Sulle orme di Sam Peck

 

di GIANCARLO LUPO ♦

Il trekking Salkantay è situato sulle vette più alte del Monte Humantay, dove il ghiaccio freddo delle montagne incontra il calore fumoso delle Ande.

Ci sono tante agenzie a Cusco che vendono e organizzano gli stessi percorsi.

Una mia zia, che vive nella città peruviana ormai da anni, contratta la migliore offerta per me. Prima di partire però mi avverte: “Ricevi il trattamento per il prezzo che paghi.” Il sotto testo abbastanza evidente è: “Se vado al risparmio non devo lamentarmi per qualche inevitabile contrattempo.”

Il sentiero Salkantay è un trekking alternativo al cammino Inca, per raggiungere Machu Picchu, molto meno turistico e meno congestionato del percorso tradizionale. Il Salkantay, a nord ovest di Cusco, è una montagna di neve perenne alta 6.271m facente parte della Cordillera Vilcabamba. Il nome Salkantay significa “montagna selvaggia” perché è spesso incappucciata di nuvole, grazie ai contrasti con le temperature tropicali della vicina giungla amazzonica.

L’escursione lungo questo percorso offre una straordinaria varietà di attrazioni e opportunità di avventura che non si trovano in nessun’altra parte del mondo.

Il giorno prima della partenza faccio la spesa seguendo i consigli della zia: bevande energetiche, snack vari, cioccolato amaro, una scorta di foglie di coca da offrire a quelli che condivideranno il cammino con me. Ho preparato tutto: zaino grande con sacco a pelo (che saranno trasportati dai cavalli portatori), zaino piccolo pieno di snack e qualche cambio di abiti (per le esigenze giornaliere).

L’indomani mi sveglio e sono pronto alle 4 e 30. La temperatura è molto bassa. Indosso un poncho col cappuccio. Fortunatamente il pulmino che viene a prenderci è puntuale. Il viaggio dura tre ore e mezzo fino a Mollepata, il punto di partenza a 2800 m. Lungo il percorso cerco di dormire mentre un timido sole comincia ad apparire in cielo.

All’arrivo a Mollepata faccio conoscenza con altri membri del gruppo: una coppia irlandese, uno svizzero, un israeliano, una giapponese, una tedesca ecc. Siamo circa una quindicina. Sono l’unico italiano.

Jorge è il capo del gruppo. Un’altra guida è Climaco, entrambi parlano pochissimo inglese.

Le bande si danno un nome. Iniziano le solite dinamiche di gruppo a cui partecipo sempre con sospetto e senza troppa convinzione. I portatori caricano i cavalli con gli zaini, tende e vettovaglie.
Il cammino, subito in salita, inizia da Cruzpata, alle otto. Ci sono insetti, simili a piccole mosche, pungenti come zanzare. Il paesaggio è splendido. Jorge mostra subito due piante endemiche: un tipo particolare di fico di India che in Perù usano per colorare di rosso e il tara tara, le cui bacche servono per infusi contro il mal di gola.

Lungo il percorso vedo un cuy, un porcellino d’India, una delle specialità culinarie cusqueñe.

Quando ci fermiamo offro quattro foglie di coca per ciascuno alle guide e ai compagni di viaggio.

Poco oltre i 3000 metri di altitudine la vegetazione sparisce: montagne brulle e valli sempre più profonde.

Arriviamo a Sayllapata e ci fermiamo per il pranzo, organizzato dal cuoco del gruppo.

Appena ripartiamo, nelle vallate brulle, di pietre e arbusti bassi, vediamo campesinos in groppa a cavalli. Di solito sono al galoppo ed emettono versi gutturali mentre conducono mandrie di cavalli.

Vorrei osservare meglio il paesaggio, ma sono troppo concentrato sul mantenere il ritmo e il respiro. Nonostante mi sia preparato fisicamente nei mesi precedenti, il percorso è oggettivamente molto duro. La catena montuosa Vilcanota contiene due tra le venti montagne più alte delle Americhe.

Oltre il limite del bosco si trovano vasti terreni erbosi con una rada vegetazione di rampicanti, rovi e cespugli fitti. Non ci sono alberi ad alto fusto, ma arbusti bassi, spinosi e resinosi.

In lontananza intravedo i monti Salkantay coperti di neve.

