IL NUOVO LIBRO DI GRAN-AYMERICH PER “L’ERMA”
di FRANCESCO CORRENTI ♦
L’appuntamento è a metà pomeriggio negli uffici della casa editrice. Non ci vediamo dalla loro ultima venuta a Roma, due anni fa, ma ci siamo tenuti frequentemente in contatto, aggiornandoci reciprocamente degli avvenimenti famigliari e professionali. L’inevitabile alternarsi di notizie buone e cattive, con qualche periodo di apprensione e altri di compiacimento, si sa, c’est la vie.
Come in tutti gli ambienti del genere, il bibliomane è pervaso da una sensazione di benessere assoluto. Si sente a casa propria, ma con in più la curiosità di posare lo sguardo su centinaia, migliaia di “dorsi” sconosciuti, allineati su scaffali o impilati su tavoli, con quell’odore, direi piuttosto profumo, che ne proviene. Come autore di alcune case editrici, ho provato spesso nel corso degli anni questa reazione dell’animo, nei numerosi incontri con Vito Laterza e poi con gli specialisti delle varie fasi editoriali, nelle lunghe sedute con Aldo Quinti e la signora Jolanda (Officina edizioni), nelle riunioni organizzative con Luigi De Luca e, in queste stesse stanze, con Roberto Marcucci e la consorte signora Elena Montani, al tempo del precedente volume di Jean Gran-Aymerich e di Almudena Domínguez Arranz sulla Castellina del Marangone, di cui ho scritto una introduzione.
Ed eccoci, finalmente, di nuovo insieme, con Jean ed Eve, a salutarci, a scambiarci le impressioni sull’aspetto e sui problemi di salute superati, le notizie dei famigliari e soprattutto dei nipotini, i complimenti per i successi di alcune iniziative. Ma il tempo è poco e Jean deve registrare per la casa editrice un breve filmato per illustrare il nuovo volume, di cui avevo avuto delle anteprime e che finalmente vedo terminato, stampato e rilegato, e posso prendere in mano, sfogliare, soppesare. Perché, indubbiamente, tutti i volumi de “L’Erma” di Bretschneider – e quelli dell’amico archeologo franco-catalano come gli altri – si caratterizzano per la straordinaria qualità editoriale, per l’indiscutibile valore scientifico, per il prezzo (adeguato al prodotto), per il numero di pagine e di illustrazioni e, quindi, per il peso. La Castellina del Marangone, 1168 pagine con 1224 illustrazioni e 364 tavole fuori testo, superava i tre chilogrammi e mezzo di peso, questo, Les vases de bucchero, 700 pagine e 386 tavole fuori testo, raggiunge i due chili e seicento grammi, pesati su una vecchia bilancia da cucina. Per non dire del peso culturale di queste due opere, purtroppo di limitata diffusione, che ci fanno scoprire aspetti fondamentali ed in gran parte sconosciuti della civiltà etrusca e della storia antica dei nostri territori.
Mi seggo da una parte con gli altri e ascolto l’esposizione, registrandola a mia volta e riascoltandola la mattina dopo. La traduco dal francese in queste pagine, aggiungendo altri particolari, fattimi notare più tardi da Jean-José, sorseggiando un americano nel bar dell’Auditorium Parco della Musica, mentre mi mostrava alcuni disegni e grafici inediti del volume che ha voluto donarmi con una bella dedica. Ne è venuta fuori una specie di lezione-intervista, che propongo volentieri ai lettori di Spazioliberoblog, perché credo che il volume sul “Bucchero” rappresenti veramente un evento editoriale di grande rilievo, essendo, tra l’altro, la prima volta che quella creazione peculiare dell’artigianato artistico degli Etruschi è oggetto d’uno studio d’insieme e di tale ampiezza, in cui è trattata integralmente questa materia.
Nato a Barcellona, Gran-Aymerich ha conseguito il dottorato a Parigi alla Sorbona, venendo poi a Roma e frequentando la scuola di archeologia di Perugia. Fu lì, nel 1968, su suggerimento di Massimo Pallottino, che nacque l’idea di studiare i vasi in bucchero etruschi del Vaticano, dopo aver già avuto la possibilità di esaminare quelli del Louvre.
