FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO

di ELOISA TROISI ♦

Simposio di Seta

Che non sappiamo nulla dell’amore
È tutto ciò che sappiamo sull’amore.”
[Emily Dickinson]

_Buonasera, signor A. Chiamo per comunicarLe che la cartella clinica che aveva richiesto è pronta. Può ritirarla in Largo Italo Stegher 2, al Teatro Nuovo Sala Gassman, Domenica 10 Giugno alle ore 21, in occasione di “Frammenti di un discorso amoroso”, saggio finale degli allievi di “Botteguccia dell’immaginario” (corso di formazione attoriale tenuto da Giancarlo Fares, Ettore Falzetti, Patrizio De Paolis e Simone Luciani, con la direzione artistica di Enrico Maria Falconi) per la regia di Ettore Falzetti.

 Quanto tempo può trascorrere dall’aver compiuto un gesto al desiderare di non averlo mai fatto? Qual è il tempo di incubazione di un rimorso? Non ho mai imparato a pentirmi, a spogliarmi con onestà delle scuse, delle coincidenze disattese. Tutto ciò che di salvifico o di terrifico ho perpetrato, nella mia Storia, è stato universalmente accettato come il veniale frutto di un’ineluttabile forza, come il tenero virgulto di un’incoercibile debolezza. Fiori e insulti – ma questo è Cardarelli.

È questo il dramma di chi non serba memoria.

È il dramma della seta, che si avviluppa in nodi assurdi per poi districarsi e dimenticare.

Einmal ist keinmal.

È il mio dramma, il dramma del Signor A.

Mi sono pentito di aver richiesto la mia cartella clinica: so già che non la aprirò mai.

Scartoffie, nient’altro che scartoffie buttate giù con le migliori intenzioni dalle molteplici, invadenti mani di una squadra che si scambia sorrisi e sguardi d’intesa, animata dalla pretesa di analizzarmi, di comprendere questo mio male assurdo.

Hanno costruito una pila così alta che non escludo abbiano trovato il modo di ascendere al Cielo. Ho visto una scala, su quel palco. In cima, il coraggio di due giovani contro il resto del mondo, contro quel plotone di gente comune, cieca alla Bellezza della retorica che precede un bacio. Mi hanno stretto il cuore di tenerezza e passione, miscela atavica ed esplosiva di buoni propositi e cattive intenzioni.

È una Babele arrogante, questa pila di scartoffie che hanno innalzato quelli della Botteguccia, scritta in greco antico, tedesco, inglese, italiano, russo, francese. Hanno fatto esercizio di buongusto, acrobazie di universalità. Non tengono conto del tempo, perché sono giovani. E il tempo, in fondo, è un gomitolo.

Ma sento che sarà quello che non è scritto in nessuna lingua del mondo a salvare questa Babele dal ripetersi di una sorte biblica, a rendere possibile il miracolo di comprendersi, l’Esperanto.

Sarà l’eleganza di un gesto esatto, l’intermittenza di un moto del corpo, l’increspatura di un volto prima della parola, il singulto d’un sentimento che si compie perfino nei capelli, ad incantare anche il Cielo. È questo che fanno qui, alla Botteguccia dell’Immaginario: incantano.

Sono passati ormai mesi dal mio ingresso in Botteguccia dell’immaginario.

Mi hanno ricoverato a forza, perché minacciavo di lasciarmi morire. In verità, sono stato molto peggio di così: ci son stati giorni in cui millantavo onnipotenza – e, vi giuro, sarei davvero riuscito a far tutto -, lunghi mesi in cui le voci di Lei, che consumava la mia carne in amplessi con uno che non ero io, non mi lasciavano dormire. Ho avuto attacchi di panico; niente di grave, sono solo i benevoli scherzi che invia il Dio Pan a chi si sta perdendo nei suoi boschi.

Bipolare, schizofrenico, per essere un borderline ho fatto miracoli di eleganza e misura.

Tutto questo non lo sanno, quei bei figurini in costume di scena che se la ridono, che si fanno scudo del loro entusiasmo, della loro freschezza, della loro genuina giovinezza. Non lo sanno, perché non gliel’ho ancora detto. Non glielo abbiamo detto, ché Noi siamo bravi a mantenere i segreti.

Ci nutriamo di segreti, particolari e noncuranze. Ci pasciamo di esclusività.

Ci nutriamo di tutto, perché siamo fatti di niente.

 _Ecco a lei, Signore, la sua cartella clinica. Si sieda qui.

Grazie tante, ma preferisco non leggerla. Scartoffie. Nient’altro che scartoffie destinate a prender polvere negli angoli più remoti, come cose posate in un angolo e dimenticate, il giorno di Natale.

È di un rosso che mi ricorda la mattina di Natale, il vestito della bella ragazza che appare per prima sul palco in un fruscio di colori e profumi. Le nasconde il seno un cartello che fa subito atmosfera di protesta, di battaglia – di romantica resa.