La valle a un certo punto si restringe, noi risaliamo fino a 3800 m., davanti a noi appare una cima innevata di nome Humantay.

L’accampamento si chiama Soraypampa e arriviamo verso le 5 e 30 del pomeriggio. Abbiamo camminato con ritmo sostenuto per più di nove ore.

Ci sono fattorie con recinti di cavalli. Intorno razzolano galline. Vedo anche maiali e cani.

Il campo viene montato sotto una tenda molto grande. All’interno del telone sono già montate altre piccole tende, ognuna per due persone.

Appena scende il sole la temperatura si abbassa quasi a zero, il buio è immediato.

Sotto una tettoia bevo mate di coca e aggiungo le bacche di tara tara. Dà sollievo alla gola. Mi lavo con le salviette umidificate. Indosso tre paia di calze contro il freddo.

foto 1

Per cena mangiamo una zuppa di cereali e un piatto unico di carne e verdura mista.

Le stelle appaiono in cielo e c’è una luna magnifica che risplende.

L’unico bagno turco, montato fuori dall’accampamento, è protetto da una casupola in pietra.

foto 2

Mangiamo verso le sei e mezza.

Subito dopo mi infilo dentro il sacco a pelo, non caldissimo (ricordo le parole della zia: “Ricevi il trattamento per il prezzo che paghi”); dormo vestito, mi tolgo solo gli scarponi da trekking.

Quando dormo sogno di stare al caldo.

Mi sveglio e sento i piedi sempre freddi.

28 luglio 2012.

Sveglia alle 5.  I gruppi si dividono. Una parte di noi parte a piedi, l’altra metà invece decide di affittare i cavalli perché dopo solo un giorno di trekking sono allo stremo delle forze.

Colazione con mate di coca e cioccolato amaro.

All’alba partiamo.

La salita è molto impegnativa da subito, soprattutto per l’aria rarefatta, data dall’altitudine. Di fronte a noi si apre il paesaggio del Salkantay, una cima di 6200 m., piena di neve e ghiacciai. Osservo i campesinos imbrigliare i cavalli. Il caballero stringe i finimenti imprimendo forza, col piede, sulla pancia della bestia. Una donna piccola, tozza, crucciata, dall’ età indefinibile, lo aiuta. Un vecchio con una faccia da mezzo scemo sarà la guida del gruppo e il responsabile dei cavalli fino al paso Salkantay. A 4600 m. Poi sarà discesa, quindi non converrà più andare a cavallo.

Vado a piedi cercando di mantenere un passo e un respiro costante; Talvolta i cavalli che portano tende, cibo e i nostri zaini pesanti ci superano. Vedo foreste incontaminate e paesaggi andini di incomparabile bellezza. Il sentiero roccioso si trova in una ripida salita. Si alza un vento freddo. Con il passare delle ore, coltri di nubi spesse coprono la vista del Salkantay. Ponti di legno si inarcano sopra torrenti oscuri e pareti rocciose. Il torrente nasconde altre rocce.

Arriviamo al passo di oltre 4600 m, felici per avere superato la prova. Non sento minimamente il soroche (mal di altitudine). Le foglie di coca e il cioccolato amaro stanno funzionando.

Siamo vicini al ghiacciaio del Salkantay, ma le nuvole basse purtroppo non ci permettono di vedere le cime. Sono solo le 10.30.

Mi faccio scattare la foto di rito col cartello vicino; sono sorridente e a gesti è come se dicessi: “Ce l’ho fatta”.

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Il mezzo scemo chiede la propina, la mancia, ma per sua sfortuna ho lasciato i soldi nel bagaglio caricato dai cavalli.

Prima di iniziare la discesa facciamo il pachamama, il “pago alla terra”, l’offerta rituale per la terra. Servono foglie di coca. Sono stato eletto fornitore ufficiale perché, consigliato giustamente dalla zia, ne avevo comprato un sacchetto intero al mercato di San Pedro qualche giorno prima.