Da allora, oltre alle numerose attività di ricerca e di scavo svolte in Francia, Italia, Spagna e Tunisia, l’approfondimento di quelle prime indagini scientifiche ha costituito un filone costante dei suoi studi, avendo compreso il significato anche simbolico che il bucchero rappresentava per il popolo tirrenico, nei secoli in cui hanno conteso ai Greci ed ai Fenici l’egemonia marittima e commerciale del mondo mediterraneo prima del sopravvento di quella romana. Il volume ora pubblicato è la summa di tali studi, il loro risultato finale. Come detto, si tratta di un volume abbondantemente illustrato, con il corredo di un CD-ROM in cui è contenuta tutta la bibliografia, con circa 390 illustrazioni in buona parte a colori ed inedite. Il volume, oltre all’introduzione ed alla conclusione, è diviso in sette parti: la storia degli studi e delle testimonianze antiche; le tecniche di fabbricazione; le forme; le decorazioni e le iscrizioni; la cronologia e le fabbriche; i servizi e le funzioni; l’eredità e le influenze culturali. Nelle illustrazioni in bianco e nero, sono riprodotte una serie di figurine che costituiscono una specie di teatro delle ombre etrusco, suscettibili di varie interpretazioni e messe in evidenza per la prima volta. La ceramica nera degli Etruschi, appunto il bucchero, era molto diversa dalla ceramica dei fenici e quella figurata greca. Per questo motivo, si riconoscono alla ceramica nera etrusca o tirrenica le caratteristiche di un prodotto nazionale tipico e originale, che esprime anche una volontà di richiamarsi agli antenati ed al mondo primitivo delle origini.
Si inserisce qui la suggestiva questione della toreutique, parola utilizzata anche in Italia (toreutica) per indicare «l’arte di cesellare, incidere e scolpire sui metalli o su avorio», quindi di lavorare oggetti in tali materie ad incavo, a rilievo, a cesello, a sbalzo, a bulino e quant’altro, per scopi artistici e decorativi o rituali o funzionali. Gran-Aymerich, nel capitolo sulle tipologie dei vasi in bucchero del volume, ricorda che il termine è stato usato da Antoine C. Quatremère de Quincy (Parigi 1755-1849) a proposito del XXXIII libro (Metallorum natura) della Naturalis historia di Plinio il Vecchio. Gran-Aymerich riprende e rafforza le tesi ottocentesche sui legami tra vasi ceramici e vasi metallici in Etruria, dedicando molti paragrafi al goût toreutique, al gusto toreutico, ovvero alla moda di imitare in terracotta i vasi di metallo, che probabilmente è all’origine del bucchero. Inoltre, egli approfondisce la forte influenza della civiltà orientalizzante e dimostra quanto il bucchero offra le più ampie possibilità “toreutiche” nelle tecniche di fabbricazione e di decorazione, nelle composizioni ornamentali, nei motivi iconografici e nelle forme.
Ma, secondo il nostro Autore, i vasi in bucchero «a forte gusto toreutico» non sono una semplice imitazione dei modelli metallici. Utilizzando un termine proprio della paleontologia, egli individua nell’anfora ad anse piatte quello che chiama il «fossile-guida», il modello tipologico, la cui evoluzione consente la datazione degli altri manufatti. Da ciò, Gran-Aymerich giunge alla classificazione delle modificazioni del bucchero e si addentra in deduzioni affascinanti e altamente specialistiche, per la cui piena comprensione è appunto necessaria una attenta lettura del volume. Che non ho ancora avuto il tempo di fare, per cui non entro in quei meandri archeologici. Accennando, però, ad alcuni spunti divertenti e intriganti captati nella scorsa sommaria del libro, come il fenomeno designato come “paradoxe du prototype luxueux”, riferito proprio al suddetto tipo di anfora, la cui lenta trasformazione in località anche distanti tra loro, smentisce la semplicistica attribuzione d’una derivazione di certe forme di vasi in bucchero da modelli metallici. I due «prototipi lussuosi», il vaso metallico e il vaso attico, risultano quindi delle esche ingannevoli, essendo invece dimostrata una ben più complessa vicenda di influenze reciproche ed alterne. «L’autoctonia e la lunga evoluzione del fossile-guida (l’anfora ad anse piatte) non contraddice la persistenza dei legami tra bucchero e produzione di prestigio, che siano locali (metallo) o d’importazione (vasi attici). Al contrario, le lussuose anfore metalliche del VII secolo o più tardi le anfore di Nicostene (ceramista con bottega ad Atene, attivo dal 550 al 510 a.C.) sono degli indicatori sicuri di trasferimenti [di idee e modi] (traduco così la parola transferts usata da Gran-Aymerich) tra officine, che non derivano da influenze a senso unico ma con delle azioni di ritorno.»
