POPULISMO E POPULISTI (V)
di NICOLA R. PORRO ♦
Il doppio populismo e la sinistra che non c’è
Nei cosiddetti terremoti elettorali si condensano dinamiche di lungo periodo e fattori contingenti che li innescano. Nel caso del voto del 4 marzo, ad esempio, il ritorno a un sistema elettorale proporzionale potrebbe aver costituito l’elemento detonante in due diverse direzioni. Da una parte i partiti in competizione hanno conservato anche dopo il voto l’aggressività propagandistica e la retorica leaderistica tipica dei sistemi maggioritari. Dall’altra, proprio i toni aggressivi della campagna elettorale hanno reso più complicata, a risultati acquisiti, la ricerca di una possibile maggioranza di governo. In sostanza, si sono sommati i difetti del maggioritario e i limiti del proporzionale e ha trovato conferma il luogo comune che fa della paura una pessima consigliera. Una legge elettorale sconclusionata, partorita al solo scopo di contenere l’offensiva populista, ha prodotto uno stallo pericoloso per le istituzioni. Non senza privarci, però, dell’epilogo esilarante di due leader dimezzati, privi di una maggioranza parlamentare ma compulsivamente affaccendati a incoronare se stessi alla guida del Paese.

autore Andreas Gursky
I dati elettorali, tuttavia, interrogano soprattutto la sinistra e segnatamente quel Partito democratico “a vocazione maggioritaria” nato per riavvicinare gli elettori alla politica e contrastare l’affievolimento del progetto culturale delle socialdemocrazie europee, tutte alle prese con insorgenze populistiche variamente declinate (ricorro ancora forzatamente alla nozione di populismo, consapevole del fatto che essa descrive una fenomenologia ad ampio spettro senza spiegarne l’interna complessità).
A caratterizzare il caso italiano ci sono due elementi: la quasi maggioranza assoluta consegnata dagli elettori alle due forze populiste (M5S e Lega) e la maggioranza relativa assegnata a un movimento, come il M5S, del tutto anomalo nel panorama europeo. Esso ha saputo infatti calamitare i delusi della sinistra pur rifiutandosi risolutamente di collocarsi in quel campo, a differenza delle forze che in Europa hanno sviluppato una contestazione radicale all’establishment delle socialdemocrazie nazionali invocando più sinistra e rifiutando qualsiasi convergenza con le destre sovraniste e xenofobe dei rispettivi Paesi.

È il profilo di Podemos in Spagna, il cui laboratorio di idee, animato dai politologi dell’Università Complutense di Madrid, non ha certo risparmiato critiche feroci alla sinistra “del Novecento”. Per non parlare di Syriza in Grecia, di France insoumise in Francia e della stessa area Corbyn in seno al Partito laburista britannico, tutte puntigliosamente impegnate a rivendicare insieme l’eredità dei movimenti di classe e la necessità di nuovi scenari per la sinistra continentale. Tutte, con la ovvia eccezione dei laburisti britannici, hanno contribuito ad accelerare la crisi delle tradizionali forze progressiste. In Francia il candidato socialista alle presidenziali è precipitato al 6% dei consensi. In Spagna il Psoe versa in una crisi drammatica. Sondaggi recenti indicano in Germania un testa a testa fra la Spd, pesantemente sconfitta dalla Merkel nei mesi scorsi, e i sovranisti dell’Afd. Nemmeno la Scandinavia e l’Europa centro-settentrionale sembrano più trovare nelle sinistre storiche un argine sicuro ai populismi xenofobi e ai rigurgiti sovranisti che già dilagano in alcuni importanti Paesi dell’Est.
Ovunque però, tranne che in Italia, le nuove formazioni antagonistiche li hanno combattuti a viso aperto senza accontentarsi di avanzare un’offerta elettorale competitiva a quella nazionalpopulista e senza neppure lontanamente considerarla un possibile partner di governo. Privo di partner internazionali e isolato in sede UE dopo la patetica figura rimediata sulla questione dei gruppi parlamentari, il M5S appare meno inserito nella cornice europea della Lega di Salvini, da tempo pubblicamente e ostentatamente alleata del fonte nazional-sovranista.