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Tutti in circolo osserviamo Jorge che officia la cerimonia, mentre Climaco, come al solito sorridente, spiega a tutti cosa fare. Ognuno di noi tiene tre foglie in mano. Jorge le dispone nella sua mano, a forma di Chakana (detta anche croce andina o croce quadrata), un simbolo millenario originario dell’Amazzonia. La Croce andina simboleggia i tre mondi: il mondo sotterraneo (gli inferi), questo mondo (la terra) e il mondo superiore (il cielo). I tre livelli sono rappresentati da tre animali: il serpente, il puma e il condor. Letteralmente, Chakana è un vocabolo di origine quechua, deriva dall’unione delle parole chaka (ponte, unione) e hanan (alto, grande). Chakana sta a significare quindi unione con l’Hanan Pacha, ovvero il mondo superiore, il mondo dei cieli dove vivono le divinità. Jorge continua a parlare di Trinità cercando continue connessioni, anche forzate: aria, mare, terra; padre, figlio e spirito santo; ultraterreno condor, terreno puma, sub terreno serpente.

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Intanto nella mano destra ognuno di noi impugna una pietra. Poniamo le offerte sotto le pietre. Verso un goccio di gatorade come dono alla terra.

Dopo la cerimonia siamo pronti per la discesa rocciosa.  Un sentiero selciato costeggia un rigagnolo scintillante, il fiume Salkantay. Si affaccia un bel sole da dietro le nuvole. Ci fermiamo a mangiare a Huayramachay a 3700 m. Mangio di gusto. Una zuppa di verdure, un secondo a base di pollo, mate di coca per concludere. Mi assopisco appoggiato ad una roccia, steso sull’erba, per una mezz’ora. Ricomincia la marcia. Ci aspetta una discesa fino a 3000m lunghissima, per un totale di 23 km. Abbiamo solo tre ore di luce.

 

Verso i 3500 m di altitudine comincia la vegetazione, inizia a piovere e i colori diventano verde putrefatto; ci sono acquazzoni tropicali andando in basso. Verso Collpabamba, vediamo case in legno col tetto di lamiera. Lungo il sentiero ci sono case in adobe e mattoni, abbarbicate sul costone di una valle. Piove ancora a tratti. Camminiamo più a rilento immergendo i piedi nella fanghiglia. Dopo un’altra ora e mezza di marcia forzata raggiungiamo una larga piana, a 2850 m, a Challway. Le nostre tende e gli zaini sono arrivati coi cavalli, prima di noi. È tutto bagnato, anche gli ultimi gruppi arrivano zuppi d’acqua. Constato che il mio zaino è bagnato. Fortunatamente posso usare gli indumenti chiusi in altri sacchetti di plastica. Le tende sono state già montate.

La pioggia finisce e spunta un timido sole. Sono già le 16:30, ma manca poco all’arrivo della sera.

Jorge e Climaco ci prendono in giro, ci sfidano a giocare a pallone con i bambini del villaggio. Noi siamo stremati. Dalla veranda di una casa all’interno dell’accampamento, osservo le nostre guide tirare calci e correre instancabili. Non riesco a capire dove possano trovare le forze.

Si fa buio. Per cena ci propongono spaghetti scotti, immangiabili, ma per la fatica giornaliera, ingollo qualsiasi cosa. Cala il buio e fa freddo.

Jorge, alla fine della cena, si presenta con cucineri e caballeri per chiedere una propina.

Andiamo subito a letto. C’è un solo bagno anche stavolta; un unico lavandino per il lavaggio delle vettovaglie.

Cado in un sonno profondo per sfinimento.

29 luglio 2012.

L’alba. Un condor volteggia sopra di noi. Facciamo colazione.

Sento la stanchezza dei giorni precedenti.

Passiamo da montagne innevate alla foresta tropicale molto rapidamente. Non è più quella che le guide chiamano “seca de selva”. È sicuramente il paesaggio più bello visto finora. Attraversiamo ponti di legno in sospensione pericolante su torrenti tortuosi, sentieri rocciosi e difficili.

Cammino nella rainforest (foresta pluviale). Crescono felci. La guida dice che le patate crescono fino a un’altitudine di 3000 metri, l’avena addirittura fino a 4000 metri. Purtroppo arrivano le nuvole. Indosso il solito poncho, ma si scatena un altro acquazzone che arriva e se ne va velocemente.

