che scelgono di mantenere residenze separate e ampi spazi di autonomia personale pur istituendo relazioni stabili more uxorio. Sotto tutti questi profili l’Italia si sta allineando a modelli sino a pochi decenni fa estranei al nostro costume. Si manifesta però una marcata polarizzazione degli stili di vita in relazione ai livelli di scolarizzazione e di reddito. Un decoroso standard di vita e un buon livello di istruzione alleviano significativamente i disagi indotti dalla solitudine. La risorsa cultura, in particolare, è considerata come il principale antidoto alla depressione dal 47.3% dei laureati, ma precipita al 3.1% fra gli intervistati in possesso della sola licenza elementare.

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Le implicazioni per la politica di questa sotterranea rivoluzione, che è solo in parte riconducibile alle collaudate categorie del post-materialismo o dell’individualismo di massa, sono ancora da esplorare. La crescente volatilità del comportamento elettorale, l’aumento dell’assenteismo e dell’astensionismo (parzialmente correlati all’invecchiamento medio dell’elettorato), il collasso della partecipazione politico-sindacale rappresentano sensori ancora approssimativi del fenomeno. Studi condotti in Paesi a noi vicini indicano come l’appello populista faccia più agevolmente breccia nei centri urbani dove più forte è il decremento demografico, più elevata la percentuale di persone sole e maggiori le differenze di reddito. Il populismo veicola insomma l’insofferenza per una condizione di emarginazione, vera o presunta ma in ogni caso percepita come perdita di status e di relazioni.

Un caso esemplare di uso politico del mutamento sociale – crescita dell’elettorato anziano e insicurezza indotta dalla crisi – è rappresentato dalla campagna condotta dai populisti contro la legge Fornero. Campagna mirata alla cattura del voto fingendo di ignorare le drammatiche ragioni che la imposero e l’insostenibilità per il bilancio pubblico della sua eventuale abolizione. Essa faceva tuttavia leva su un argomento sociologicamente rilevante: restituire agli anziani gli anni di meritato riposo sottratti loro dalla stretta finanziaria. Ci pone perciò, al netto della strumentalizzazione elettoralistica, qualche interrogativo che esula dal perimetro della politica: cosa significa, e come viene speso dagli anziani, il tempo del non-lavoro?

Il Rapporto Istat ha voluto ficcare per la prima volta il naso nel vissuto quotidiano dei pensionati italiani. In estrema sintesi, la rilevazione conferma come ciò che genericamente definiamo cultura costituisca la principale risorsa per un’accettabile qualità della vita in età matura. Nel 2016, però, solo il 18.6% dei pensionati intervistati ne aveva beneficiato in qualche modo. Il 49.7% delle donne di età superiore ai 75 anni e il 32% il per cento dei coetanei maschi dichiaravano di non aver letto nel corso dell’anno nemmeno un quotidiano o un libro, di non aver assistito a un solo spettacolo cinematografico o teatrale, di non essersi recati a un concerto o altro evento musicale. Il tempo libero degli anziani pare insomma degradare nell’apatia, mentre si diradano le relazioni sociali. Più di un terzo delle coppie senza figli con entrambi i partner sotto i 65 anni, e quasi la metà di quelle over 65, non incontrano nemmeno un amico nel corso di una settimana tipo. Le persone fornite di minore capitale culturale risultano doppiamente vulnerabili: perché in genere godono di minori risorse economiche e perché sono meno sollecitate intellettualmente. Il venir meno delle reti relazionali costruite attorno al lavoro può tradursi così in perdita di interessi e depressione. Al punto che non pochi sociologi e psicologi del lavoro cominciano a chiedersi se non sia preferibile – almeno per le attività meno faticose, rischiose e usuranti – ridurre tempi e mansioni dei lavoratori, mantenendo o addirittura elevando l’età pensionabile, piuttosto che anticipare un pensionamento che può tradursi in frustrazione e solitudine.