Insistere sulle contraddizioni, o peggio sull’opportunismo elettoralistico del M5S, non elude però il nocciolo della questione, che rinvia, anche in Italia, alla disfatta delle sinistre. Sia quella incarnata dal Pd a trazione renziana, sia quella gemmata dalla scissione e dall’improvvisato allestimento di un cartello di sinistra-sinistra (LeU), sia quella riedizione del vecchio movimentismo dei centri sociali rappresentata da Potere al popolo. Così, mentre tutti i leader della sinistra trovavano come unico punto di convergenza la rappresentazione dei cinquestelle come una variante postmoderna (se non come un camuffamento trasformistico) della destra tradizionale, l’elettorato lo identificava come alfiere di una protesta sociale, strumentalmente quanto efficacemente coniugata con programmi, come il reddito di cittadinanza, confezionati a misura dell’elettorato giovanile e meridionale. Siamo dunque in presenza di una sorta di dissonanza cognitiva che appanna la capacità di leggere le dinamiche sociali e culturali da parte delle leadership progressiste? Oppure di una riedizione in formato digitale, da parte dei grillini, del “colpo di stato mediatico”, realizzato tramite la televisione da Berlusconi nel 1994?

Entrambe le ipotesi, al di là dei loro contenuti provocatori, contengono frammenti di verità che non compongono però un quadro coerente. La mia impressione è che la campagna elettorale del 2018 sia stata persa dalle sinistre in buona misura sul terreno della comunicazione politica. In particolare , la celebrazione renziana dei successi mietuti negli ultimi anni di governo si è rivelata un boomerang in una fase in cui la ripresa economica rappresentava ancora un mero dato statistico privo di ricadute tangibili sulla vita quotidiana degli italiani. La sacrosanta critica ai programmi demagogici dei due populismi, inoltre, non si è accompagnata a proposte, certamente più responsabili e concrete ma anche capaci di accendere i sogni di un Paese stremato e soprattutto dei più giovani e di quanti hanno pagato più duramente un decennio di recessione. Il populismo grillo-leghista, in sostanza, è stato demonizzato più che combattuto, irriso più che sfidato sul terreno della proposta e della fantasia.
Specularmente, proprio l’ambiguità culturale e la spregiudicatezza propagandistica hanno contribuito a fare dei populismi, e specialmente del M5S, una riedizione dei classici partito pigliatutto (le grandi tende della politica Usa) magistralmente descritti da Otto Kirchheimer negli anni della Guerra fredda. Giganteschi gruppi di pressione che si rivolgono indiscriminatamente e trasversalmente ai più ampi segmenti anagrafici e culturali dell’elettorato, mietendo consensi soprattutto nelle fasce più mobili e meno tutelate socialmente. Come si evince dai dati elettorali, questo autentico rovesciamento del modello del partito organizzato di massa ha non causalmente conquistato in Italia soprattutto i giovani e il Mezzogiorno.
Nessun altro fra i nuovi attori politici europei presenta un profilo tanto orientato al modello pigliatutto e tanto ideologicamente ambiguo quanto i cinquestelle italiani. La demonizzazione indiscriminata delle élite e la critica del pluralismo politico, interpretato come una mistificazione funzionale alla perpetuazione del potere delle “caste”, indica piuttosto una maggiore vicinanza al populismo leghista. Affine è anche la rappresentazione del “nemico” proposta dai due populismi, in cui all’opposizione destra-sinistra/conservatori-progressisti si sostituisce quella del conflitto fra l’alto e il basso. In alto c’è l’odiata casta, composta per intero da ceti rapaci e personalità parassitarie. In basso, l’universo incontaminato del popolo cui il populismo si sente chiamato a dare espressione. Questo mix di risentimento e di allarme sociale – già riscontrato in altri contesti nazionali ed enfatizzato dal volume di fuoco dei nuovi media, ma incapace di costruire una credibile alleanza di governo fra le due principali varianti del populismo nazionale – ha fatto breccia in segmenti non trascurabili dell’elettorato ex progressista.
