Il confine: Frammenti di vita quotidiana.
di ENRICO IENGO ♦
Primo episodio:
Mi avviavo a piedi a fare una visita medica domiciliare (quando il domicilio del paziente è in un raggio di 400-500 metri preferisco camminare, se il tempo è clemente). Camminando mi arrivavano distintamente le parole di due persone che mi seguivano a breve distanza. Il contenuto della animata conversazione era presso a poco il seguente: “..si mettono dentro le case e poi chi li sposta, neanche i carabinieri.. e ci sono italiani senza casa”. E l’altro: “questo è un paese di m…Ci vorrebbe un altro Mussolini per 2-3 anni. Il tempo di rimettere a posto le cose..” La conversazione durò per un certo tratto di strada, ma il tenore rimase lo stesso.
Mi voltai istintivamente per scrutare i protagonisti di queste profonde riflessioni e vidi due persone di età intorno ai 70. Mi venne in mente il probabile corso della loro vita: lavoro sicuro, a tempo indeterminato, protetti da un Welfare fino a qualche anno fa esagerato, oggi una buona pensione maturata intorno ai 60 anni, prima della “scure” Fornero.
MI chiesi il perché di tanto livore. Forse qualche figlio o qualche nipote in difficoltà? Proseguii la mia strada, cambiando il corso dei miei pensieri.
Secondo episodio:
Ero a casa di amici. La signora che faceva da Anfitrione è laureata, livello culturale alto, da sempre orientata a votare per il centro sinistra.
Ad un certo punto della conversazione esce fuori da lei ciò che non ti aspetti: “…ne stanno venendo troppi, è una invasione. Bisogna fare qualcosa”
“Ma i numeri confermano che non è una invasione, questa è una percezione falsa, alimentata dal vento populista che spira forte” ribatto io. “Non lo so”, risponde lei, “aiutiamoli nei loro paesi, qui non c’è posto per tutti; il rischio è un aumento incontrollato della delinquenza”.
Due episodi, la stessa paura da parte di persone rappresentanti di realtà sociali diverse, ma accomunate dal fatto di non aver subìto la crisi economica, il lavoro precario, la disoccupazione. Almeno nel secondo caso si è in possesso, come detto, anche di un livello culturale sicuramente alto.
Probabilmente su questo tema si decideranno le elezioni, così come è già accaduto in altri Paesi.
Ho letto con interesse il recente contributo di Nicola sul tema dei populismi, il mio ragionamento parte da un altro punto di vista, ma a mio parere, va a convergere con gli spunti di riflessione brillantemente lanciati da Nicola.
Quindi la domanda è: che sta succedendo e perché questa paura?
La paura è una emozione primaria di difesa, provocata da una situazione avvertita soggettivamente come di pericolo. Partendo da questa affermazione, senza l’ambizione di dare risposte esaustive, ma solo contributi parziali, ho sentito l’esigenza di introdurre e condividere alcuni spunti che ci offrono i padri fondatori della psicoanalisi, i quali peraltro vissero periodi storici drammaticamente noti e approfondirono le dinamiche psicologiche individuali e collettive sottese a tali periodi..
Viviamo sicuramente un periodo di crisi, abbiamo bisogno di certezze per tollerare l’angoscia e la paura del futuro. Il senso di appartenenza, le nostre radici, la nostra identità percepita in pericolo, rappresentano altrettanti valori nei quali rifugiarsi e da difendere ad ogni costo. Per questo rafforziamo i confini, prima di tutto identitari e poi geografici.
Lo psicanalista Lacaniano Recalcati, in un suo intervento pubblico di circa un anno fa, sosteneva, citando Freud, che lo straniero non è solo colui che ci sta di fronte, ma è anche in noi. Tutto ciò che parla con un linguaggio a noi sconosciuto è straniero. È straniero l’inconscio, con i suoi segni, i suoi messaggi i suoi sogni, i suoi significanti che sfuggono al controllo della ragione e della volontà, portandoci a comportamenti e sensazioni di cui non comprendiamo il significato; c’è una parte di me che non riesco a controllare e mi appare come straniera. Quindi, sostiene Recalcati, c’è un problema di confine, confine interno fra l’io e la mia parte straniera, confine esterno tra la mia identità e la differenza dell’altro. Per Freud la patologia c’è quando questi due poli non comunicano, quando l’Io si amplifica ed erge difese impenetrabili contro le altre voci.