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A questa condizione di marginalità, cui sembra condannata un’ampia porzione della popolazione anziana, va associata una rappresentazione aggiornata  del mercato del lavoro e dello stesso sistema produttivo. L’abbinamento non è artificioso perché la rivoluzione silenziosa che sta investendo l’economia italiana ha ricadute dirette sulle aspettative lavorative, la mobilità, le relazioni personali e la socialità dei singoli e delle famiglie. La solitudine dei soggetti – in condizione lavorativa o non – e l’anomia delle comunità riflettono sempre trasformazioni della struttura economica. Per alcuni decenni l’elemento propulsore della nostra economia è stato rappresentato dai cosiddetti distretti industriali: una dimensione produttiva a raggio locale che si attagliava perfettamente alle culture territoriali, alla valorizzazione degli antichi saperi artigiani e manifatturieri e a una forma di capitale sociale orientato al primato della comunità. Il caso dei distretti industriali italiani ha rappresentato, sino agli anni Novanta, un esempio di successo indagato da studiosi di mezzo mondo e persino trapiantato in qualche contesto fuori dai nostri confini. I distretti tenevano vive reti cooperative dove si trasmettevano esperienze e memorie mentre si scambiavano, aggiornavano e perfezionavano esperienze produttive. Il lavoro, i suoi tratti distintivi, la sua qualità plasmavano appartenenze e identità forti e gratificanti, spesso con ricadute sul comportamento elettorale. Negli ultimi due-tre decenni la globalizzazione ha imposto invece dinamiche produttive diverse e sempre meno congruenti con la filosofia imprenditoriale del “piccolo è bello”.

Fonte: Club dei Distretti Italiani.

Fonte: Club dei Distretti Italiani.

La costruzione di reti produttive sempre meno legate ai piccoli distretti industriali e più interconnesse a scala planetaria, ha regalato valore aggiunto alle imprese più capaci di mobilità (delocalizzazioni, riconversioni) e meglio attrezzate a valersi delle tecnologie digitali dell’informazione e della robotica. Una rivoluzione che si è condensata in pochi anni e che anche la grande impresa italiana ha cercato di cogliere, per quanto glielo consentivano le condizioni obiettive. L’esempio d’obbligo, ma non il solo, è quello della Fiat nell’era Marchionne e della fusione con la Chrysler nell’ottica della globalizzazione produttiva in seno a mercati competitivi. Il mutamento di scenario ha avuto effetti ben diversi a scala territoriale ridotta, dove era insediata la filiera dei distretti industriali. La tradizione familistica, le resistenze a cambiare luogo di lavoro, la trasmissione ereditaria delle attività e delle competenze hanno finito per rappresentare, nel tempo della sfida globale, ostacoli all’innovazione. E hanno concorso a bloccare quell’ascensore sociale che Roberto Fiorentini ha descritto su Spazioliberoblog nel suo articolo del 25 maggio 2018. I gloriosi distretti industriali – agglomerati produttivi specializzati in un solo settore, insediati su un’area omogenea e territorialmente ristretta e capaci di istituire relazioni virtuose alternando collaborazione e competizione – hanno sofferta pesantemente la concorrenza delle “reti di filiera lunga”, partorite da un’innovazione di processo giocata a scala mondiale, ragionando in termini di valore globale e di catene flessibili capaci di moltiplicare i profitti di rete. Fra gli imprenditori intervistati dall’Istat, il 70% dei “disperati” – quelli che temevano di dover cessare l’attività nell’arco di sei mesi – lavoravano da soli e da “isolati”, non più sostenuti dalle vecchie reti territoriali e incapaci di inserirsi nel nuovo universo produttivo.

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L’intero sistema industriale italiano è d’altronde irriconoscibile rispetto al decennio che precede la crisi. Il vecchio triangolo industriale Milano-Torino-Genova ha lasciato il posto a una geografia polarizzata su Milano, Bologna e Padova. Solo qui la capacità di governare la crisi investendo in tecnologia e sperimentando nuove filiere produttive ha generato una crescita del fatturato industriale che ha raggiunto il 30-40% fra il 2008 e il 2018. Sono Lombardia, Emilia e Veneto a trascinare l’export nazionale: con meno di un terzo della popolazione italiana vi si produce oltre il 40 per cento del Pil nazionale. Il conflitto fra sistema dei distretti, laddove hanno saputo tenere e rigenerarsi, e filiere lunghe sta tuttavia incrinando equilibri consolidati. Chi difende lo sviluppo a trazione localistica rivendica più autonomia fiscale e amministrativa da Roma e meno vincoli da Bruxelles. Le filiere lunghe, portatrici di innovazione e di un nuovo paradigma di sviluppo, generano ansia e sospetti nei settori meno competitivi o più geograficamente circoscritti. Il 4 marzo la Lega ha drenato ampi consensi nei piccoli centri del nuovo triangolo. Nella stessa Emilia passa dal 2 a quasi il 20% dei voti: non è dunque soltanto il M5s a beneficiare della crisi di consenso della sinistra. Allo stesso tempo, però, dovremo chiederci se l’avanzata populista rappresenti il mero sensore di un disagio o anticipi nuovi e più radicali mutamenti della scena politica.

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NICOLA R. PORRO