Possiamo allora spingerci a parlare, come fa Roberto Frega (R. Frega, “Pensare il populismo di sinistra”, Le parole e le cose del 19 marzo 2018, http://www.leparoleelecose.it/?p=31552), di un emergente autoritarismo di sinistra, sempre meno in sintonia con i valori storici ispirati alla solidarietà, all’inclusione, a una filosofia civica dell’accoglienza? In effetti, si tratterebbe di tendenze già presenti in altri Paesi e rilevate anche in Italia da numerose indagini demoscopiche. Soprattutto l’atteggiamento verso i migranti – altamente indicativo del livello di accettazione dell’altro – la percezione della sicurezza e la permeabilità all’allarme sociale, sembrano essersi modificati profondamente, e con relativa rapidità, nel tradizionale elettorato della sinistra. Interessando però soprattutto segmenti di ceto medio timorosi del declassamento sociale, da un lato, e giovani e lavoratori precari o a basso reddito, dall’altro. È in questi ambienti che le campagne mediatiche e le offensive virali dei due populismi, orientate a enfatizzare e drammatizzare gli effetti sociali dell’immigrazione e dell’insicurezza, affondano come un coltello nel burro. Esemplari al riguardo la vicenda parlamentare dello jus soli, naufragato nelle aule parlamentari sull’onda dei sondaggi d’opinione, e il dilagare sui media di una imperiosa domanda di sicurezza che non trova riscontro nelle evidenze statistiche, che indicano anzi negli ultimi quattro anni un significativo calo dei reati di sangue e contro le persone.
Studiosi radicali come Chantal Mouffe o Ernesto Laclau – del resto in singolare sintonia con la pastorale di Papa Francesco – hanno istituito una relazione diretta fra insorgenze populistiche e abbandono delle “periferie sociali” da parte della politica tradizionale. Diffusa è anche la percezione di una progressiva rinuncia, soprattutto da parte delle sinistre, ad assumere quel ruolo di educatore collettivo che già un secolo fa Gramsci attribuiva loro. Per la Mouffe e per Laclau, ma anche per uno studioso come Domenico De Masi, attento alle trasformazioni del lavoro e alle loro ricadute sociologiche, i populismi potrebbero rappresentare allo stesso tempo una sfida e un’opportunità. La “civilizzazione del populismo” potrebbe, secondo queste tesi, rappresentare un’iniezione di anticorpi contro derive autoritarie di tipo sovranista e costituire una risorsa insperata per la rigenerazione della democrazia. In fondo, si sostiene, la loro responsabilizzazione in esperienze di governo confermerebbe la teoria di Pareto, per la quale la circolazione delle élite, essenziale al funzionamento delle democrazie, si fa conflittuale solo se il sistema politico non riesce ad assumerla e metabolizzarla. In questa prospettiva ottimistica, il quadro attuale, anche quello offerto dalla politica italiana, sarebbe ascrivibile alla fase esantematica: il populismo come malattia infantile di un nuovo possibile riformismo che le vecchie sinistre non sanno ancora elaborare.
La suggestione dei populismi discende peraltro, in larga misura, dall’efficacia della loro comunicazione. Alla questione vorrei dedicare riflessioni più specifiche un’altra volta. Si deve tuttavia ricordare qui come, a onor del vero, anche l’insediamento sociale dei grandi partiti di massa sia stato segnato a lungo da un lessico, da una narrazione e da una rappresentazione identitaria di sé e del “nemico” impregnata di umori e di colori populistici. Il populismo sembra quasi costituire una riserva simbolica cui la politica attinge in contesti di crisi e di trasformazione mentre maturano tempi nuovi e si affermano inediti attori collettivi. Contenuti abusati, come il moralismo vittimistico, la demonizzazione indiscriminata degli avversari, la vocazione al leaderismo, l’insofferenza per la mediazione, si fanno più pervasivi e potenti grazie alle tecnologie della comunicazione digitale, producendo un salto di qualità rispetto al paradigma del populismo mediatico che a metà dei Novanta trainò sub specie televisiva la discesa in campo di Berlusconi. Ed è innegabile che anche la comunicazione politica renziana, come del resto quella del Pci postbellico e della nuova sinistra gemmata dal ciclo di protesta degli anni Settanta, presentino non pochi e non secondari tratti populistici.

