C’era una volta il porto di Civitavecchia, o, meglio, la Calata Principe Tommaso.
di ENRICO IENGO ♦
Erano i favolosi anni 60.
I ricordi si materializzano e si confondono con sensazioni ed emozioni.
Nel pomeriggio, alla spicciolata, la Calata cominciava ad animarsi. Aprivano i magazzini del pesce; alcuni, come mio padre, arrivavano dopo il film al cinema Traiano (a proposito: ogni giorno un film nuovo e di qualità) o un caffè al Bar Genova.
Nell’attesa dell’arrivo delle paranze, i pescivendoli, fra lavori preparatori e pause libere, scherzavano o facevano appassionati discorsi di politica o di costume, sempre animatamente e rigorosamente a voce alta.
Ad un certo punto arrivava “Pippo” Benedetti, uomo di buona dialettica, amico di mio padre, come erano stati amici i rispettivi genitori, antifascisti e spediti al confino.
I due, da sempre socialisti, sostenevano con accesi dibattiti la loro fede, nutrita da una vocazione ideale che aveva le sue radici nel socialismo libertario e che li portava ad essere sempre all’opposizione nel loro partito, minoranza critica, ma leale.
Nel frattempo iniziava lo spettacolo quotidiano della Calata: si assisteva alla passerella di uomini, donne, soli o con la famiglia, che venivano per acquistare pesce fresco, o per passeggiare, o per incontrare amici, o semplicemente per assistere all’arrivo delle paranze, curiosando e pronti a lanciare commenti meravigliati allo scarico del pesce.
Erano tanti e la loro presenza rappresentava il quotidiano, doveroso e rispettoso saluto al loro porto.
Mai puntuale e annunciato da acuti fischi che rompevano l’atmosfera “sonnacchiosa”, ecco arrivare il “Sardo”, Il treno che scaricava persone e merci da imbarcare sul Postale. Dialetti sardi si mescolavano con le esclamazioni in puro slang civitavecchiese di portuali, ormeggiatori, facchini. C’era un brulicare di umanità varia, generalmente allegra, vivace, “caciarona”, ma soprattutto vera, genuina. Era una comunità che si ritrovava quotidianamente, che si riconosceva; un piccolo, grande mondo che conviveva con il mare, inglobandolo, senza un vero confine. Ci si chiamava spesso per soprannomi e in ciascun soprannome c’era una storia, dei caratteri, o tratti fisiognomici, addirittura un albero genealogico che si tramandava di padre in figlio.
Il culmine di questa atmosfera festaiola si raggiungeva con l’arrivo delle paranze: queste, seguendo un ordine misterioso e prestabilito, venivano riconosciute e annunciate, quando ancora molto distanti, con i loro nomi, quasi fossero creature viventi, familiari da accogliere con affetto e riconoscenza: il “Palombaro Padre” di mio padre, il “San Nicola” degli zii, il “Palestina” e tante altre.
Mi colpivano sempre i volti dei pescatori: volti trasfigurati dalla stanchezza, con profonde rughe scavate dal sole e dalla salsedine e con poca voglia di parlare.
Sembravano personaggi usciti dal capolavoro di Hemingway: “Il vecchio e il mare”, che al tempo avevo visto al cinema, con l’interpretazione indimenticabile di Spencer Tracy. Mi ricordo anche il loro evidente desiderio di tornare a casa, che si manifestava nelle espressioni mute, ma eloquenti: avevano lasciato il loro letto nella prima parte della notte e ora dopo 15-16 ore di lavoro erano sfatti dalla stanchezza.
Mentre nell’aria si spandeva il pungente odore del pesce e quello acre della nafta, il flusso di gente, spettatore e attore di un teatro itinerante, si spostava dalla banchina ai magazzini.
Qui il pesce appena pescato veniva pesato, sistemato in cassette e destinato in parte al mercato del giorno successivo, in parte, non senza interminabili contrattazioni, ai ristoranti e ad altri commercianti di pesce, in parte veniva venduto al minuto.
Se si guardava fuori dai magazzini, si metteva in scena uno spettacolo dalla coreografia “felliniana”: annunciata dal suono acuto della sirena, la partenza del Postale, pieno di luci e di umanità che salutava allegra.
A questo punto lentamente il sipario calava sul porto: la gente rientrava per la cena, i magazzini uno dopo l’altro spegnevano le luci ed un silenzio quasi irreale, se confrontato con il confuso vociare di prima, scendeva sul porto.
Questo era lo spettacolo che andava in scena quotidianamente e che vedeva protagonisti i cittadini: porto e città erano la medesima cosa, non era immaginabile separarli; un pensiero unico, una identificazione totale, un’appartenenza fatta di passato e presente, di generazioni di famiglie, di lavoro, di sofferenza, di lotte. Lì cominciava da sempre la vera città e ciò che seguiva non poteva esistere se non come sua fatale propaggine, senza soluzione di continuità.