La raggiungono altri volti, altri fruscii di vesti.

Dicono di chiamarsi Eros, Agape e Filia.

E allora capisco. Non posso difendermi ulteriormente.

Nessuno ha pronunciato quella terribile parola, nessuno ha azzardato diagnosi alcuna, ma sono affetto da un “Disturbo dissociativo dell’identità”. Pare sia una condizione per cui coesisterebbero, in me, due o più identità separate, capaci di prendere ciascuna il controllo del mio comportamento, senza che io ne serbi memoria.

Sono fatto di seta, io.

Non mi lego: mi avviluppo, mi libero. Corro via veloce, senza memoria.

Perdo, salvo, non ricordo.

Io ho sempre dimenticato le cose. Da bambino, ho dimenticato di chiudere gli occhi quando, al gioco dell’arco, era il turno di Follia. È così che sono diventato cieco, e questa bambina che mi porto dietro è diventata insieme il mio carnefice e il mio accompagnatore.

Gli indizi erano chiari.

Per dire, nessuno saprebbe se definirmi un essere maschile o femminile – e garantisco di non essere un angelo, ché discorsi sulla mia sessualità non possono confinarsi entro la mera speculazione antonomastica.

So essere virile, forte e tenace, con mani perverse di centauro o di fauno. So essere docile, calma, taciturna, con cuore tenero di madre.

Non ho un’età definita né definitiva: strepito come un bambino, mi struggo di nostalgia come un vecchio, annaspo nel desiderio di morte e assoluto come un adolescente.

Non mi comporto mai allo stesso modo: ho sempre un atteggiamento diverso che non esiterei a definire “mal-adattativo”. Mesi di psicanalisi ed una lunga storia di ricoveri coatti saranno pur serviti a qualcosa – il lessico, signori miei, il lessico è importante.

Ho sempre pensato a queste “persone” che mi si agitano nel petto e nelle arterie come alla mia naturale struttura. Non volevo sforzarmi di capire dove finisse il disturbo e dove iniziassi io: non credo la scissione sia cosa naturale. Eppure, dicono sia il mio meccanismo di difesa e che io, per non morire, abbia reagito ad un grande trauma con la scissione.

Quale esperienza catastrofica io abbia subito per avere in dono la triste sorte di essere senza ricordare, d’essere fiume che scorre e non torna, non lo ricordo. Forse sono nato coi postumi della sbronza che mia madre, Penia, preparò a mio padre, Poros, per giacere con lui. Inizia sempre tutto da una madre “disfunzionale”, dicono.

È da quella madre, da quella “povertà” che aveva concupito la “ricchezza”, che ho iniziato a dividermi.

La brama d’essere di più e la certezza d’essere tanto non potevano convivere in uno solo. Ed è qui che inizia il “Disturbo”.

È qui che inizio Io, Amore.

 Sono seduto in prima fila, a vedere succedersi, una dopo l’altra, in un’esatta sfilata di vizi e virtù, tutte le persone che sono stato – che continuo ad essere.

La prima a nascere è stata Filia. Non è mai cresciuta, continua ad avere la voce bianca di un corpo senza ormoni né voglie. A lei, mia madre ha trasmesso l’odore delle comunità suburbane che s’abbracciano per non soccombere. È lei che ci trae in salvo quando sembra tutto perduto, tendendo una di quelle sue piccole mani al resto del mondo con docile saggezza e perfetta previdenza. I suoi giochi ci incantano tanto che talvolta la solleviamo delicatamente per i fianchi e conduciamo la partita al posto suo. Eros finisce sempre per muovere i propri, di fianchi. Agape, invece, s’accoccola al fianco dell’altro giocatore. Dorme, e sogna in sua vece.

L’ultima a nascere è stata Agape. Prevedo sarà anche la prima a morire: non ha carne. Quando gli altri la canzonano per la sua presunta debolezza, sorride e non smentisce. Rimane a guardare il mare, le Pleiadi, la luna e le montagne per ore, indulgendo in una certa malinconia leggera, senza oggetto. Poi, dorme sola. È l’unica ad avere imparato l’autotrascendenza – ed è questa sua apparente debolezza a conferirle un vantaggio su tutti noi. Non tiene molto in conto la propria vita; va dicendo in giro sia merce di scambio a basso prezzo, che chiunque potrebbe portarle via. È il sacrificio a dare una dimensione dei sentimenti umani; è l’unica possibilità che abbiamo sulle leggi di mercato, ché ce ne è poca offerta, e molta domanda – quando si dice, “un bene prezioso”.

È Agape che subentra quando non abbiamo più bisogno di niente, quando tutto è già stato detto.