Dalle risultanze dello studio del sito di Cartagine in Tunisia, dove si è trovata la maggiore concentrazione di vasi e di oggetti etruschi fuori d’Etruria, Gran-Aymerich ha tratto l’ipotesi della presenza d’un fondaco etrusco, ossia d’una specie di consolato del mare, particolarmente legato agli etruschi di Caere, l’attuale Cerveteri. In effetti vi sono diverse prove di rapporti molto antichi tra ceretani e cartaginesi. La grande quantità di vasi per usi medicinali o cosmetici e di stoviglie da tavola nella necropoli punica ha fatto supporre la presenza a Cartagine di donne etrusche nel quadro di scambi diplomatici e di matrimoni misti
Gran-Aymerich tiene a sottolineare che il suo libro, quasi un manuale, «fornisce tutti gli elementi necessari a comprendere l’origine di questa ceramica, le sue numerose influenze orientali ma anche le sue radici protostoriche locali, che sono fondamentali e determinanti». Mi fa notare le molte pagine in cui «viene analizzata la diffusione del bucchero in Etruria e nella penisola italiana, come è molto interessante la ricostruzione della sua diffusione nel bacino del Mediterraneo, perché in effetti il bucchero (e specialmente il cantaro, la coppa biansata a manici molto alti e sottili) è il primo prodotto dell’Europa occidentale che tra il VII e il VI secolo a.C. è stato conosciuto nel Mediterraneo orientale e occidentale, ossia nelle città greche, nella Siria e in Asia minore, in Egitto e su tutta la costa dell’Africa settentrionale, a Cartagine, fino all’estremità atlantica e in Spagna e ancora nel mezzogiorno della Gallia, cioè della Francia attuale».
«In definitiva – conclude Gran-Aymerich –, i vasi di bucchero sono un vero e proprio specchio della civiltà etrusca al suo apogeo nel VII e VI secolo a.C., ma si tratta di uno specchio frantumato, dove i suoi molteplici pezzi focalizzano le innumerevoli sfaccettature di quel popolo, come un caleidoscopio. Quindi, ne risulta un gran numero di immagini diverse, che tuttavia hanno una complementarietà illuminante. È appunto di tutte queste diverse schegge della storia etrusca e della loro matrice unitaria, quindi di un quadro generale molto complesso, che il volume intende fornire un’approfondita e sistematica illustrazione, esposta in modo estremamente semplice e tuttavia molto avvincente per il lettore curioso.»
La presentazione ufficiale del volume è stata fissata per il giorno 7 dicembre 2017 nella Sala Conferenze dei Musei Vaticani, con l’introduzione del Direttore dei Musei Barbara Jatta e con l’intervento di Maurizio Sannibale, Curatore del Reparto Antichità Etrusco-Italiche degli stessi, e di Mario Torelli, Accademico dei Lincei, presenti l’Autore e l’Editore.
FRANCESCO CORRENTI
Ho letto l’articolo con molto interesse. Piacevole il clima descritto all’inizio,che crea empatia per i malati di bibliomania. Probabilmente si tratta di quel gruppo di archeologi francesi che da anni soggiornavano nella foresteria della Repubblica dei Ragazzi. Conosco abbastanza, per i suoi pregi naturalistici, la Castellina sul Marangone e la foce del Marangone. Sull’altura presso la foce ” si dice” che esistesse un santuario, magari fosse stato etrusco! Forse potrebbe dire qualcosa di più Fabrizio, che da bambino seguiva il padre Fernando nelle ricerche di epoche primitive sulla costa, perché, Francesco, noi nativi, unici a saper correre a piedi nudi sugli scogli, conosciamo, per ” esperienza”, ogni tratto di costa ! Riguardo alla Castellina sentii dire che si respira un’aura strana,si dice che in quel luogo vi fu un’aspra battaglia che lasciò molti morti sul campo.
Sul BUCCHERO tu hai soddisfatto ogni sete di conoscenza!
Posso dire che anche noi abbiamo un bucchero in casa…ma plasmato da Omero, l’ultimo degli Etruschi di Tarquinia!
Achille e Troilo su di un bucchero etrusco non ci sorprendono, del resto gli Etruschi provenivano dalla LIDIA,senza togliere nulla alle radici protostoriche locali del popolo etrusco.
Saluti !
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Quegli anni che videro il puntuale arrivo a Civitavecchia, con la bella stagione, delle missioni franco-tedesco-spagnole per gli scavi sulla Castellina, cara Paola, furono anni straordinari. Il Comune di Civitavecchia aveva la capacità di svolgere un ruolo di anfitrione e di mecenate illuminato e generoso (grazie anche alla disponibilità dei “fornitori”), avendo pure lo scopo di onorare gli ottimi rapporti di collaborazione con la Soprintendenza Archeologica dell’Etruria Meridionale. Quasi tutti gli amministratori comunali, come pure noi dirigenti e funzionari, si era soci attivi ed entusiasti dell’Associazione Archeologica “Centumcellae”, ancora unica e indiscussa consorteria cittadina dei cultori di antichità. C’era anche la gioventù, tanto di noi locali, quanto delle componenti straniere (uso le parole con un po’ di malizia) provenienti da Parigi, Tubinga e Saragozza: la scarpinata per salire in cima alla Castellina non era davvero un problema!
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