Rimandando una riflessione più accurata in materia di comunicazione politica, occorre allora concentrarsi su alcuni solidi elementi strutturali che aiutano a comprendere le ragioni non effimere dello sgretolarsi progressivo del blocco sociale delle socialdemocrazie europee. Esso si è fondato per quasi settant’anni sul compromesso riformista che associava i beneficiari diretti del welfare – principalmente i lavoratori dipendenti e le loro famiglie – e la borghesia di orientamento democratico, più interessata all’innovazione comunicativa, ai diritti, all’ambiente e a quella che la sociologia di Ronald Inglehart aveva battezzato alla fine dei Settanta come la “rivoluzione silenziosa” che annunciava il trionfo della cultura del postmaterialismo.
Fra allora e oggi quella specie di patto sociale si è man mano incrinato fin quasi a consumarsi, mentre in seno alla sinistra si stagliavano tre identità sociali sempre meno comunicanti e in qualche caso persino in conflitto. Si tratta dei (i) nuovi poveri in condizione lavorativa (working poors), del (ii) ceto lavorativo tradizionale sopravvissuto alla rivoluzione tecnologica e della (iii) piccola borghesia liberal, identificabile nei nuovi ceti professionali.
Un panorama che si è stagliato prima oltre Oceano e poi in Europa, non senza differenze di rilievo fra i due contesti. Per cercare di comprendere le ragioni della sinistra che non c’è, dovremo però descriverne meno approssimativamente, nel prossimo appuntamento, profilo e percorsi.
NICOLA R. PORRO
Ho letto l’articolo di Nicola Porro : “Il doppio populismo e la sinistra che non c’è” e la mia riflessione si è focalizzata su un aspetto che ritengo importante.
L’analisi proposta sulle socialdemocrazie in crisi e sui partiti di sinistra europei mi trova d’accordo, ma credo che la situazione italiana debba essere letta attraverso una lente più fantasiosa.
Siamo italiani, e come tali diversi del resto dell’Europa, per storia e specificità mediterranea. Negli utili vent’anni abbiamo anticipato , seppure con le dovute differenze storiche il fenomeno americano Trump, eleggendo Berlusconi quale capo di stato. Sono uomini simili , show man della comunicazione televisiva.
Abbiamo reinventato una Lega che , da fenomeno regionale , autonomista e secessionista , ridotta all’irrilevanza politica , dopo i rovesci giudiziari (leggi commercio abusivo dei diamanti etc) oggi incarna la protesta del 18% degli italiani e risulta essere il miglior alleato dei movimenti sovranisti europei.
Ma la migliore delle invenzioni è il Movimento 5 stelle che in pochi anni di attività è riuscito ad arrivare alle soglie del potere, e forse a governare.
Sono una frequentatrice delle Terme della Ficoncella di Civitavecchia ,dove nelle vasche piene di acqua calda trasparente ( dai 40° ai 45° gradi ) si intrecciano discussioni e valutazioni su i nostri governi.
E’ vero, i discorsi sono “qualunquisti” come si diceva una volta, è vero si parla molto di partiti dove “è tutto un magna magna …” come affermava il grande Benigni nel film”Jonny Stecchino” ma se si è attenti, si colgono le variazioni di “costume “ e pensiero.
L’avvento del Partito democratico di Renzi aveva suscitato grandi aspettative, tant’è che alle Europee del 2014 il PD si attestò al 40% dei consensi elettorali, proprio in virtù dello svecchiamento e della rottamazione promessa dal suo segretario: Svecchiamento del Partito dai notabili, e Rottamazione di uno stato altrettanto da riformare radicalmente.
Una riorganizzazione da formulare partendo dalla pubblica amministrazione , dalle società partecipate a livello comunale fino alle grandi imprese ai vertici dello stato.