Passiamo un crocevia di valli, la vegetazione è ormai tropicale, si scende di altitudine, il caldo comincia a farsi sentire. Mi tolgo il poncho e rimango in camicia. In realtà il tempo è molto instabile: piove, sole, piove; freddo, caldo, freddo. Cambio abiti spesso. Facciamo diverse pause. Le salite sono faticose, ma reggo bene grazie all’apporto della coca e del cioccolato amaro.

Entriamo in una valle lussureggiante di alti banani e orchidee rigogliose. Passiamo oltre bellissime cascate di acqua torbida, le farfalle multicolore svolazzano.

Arriva un altro diluvio e ci chiudiamo sotto un telone per il pranzo.

Il cucinero stavolta ci ha preparato il guacamole, un pasto molto meglio degli spaghetti “colla” del giorno prima.

Attraversiamo un villaggio di Lucmubamba. Arrivano bambini laceri e all’apparenza affamati. Chiedono da mangiare. Mi sono rimaste solo delle gallette. Le divido fra loro. Mi accorgo dai loro sguardi che non si aspettavano il salato. Probabilmente volevano il dolce. Si allontanano disgustati e provano a chiedere cibo ad altri trekker.

Subito dopo pranzo raccogliamo i nostri zaini e ci stipiamo nel bus collettivo diretto a Santa Teresa. Un pulmino pieno fino all’osso.

Una voce dal tetto dice che arriva un camion. Incuriosito mi sporgo fuori dal finestrino e vedo Climaco, insieme ad altre guide, posizionato sul tettuccio, sopra le nostre borse, a far da vedetta.

Tutti scoppiano a ridere.

Mi stacco dal gruppo ad Hidroelettrica, un piccolo villaggio dove inizia o finisce la ferrovia che parte da Ollantaytambo. Faccio le ultime tre ore con l’idrotreno fino ad Agua  Caliente o Macchu Picchu Pueblo, per leggere, scrivere, raccogliere le idee e, soprattutto, le forze. È un bellissimo percorso tra la vegetazione equatoriale, con le montagne di Machu Picchu sopra di me.

Arrivo verso le 15.30 e prendo una stanza spartana all’Ollantay hotel. Dopo i giorni di accampamento, bagno in comune e salviette umidificate, posso finalmente farmi una doccia e rilassarmi.

Esco verso le 6 e giro per il paesino turistico, ma allo stesso tempo vero, reso affascinante dal fiume Urubamba che lo taglia perfettamente a metà.

Arrivo a Plaza de Armas, una piazza di basole molto suggestiva grazie all’illuminazione giallognola e fioca. Da lì parte l’avenida dedicata a Pachacutec, l’inca che verso il 1440 conquistò la gola di Picchu, divenne primo imperatore inca (1438-1470) e fece costruire Macchu Picchu, in seguito alla sua campagna nei pressi di Vilcabamba.

Consumo una cena soddisfacente con il resto del gruppo (che arriva dopo perché si è impegnato in altre attività che a me non interessavano, ovvero lo ziplining in non so quale località).

Sono molto stanco, ma continuo a passeggiare per il paesino dalle case basse in stile coloniale; torno all’Ollantay hotel solo per le nove.

Cado in sonno profondo.

30 luglio 2012.

Mi sveglio per le quattro del mattino.

L’appuntamento è al secondo ponte con Jorge e il resto del gruppo alle 4 e 20.

Inizia il pellegrinaggio. Passiamo il check-in, quindi saliamo verso il Macchu Picchu al buio.

Un’ora e mezza di cammino illuminato solo dalle nostre lampade, tutto in salita, con gradini di pietra molto irregolari e alti. Saliamo fino a oltre 3000 m, ovvero 600 m di dislivello.

Stiamo in silenzio e solitudine gran parte del tempo limitandoci a poche chiacchiere di cortesia.

Sono soddisfatto per non aver preso il bus.

È bello arrivare mentre comincia ad albeggiare. A un certo punto spengo la luce della lampadina.

C’è un altro check-in per mostrare il passaporto.

Il complesso monumentale apre solo alle sei.

Il panorama generale è stupendo: le cime, i canyon profondi, il verde lussureggiante. Da un lato si aprono montagne a punta, verso est, e il Rio Urubamba: la “seca de selva”. Dall’altro lato, a ovest, in lontananza, si alzano i monti innevati: la cordillera.