Eppure Freud sostiene che il confine è necessario, senza il confine fra l’Io e l’inconscio o fra l’Io e la realtà esterna c’è la psicosi, la scomparsa della differenza fra me e non me e quindi la disintegrazione dell’identità.
Quindi il confine è necessario per l’individuo così come lo è per la società: non ci sarebbe “polis” senza il confine. Non può sopravvivere nessuna società senza confini, senza radici, senza appartenenza, senza senso di identità.
Ma un confine troppo rigido, ermeticamente chiuso, non oltrepassabile, è anch’esso causa di patologia, di una disfunzione psichica oggi estremamente diffusa e che viene definita ipertrofia dell’Io, una esperienza autoreferenziale della paranoia in cui l’Io individuale e l’Io collettivo si riempiono di se stessi, immunizzandosi nei confronti dell’altro, in nome di una identità che nel caso della comunità è etnica e/o religiosa.
Quindi stabiliamo che deve esistere un confine, ma, e qui Recalcati cita BION, un altro grande psicoanalista che si è occupato della psicologia delle masse, questo confine deve essere “poroso”. Deve consentire un certo grado di scambio fra l’interno e l’esterno, fra l’Io e tutto ciò che non è Io, altrimenti sia l’individuo, sia la società ammalano, si chiudono, appassiscono (pensiamo a questo proposito all’invecchiamento della popolazione in Italia, alla scarsità del ricambio generazionale e alle conseguenze sul bilancio del nostro Welfare).
Sono convinto che di questo deve occuparsi la politica con le sue istituzioni, di governare e graduare questa permeabilità, non certo di alimentare le paure, costruendoci sopra scenari apocalittici. Sarà una sfida difficile, poiché, per una serie di cause e di responsabilità, una buona parte del corpo sociale ha introiettato quei modi di pensare e di comportarsi che ricadono nei fenomeni di intolleranza politico-religiosa, di esaltazione da parte dell’Io individuale e collettivo e che ormai rasentano una condizione morbosa, alla quale è sotteso talora un vero e proprio stato che oscilla fra la patologia fobica e quella delirante, difficile da giudicare e ancor più da sanare.
Certamente ci vengono in mente i martiri della Jihad, ma, per venire alle cose di casa nostra, come definire l’argomentazione principale addotta da coloro che osteggiano pervicacemente lo “ius soli”, basata sul fatto che quei ragazzi nati in Italia non hanno ancora introiettato i nostri costumi, le nostre usanze, sono “ostaggio” culturale delle loro famiglie? Quindi I camorristi, i mafiosi di cui in Italia abbiamo il marchio doc, sarebbero veri italiani per il fatto non di essere nati in Italia, ma in quanto condividerebbero gli stessi miei usi e costumi (in latino “mores”, da cui morale, senso etico): è questo il metro di misura? A me sembra l’argomentazione di chi ha paura e tenta di esorcizzare questa paura con motivazioni tranquillizzanti (il fobico che avendo paura delle malattie evita qualsiasi contatto con l’esterno, razionalizza il suo comportamento sostenendo che le malattie esistono, sono reali e la sua è semplice prevenzione).
Quando vado a pensare alle possibili cause favorenti la malattia, mi so dare solo risposte parziali, insufficienti: la crisi economica, il lavoro precario, la disoccupazione, la povertà sono i brodi di coltura ove nascono e proliferano i batteri dell’intolleranza e della paura. Ma c’è un’ombra in tutti noi, con la quale occorre imparare a convivere, consapevoli che con essa dobbiamo fare i conti, dobbiamo dialogare, perché ricacciarla nell’inconscio o sottomettersi ad essa significa aprire al conflitto patologico che può essere intra e/o interindividuale.
Si preannuncia per la nostra democrazia, ma direi meglio per la democrazia in Occidente, un lungo periodo, irto di difficoltà, ove bisognerà difendere il vero confine impermeabile: quello nei confronti delle discriminazioni e dell’odio razziale o religioso. Se questa barriera si sfalda, si materializzeranno i veri “mostri”, quelli che dormono in noi e ciclicamente si destano: ce lo ha insegnato la storia.
Qualche settimana fa durante un interessante servizio su RAI 3, il conduttore intervistava due rappresentanti di gruppi neofascisti. Fra le argomentazioni addotte dai due ce ne era una che si appoggiava ad una verità biologica inoppugnabile. Sostenevano che se un corpo estraneo penetra nel nostro organismo, questi lo rigetta grazie ad un efficiente e provvidenziale sistema immunitario, tendente a conservare la omeostasi dell’individuo. La stessa cosa, secondo loro, deve avvenire nella società.