Quando abbiamo già stracciato le vesti, perché gli accessori non sono più necessari: la sobria nudità è il suo obiettivo. Agape sublima il detto, il non detto. È lei che crea i miei pochi ricordi. Ha bisogno di questa immaterialità – di queste tracce d’eterno – per non soccombere.

Il primo a sopravvivere è stato Eros. Anche il suo vagito aveva una bellezza imbarazzante. Ha più sangue e nervi di tutti, tanto che è nato senza più spazio per gli altri. È impulsivo, disobbediente, geloso, odioso, egoista. Solo, titanico nella sua assurda lotta contro quel se stesso che non gli lascia spazio, né scelta. Ha subito un danno, e per questo è pericoloso. Perché sa che non può morire.

La morte lo fortifica, è invulnerabile ad ogni veneficio. Eppure, s’illude di morire ogni volta che viene abbandonato, disatteso o minacciato di sostituzione. E allora mette in scena quei patetici attacchi di panico cui accennavo: gli ronzano le orecchie, gli si coprono gli occhi, gli suda il cuore. Delira, si perde in desideri terrificanti, in congetture alienanti che non conoscono leggi morali e non riconoscono banali evidenze spazio-temporali. Tutto è possibile, per Eros. Anche pregare per il male dell’essere che gli manca, e non l’ha abbandonato. Potrebbe sembrare vendicativo, Eros, ma lo è solo verso la sua condanna di Narciso.

Chi di loro resisterà? Chi di loro mi consegnerà al mio aguzzino? Sarà la piccola Filia, o la grande Agape? O forse sarà Eros, che con il suo orrore di essere abbandonato impazzirà e si ucciderà? In fondo, il corpo è sempre stata una sua pertinenza, Agape non sa morire – sa sacrificarsi, ma non riesce mai a morire. Non ha carne, eppure dura.

Sono qui, seduto su una sedia di questo teatro, con una nuca d’uomo davanti a me.

È venuto ad indagarmi, a partecipare della mia anamnesi – a prender visione, con me, di quello che non ricordo. Immagino le forme del suo volto, mi scopro avido di quei lineamenti che non conosco e capisco quanto sia ridicolo (quanto a volte sia saggio) non voltarsi mai. Ma questo è Orfeo.

Ai lati della sua nuca, vedo una donna avanzare con occhi atterriti verso altri uomini. È Filia a trarla in salvo, a portarla “dall’altra parte”, con un gesto eterno che sa d’universo. Avevo dimenticato fosse così forte, Filia. Forse sarà lei a resistere.

Ditemi, come va con l’altra? Meglio? Meno grane? Come vi va con la creatura semplice?

Me lo ricordo, Lui. Il suo volto chiaro è una delle poche cose che ho preservato dall’oblio, l’unico volto che la forbice, in un moto di crudele pietà per il mio male, non ha reciso. Abbiamo vissuto insieme per qualche mese, siamo stati allo stesso tempo tanto felici e tanto disperati da scrivere poesie di nuvole e di bile. È durata qualche mese, la nostra Bella distruzione – il tempo che bastò a Filia, sempre così attenta a preservare la simmetria relazionale ed il rispetto reciproco, per capire che non avremmo potuto continuare così. È stata lei a decidere per tutti, a colorare di senape il Suo bel sorriso estivo. Se l’ho lasciato, è stato perché Filia aveva preso il controllo, perché il mio fato lo scampasse.

 Come ci state con la milleunesima, voi – che avete conosciuto Lilith?

Eros ne aveva fatto un dramma. Ferito nel suo orgoglio di Narciso, pungolato dalla mancanza come da uno spiedo rovente, aveva vomitato addosso all’altra tutta l’inettitudine di cui s’era macchiato nella sua dissoluta ricerca d’assoluto.

In coscienza, sei felice? No? In quel disastro senza Dei, come stai, Amore? è dura? Sì? Come per me con l’altro?

 Agape non s’offende. Agape continua ad esistere, ad essere presente oltre la mancanza. A vestirsi di bianco e a nutrirsi di macabra,  sadica tenerezza.

Eros, Filia, Agape. Come non comprendere che siamo la stessa, identica essenza? Come comprendere che sono inscindibile dal mio “disturbo dell’identità multipla” – che sono il mio “disturbo dell’identità multipla”? Hanno ragione, questi allievi della Botteguccia: sono tante cose, lingue, gesti, luoghi e tempi. Sono eterno, perché riesco a fluire con convinta commozione anche dalla bocca di un ventenne.

Resisteremo tutti e quattro: Eros, Filia, Agape ed io, Amore, che li comprendo. Resisteremo per questa nostra capacità di dimenticare, di operare indipendentemente. Di essere tante cose, senza poi esserne mai nessuna definitiva. Sarà la nostra duttilità a conferirci un vantaggio evolutivo sui tempi. È per questo che non possiamo morire.

Perché siamo Seta.

ELOISA TROISI