La città in pietra appare nella sua magnificenza immediatamente. Il Macchu Picchu è considerata una delle 25 migliori escursioni del mondo

La posizione della città è stata a lungo un segreto militare ben custodito, in quanto i profondi dirupi che la circondano erano la sua migliore difesa naturale.

È un mistero che abbiamo costruito una città di pietra, di queste dimensioni, in cima ad un “istmo” tra due montagne e tra due faglie, in una regione costantemente sottoposta a terremoti e, in particolare, ad abbondanti piogge durante tutto l’anno. I terrazzamenti sembrano piccole fortificazioni costruite sul lato della collina. Sono muri di pietra con materiali diverse che facilitano il drenaggio, evitando che l’acqua si fermi in esse.

La città è divisa in 2 settori: hanan (alta) e hurin (bassa), in accordo alla divisione tradizionale della società andina divisa tra inca (i nobili) e quechua (il popolo).

Jorge dice che circa un terzo delle rovine sono state ricostruite. È facile immaginare come fosse la città ai tempi degli inca: una piazza principale fiancheggiata da case in pietra, templi, botteghe, bagni, un palazzo reale, circondato da terrazze in pietra, dove venivano coltivati mais e altre piante.

Jorge racconta la classica storia: la città fu “scoperta”(diciamo) da Hiram Bingham nel 1912, ma in realtà era abitata da indigeni molti anni prima. Bingham l’ha solo reso famosa. In tempi antichi potevano risiedervi al massimo 750 persone alla volta e, probabilmente solo durante la stagione delle piogge.

Jorge mostra la classica foto del profilo di Macchu Picchu. Macchu in quechua significa grande, picchu significa uccello. Jorge gira e rigira la foto tra le sue dita per mostrare un condor, ma guardando bene si riesce a decifrare anche il profilo di un volto inca. Quindi le rocce sono state scolpite dalla natura o dall’uomo per assomigliare a un grande uccello andino oppure a una testa.

Il tempio del sole, dove c’è l’Intihuatana (ovvero l’orologio solare), è l’edificio più importante: si tratta di una specie di osservatorio astronomico che segna perfettamente i solstizi.

Jorge mostra una lastra di pietra e dice che all’inizio del 2000, durante la registrazione dello spot pubblicitario di una birra peruviana, una gru è caduta sulla lastra rompendo quasi 8 cm della punta dell’orologio solare.

Jorge aggiunge che se ti concentri abbastanza e tocchi la pietra puoi ricevere energia direttamente dal sole.

Ci sono fontane a cui i lama vanno ad abbeverarsi. Spunta finalmente il sole (in quechua “Inti”) dal tempio delle tre finestre; le costruzioni in pietra sono ancora più suggestive quando entra Inti.

Jorge spiega la tecnica con cui i muratori quechua spaccavano le pietre. Inserivano legni fradici di acqua che si allargavano a poco a poco fino a tagliarle perfettamente.

In realtà molti misteri sulla costruzione rimangono.

Saluto Jorge e il resto del gruppo non appena arrivo alla Rocca sacra, per venerare Apu (monte) Montana, la montagna all’estremo opposto del Wayna Picchu.

Offro una propina a Jorge prima di congedarmi definitivamente da lui. Procedo da solo addentrandomi tra costruzioni in pietra. Vedo piante di coca. Vado verso il punto più alto per scattare foto del condor o della faccia di inca (a seconda dell’interpretazione).

I lama quasi danzano, con eleganza e movimenti lenti. Sono perfettamente integrati con il paesaggio. Tranquilli. Si fanno avvicinare. Uno fa un verso che assomiglia al pianto di un bambino.

Seguo le indicazioni per il ponte inca. Abbandono la folla che si è formata. All’alba eravamo in pochi, ma adesso sono le 10 e 30 e i turisti arrivano a frotte. Mi incammino verso il sentiero alberato. In cima a un poggio, vedo un altro banchetto per firmare ed esibire il passaporto.

Il sorvegliante mi dice 20 minuti “hasta ponte inca”. Il sentiero a picco è strettissimo, sale e scende, e spesso non si passa in due.

Arrivo al ponte di legno in 10 minuti. Il lavoro è interrotto a metà e il ponte non congiunge niente. Chissà, in Sicilia avranno preso ispirazione da qui per le opere incompiute?

GIANCARLO LUPO