Intelligentemente il servizio successivo riguardava una signora miracolata grazie ad un trapianto cardiaco. Per salvare quella signora ci sono voluti due requisiti: un Altro (uno straniero) che donasse il suo cuore e una terapia immunosoppressiva che evitasse il rigetto. Il sistema immunitario è essenziale per difendere i nostri confini, ma qualche volta è un pericolo per noi, sia perché può aggredire organi “self” (malattie autoimmunitarie), sia perché non permette l’aiuto dell’Altro, quando questo è vitale.
Non c’è vita senza identità, non c’è vita senza scambio.
ENRICO IENGO
Bellissimo articolo, lo condivido convintamente.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Anche io condivido l’articolo e le metafore cliniche spiegano alla perfezione quanto sta accadendo in Italia ed in Europa; il problema rimane come agire per rendere porosa la società, quali sono i metodi e i sistemi e mi chiedo se poi questa volontà esiste
"Mi piace"Piace a 1 persona
Ammetto di aver letto l’articolo a tratti (essendo per la mia attenzione troppo lungo)… posso dire con cognizione di causa che oggi “chi ti si mette in casa e non esce più..” sono più gli italiani che gli stranieri che probabilmente costretti dalle regole (permesso di soggiorno ecc) cercano di essere sempre a posto con contratti, bollette ecc…. Ma qui si apre un discorso a parte … quello delle regole che oggi in Italia non vengono rispettate … essersi abituati a dover chiamare striscia La notizia per cercare di risolvere i problemi credo sia l’emblema di una nazione che è quantomeno malata. L’italiano è stato abituato ormai a misurare tutto ad un palmo dal suo fondoschiena e probabilmente il parlamento (in toto) è un perfetto spaccato della nazione. Fra 2 mesi ci sono le elezioni…. c’è qualche straccio credibile di programma elettorale? Ancora non si sa neppure chi sono i candidati… quindi via libera a Fake news nel tentativo di vincere non col programma ma col semplice abbattimento dell’avversario….. ovvero primeggiare non per meriti ma per i troppi demeriti altrui.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Condivido le perplessità e i dubbi di Rosamaria. Nel mio intervento ho utilizzato l’angolo visuale che esplorava superficialmente le dinamiche psicologiche individuali e collettive che possono entrare in gioco nella gestione del problema migranti, non mancando di sottolineare come il fenomeno sia complesso e legato a tanti fattori fra loro connessi. Mi piacerebbe, considerando le eccellenti risorse umane di cui dispone il nostro blog, che si aprisse un dibattito, sollecitato anche qualche giorno fa da Nicola, e, perchè no? concludere con un nostro intervento all’esterno del blog.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Ricordo il film “Indovina chi viene a cena….”. quelli della mia età lo ricordano certo. Ogni volta che si parla di “diversi”, mi trovo a chiedermi: “se avesssi una figlia e se si innamorasse di un africano o un islamico…. cosa penserei? come reagirei? E’ facile essere aperti ed inclusivi a parole, ma dobbiamo essere onesti e fare i conti con noi stessi messi alla prova. Episodi vissuti più o meno direttamente, che fanno riflettere ce ne sono in quantità, dal carpentiere conoscente bisognoso licenziato e messo in mezzo alla strada, sostituito con due immigrati, magari clandestini, ai vecchietti sfrattati per far posto a due famiglie di immigrati, dalla questua davanti ai negozi alla zingara che ti viene appresso lanciandoti anatemi se non le dai qualcosa. Dai bivacchi nel parco alla invasione di ambulanti irregolari attorno a certe stazioni. Insomma ogni volta che si parla di inclusione e di migranti, mi guardo dentro e cerco di capire, a dire il vero cerco anche di mettermi nei panni degli altri, magari di chi abita dalle parti di Piazza Vittorio o in altri luoghi ad elevata “pressione etnica”. In altre parole, penso che se da una parte i numeri pretendono di raccontare la vera realtà, dall’altra peso che questa “realtà dei numeri” sia piuttosto relativa. Penso che ragionando di queste cose dovremmo tener presente che spesso e volentieri la mancata distribuzione sul territorio dei migranti crea situazioni spesso al limite della tollerabilità. Parlando con mio figlio, li dove vive lui, dei Rom, mi diceva che sono considerati nomadi e le autorità si accertano che lo siano in realtà, ovvero non sono tollerate situazioni stanziali, per cui questi dopo pochi giorno sono “invitati” a fare le tende ed andarsene. Giusto o sbagliato la permanenza stanziale in un centro urbano non può non provocare momenti di criticità. Tutto questo per dire che la qualità di permeabilità dei “confini” è certamente una qualità da coltivare, ma bisogna farlo tenendo presente che anch’essa ha un “momento critico”. La resilienza di una società che si trova a rapportarsi con la “diversità” è tanto più efficace quanto più la società è omogenea. La disomogeneità della società porta con se disomogeneità anche nella sua permeabilità e nella sua resilienza ovvero nella sua capacità di reagire positivamente ai momenti critici. Penso che se dicessi che la nostra società è “piena di falle”, non sbaglierei molto. Credo sia necessario lavorare duramente per rendere la nostra società più omogenea anche e forse sopratutto per poter reggere le sfide dei tempi, e questa è una grossa sfida.