Grandi aspettative e premesse che sono rimaste sulla carta, es: il conflitto d’ interessi , ed hanno sempre di più avvicinato il PD alla cosiddetta “casta”, identificandolo come il partito dei soli garantiti , in lite con il sindacato , con innesti sempre più vistosi dei notabili di turno, negando voce agli ultimi.
L’incapacità e la mancata sensibilità nel perseguire un approfondimento culturale sul rimescolamento delle classi sociali, e su quelle emergenti , traducendolo in proposte legislative, sono stati alcuni tra gli elementi che hanno determinato il declino del P.D.
La conseguente autoreferenzialità , la chiusura nelle stanze del potere e lo svuotamento delle sezioni territoriali se non addirittura la loro cancellazione, hanno determinato lo scollamento nel recepire i cambiamenti , accorgendosi del nuovo ormai esploso, solo dopo i risultati del 4 marzo 2018, anche se a mio pare i segnali c’era già tutti . ( Leggi Referendum sulla legge elettorale)
Ha attecchito, in un terreno sociale ormai stanco e stremato da una crisi economica devastante, l’affermazione di una trasversalita’ che nega ogni ideologia, stabilendone l’intercambiabilità , cardini fondanti del Movimento 5 stelle . In virtù dell’affermazione “proviamo pure questi” per sfiducia, per paura, ma soprattutto per la mancanza di rappresentatività le persone hanno trovato nella Lega, ma in primis nel M5stelle , visto i flussi elettorali che vengono da sinistra, una voce e forse una speranza.
Credo che questa sia la parola chiave, molte spesso trascurata e vanificata perchè contrapposta ad un pragmatismo becero. il M5stelle rappresenta per le giovani generazioni soprattutto nel Sud Italia quella possibilità di farcela che gli è stata negata , che il PD non ha avuto il coraggio di interpretare, anzi.
Il reddito di cittadinanza tanto sbandierato e tanto vilipeso rappresenta comunque una ipotesi sulla quale lavorare, già presente in altre forme, nella nostra civile Europa.
E’ vero, potrebbe essere una ingenuità crederci, o da parte dei Cinque stelle una promessa poco realistica , ma è qui che si innesta la capacità di interpretare le aspirazioni , in questo caso di rispondere alla frustrazioni di una intera generazione. Come per la Lega e non solo, che ha saputo rileggere, anche se in modo strumentale , la paura dell’altro , l’immigrato, il musulmano, l’islamico, raccogliendo le voci di una popolazione impaurita, marginale . Un’ Italia che vive nelle periferie urbane, facendo i conti giornalmente con le difficoltà dell’accoglienza , dell’inclusione e della “ contaminazione” spiegata così bene da Antonio Albanese nel film “ Come un gatto in tangenziale “che invito a vedere al cinema.
Spesso ricordo le parole della grande scrittrice afro americana Toni Morrison, premio nobel per la letteratura nel 1993, riportate in un recente articolo di Anna Lombardi sul Venerdì di Repubblica dal titolo. Scrivo per farvi entrare nella pelle degli altri.
“ Abbiamo inventato l’altro per giustificare lo sfruttamento economico, un processo che ha richiesto un sadismo straordinario e che oggi è utile a Trump per far sentire comunque superiori i bianchi più poveri, in un modo che rivolgano la loro rabbia verso i neri, anzichè contro gli altri bianchi che li sfruttano”.
A da qui che bisogna ripartire, a mio parere, da noi, dalla nostra comunità disgregata, dalle coscienze sfilacciate , dalla combattività erosa , dal riversare solo e soltanto sugli gli altri la responsabilità della nostra generazione ,quella che scandiva nella piazze “l’immaginazione al potere “. Insomma recuperare l’utopia, la sua spinta propulsiva, ed anche il nostro essere italiani capaci e fantasiosi, con un continuo confronto tra generazioni, nelle piccole cose quotidiane come sui grandi temi dell’esistenza, anche utilizzando un Blog come questol Lo dobbiamo ai nostri figli!