"Mi piace""Mi piace"
Sono d’accordo con Luciano. E’certo che Non basta il valore dell’accoglienza. Occorre governare quella permeabilità. Se ho ben capito per omogeneità della società tu intendi la capacità di unirsi su valori condivisi, su un’idea di società come complesso di relazioni interindividuali, come patto sociale.
Se intendi questo, oggi siamo lontani da questa idea di società, forse agli opposti.
"Mi piace"Piace a 1 persona
scusate l’anonimo è Enrico Iengo
"Mi piace""Mi piace"
Si, ho inteso l’espressione “società omogena” quella società di persone che convivono avendo tratto ricchezza dalla diversità (non solo quella etnico/culturale) e non discrimine. Un esempio ben comprensibile di questo concetto può essere quello relativo ai “contratti di lavoro”. Laddove la pluralità dei contratti di lavoro produce momenti critici, sfruttamento, insicurezza ecc. questa diversità diventa un “problema”. Quando invece la diversità risponde alle esigenze delle persone diviene una “soluzione”. Ecco “soluzioni” producono e sono frutto di solidarietà e coinvolgimento, i “problemi” invece producono momenti di crisi. Un palloncino pieno d’acqua lo possiamo manipolare premere da una parte o dall’altra e lui si adatta con movimenti armonici senza mostrare criticità. Quando invece il palloncino viene pressato a piene mani da tutte le parti, questo oppone resistenza, non si fa comprimere facilmente. Una società omogenea, che risolve i propri problemi interni senza creare criticità, è capace di adattarsi, di rispondere alle pressioni esterne senza traumi, ha una capacità notevole di essere resiliente e solidale. Allo stesso tempo però reagisce in modo compatto quando la pressione esterna lo richiede. Se invece la società non è omogenea, ovvero è ricca di criticità, le modalità di risposta alle pressioni esterne sono diverse a seconda del punto nel quale queste vengono esercitate. Immaginiamo un palloncino con liquidi a densità diversa al suo interno ed anche confini con diversa porosità. Questa diversità si tradurrà in risposte e fenomeni diversi all’interno della stessa società producendo ulteriori criticità. Questa considerazione dovrebbe farci capire che il fenomeno della migrazione non può essere visto allo stesso modo da tutta la società e non lo è nella misura in cui la stessa non è omogenea. Parlando di migranti e inclusione dovremmo tener presente queste indiscutibili criticità. Spesso usiamo attributi di “razzista” a sproposito ovvero senza tentare di comprendere i comportamenti delle persone, a cominciare dai nostri. Facile non essere razzista quando ci si trova in area “protetta” della società.
"Mi piace""Mi piace"
Enrico ci ha offerto una narrazione vissuta delle dinamiche di formazione del pregiudizio che chiamano in causa le responsabilità gravissime della cultura dei populismi. Approfitto per segnalare che intendo proseguire l’analisi già abbozzata ma che per serie ragioni familiari devo rinviare per qualche tempo la produzione dei testi abbozzati, ma non rivisti. La materia acquista in questa fase implicazioni politiche delicate e preferisco non prestare il fianco a interpretazioni strumentali. Complimenti a Enrico e soddisfazione per la rinnovata vivacità della nostra discussione collettiva.
"Mi piace"Piace a 1 persona