MARINA MARUCCI
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Come al solito Nicola stimola riflessioni e domande, suscita reazioni positive e anche appassionate, come nel commento che mi ha preceduto. Un aspetto dell’intervento di Nicola vorrei sottolineare: i tratti populistici del PCI post bellico. Mi ha colpito questo passaggio perchè mi ha dato il pretesto per pensare ancora una volta al ruolo che dovrebbero avere i partiti in una democrazia “sana”. Essi sono i mediatori tra lo Stato e i cittadini , svolgendo funzioni di controllo dei governati sui governanti. Ma essi svolgono anche una funzione di “socializzazione” politica, educando i cittadini alla consapevolezza dei loro diritti e doveri all’interno della cornice democratica. Mentre le altre istituzioni intermedie (sindacati, rappresentanti di categoria, associazioni) articolano gli interessi dei cittadini, i partiti si occupano di aggregare questi interessi nell’ottica più generale del bene comune. Non credo che oggi i partiti siano tutto questo. Credo che siano soprattutto comitati elettorali e/o aggregazioni virtuali. Nel PCI post bellico convivevano vicino a slogan dal vago sapore populista identificazione e appartenenza ad un popolo, ideali comuni, solidarietà di classe. C’era il tentativo Gramsciano di costruire una egemonia culturale, anche attraverso l’esaltazione del ruolo delle aggregazioni intermedie. C’era un progetto alimentato da idealità. Per questo, pur non avendo mai lesinato critiche a quel partito, del quale ho fatto parte solo per un breve periodo, lo considero l’antitesi perfetta del populismo.
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Ringrazio sinceramente dei commenti argomentati e del contributo alla riflessione comune. Credo che senza la mobilitazione civica invocata da Marina e senza una strategia capace di ridisegnare e di rivalutare il ruolo dei corpi sociali intermedi, come evidenzia Enrico, sarà difficile uscire dalla crisi della sinistra riformista. In un momento storico che richiede invece, a mio parere, più sinistra e più riformismo contro le scorciatoie del populismo di ogni colore.
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Ce l’ho fatta… ho letto tutto.. 🙂
Cito un passo dell’articolo:
“Il populismo grillo-leghista, in sostanza, è stato demonizzato più che combattuto, irriso più che sfidato sul terreno della proposta e della fantasia.”
Tutto quadra, dal momento in cui l’azione dei partiti somiglia sempre più ad un consorzio per gestire il potere, sempre più questa si allontana dalla progettualità, dal pensiero, dal fermento sociale e dalla identificazione con i cittadini. Non per nulla si è pensato di combattere dei populismi con altre forme populiste. Mi viene immente la campagna che portò al 40% delle europee, basata sul messaggio terroristico: “finiremo come la Grecia”. E che dire della campagn a per le trivelle… pareva che l’economia della fascia costiera dell’alto Adriatico dipendesse in toto dalle piattaforme petrolifere. Da un lato si aizza il popolo contro lo “status quo”, dall’altro si lanciano anatemi e si denigra, e non è prerogativa solo dei cessi del biscione, accuse di incapacità e ignoranza si distribuiscono a piene mani. Ma davvero si può pensare che ciò basti per “conservare il sistema”? E’ solo un fatto di “presunzione”?
Non credo ci sia alternativa ai populismi che non passi per una riforma profonda dei partiti e del loro significato. Probabilmente il M5S o la Lega mostreranno prima o poi i loro limiti e cadranno sotto il peso della realtà, ma non sarà certo merito dei ritrovati partiti di sempre. Ho paura, invece, che questo ritorno, ci restituisca partiti ancor più arroganti ancor più occupati a gestire il potere, nel senso negativo del termine. Penso che l’idea: “facciamoli governare così la gente si accorge sdi quanto sono incapaci…” sia un pensiero non poco diffuso in alcune stanze e questo mi fa avere affatto fiducia nel futuro.
Comunque ancora ne possiamo parlare… e non è poco, ma ne parlano all’interno dei partiti?. Intanto la TV ci dice che in quanto ad occupazione abbiamo solo la Grecia alle spalle
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