Un giorno, verso la fine degli anni 70, da qualche tempo non frequentavo più con assiduità la Calata, seppi da mio padre che avevano innalzato delle barriere ai due ingressi del porto: per motivi di sicurezza il porto veniva separato dalla città, i cittadini si vedevano quasi impedire fisicamente l’ingresso alla calata Principe Tommaso.
Iniziava la lacerazione che avrebbe spezzato un legame storico, lungo centinaia di anni.
Oggi, come accade a tanti cittadini, non mi capita di avere il porto come meta abituale di passeggiate salutari; ogni volta che lo faccio mi sembra di entrare in una sorta di terra di nessuno: l’atmosfera è quasi spettrale, ai limiti del surreale.
Si percepisce un’assenza.
Non c’è più l’anima della città, la sua presenza che si respirava quotidianamente in quei magazzini, nelle battute dei personaggi indimenticati, nei pescatori e nel loro legame con i cittadini. Quei cittadini che la sera si raccoglievano in quella che consideravano la loro “piazza”, il centro del paese, legati da una storia che regalava loro appartenenza e identità sociale.
Oggi la Calata evoca l’immagine di un individuo dall’Io disintegrato; in sostanza è un luogo senza identità, anonimo, un porto come in qualsiasi altra parte del mondo.
Quel processo di identificazione fra città e porto che caratterizzava la nostra storia, si è andato rapidamente dissolvendo; una comunità, che si allontanava dalla sua principale ragion d’essere, veniva lasciata sospesa nel vuoto, quasi fisicamente derubata del suo valore primigenio.
Che cosa è oggi il porto per un giovane civitavecchiese? Credo che a questa domanda la risposta più frequente potrebbe essere: “è il luogo dove arrivano e partono le crociere e le navi che trasportano il carbone”.
Tutto qui? Tutto qui.
Forse era inevitabile che in tempo di globalizzazione si arrivasse a tutto questo: che fosse importante quanti crocieristi sono arrivati in quest’ultimo anno o che il movimento mercantile sia diminuito o aumentato di un punto come il PIL; forse era inevitabile lasciare che Civitavecchia fosse una città confinante con il porto e non la città con il suo porto. Ma forse non era inevitabile e qui mi sorge spontaneo il confronto impietoso con Genova, con Trieste, il rapporto che hanno quelle città con il loro porto: d’accordo, altre città, altre storie, ma quanto a storia credo che il porto di Traiano non possa essere considerato secondo a nessuno
Una città vive, respira con i suoi spazi pubblici, intesi come luoghi le cui caratteristiche storico-sociologiche possono servire l’insieme della comunità.
Dalla città greca alla città romana, fino alla città del Rinascimento, decisivo è stato il ruolo della piazza come spazio pubblico. La piazza come luogo della mixitè e della libertà.
E’ nelle piazze che membri delle singole famiglie diventavano cittadini membri di una comunità.
Non voglio addentrarmi in questioni sociologiche che non padroneggio assolutamente, ma mi incuriosisce sapere se è il luogo pubblico che contribuisce a creare e a mantenere una comunità, o se questa può vivere indipendentemente dal legame con i suoi spazi pubblici.
Se è vera la prima ipotesi si possono spiegare tanti mali che affliggono questa città, priva della sua vera “piazza”.
Le immagini della calata Principe Tommaso, la nostra piazza, che si riempie di persone, quasi a celebrare un rito quotidiano, non intendono rappresentare nostalgicamente un improbabile periodo dell’oro, ma si coniugano con il tentativo personale di riscoprire le ragioni di una identità condivisa: pensare il futuro è anche far vivere il passato nel presente. E allora ecco le vicende, i passaggi storici, i personaggi di questa città, tutto ciò che, attraverso la storia recente, aiuti a pensare un nuovo percorso che dal concetto di spazio pubblico arrivi al concetto di città pubblica.
Rendere comuni, collettivi, pubblici una serie di spazi, ritagliati sulle caratteristiche del contesto urbano per riconoscere la città in quanto tale come struttura comune, collettiva, pubblica.
Qualche tempo fa, immerso nella lettura del quotidiano, mi è capitato di leggere un interessante articolo che parlava delle piazze e dei monumenti storici delle nostre meravigliose città.
Il titolo era:
“Gli spazi e i luoghi ci salvano dalla dittatura del presente”.
Lo faccio mio, aggiungendo: “e dalla paura del futuro”.
ENRICO IENGO
Eccellente narrazione che pone una questione cruciale circa il rapporto fra porto e città. Personalmente credo che siamo in presenza di una frattura insostenibile. Con la costruzione di un confine artificiale (anni ’70) e più tardi con la colonizzazione crocieristica dello scalo (anni ’90) Civitavecchia ha smesso di essere una città di mare. E’ soltanto una città “sul” mare. Il porto trasmette una sensazione di artificialità che lo associa a quelli che Augé ha chiamato i “non luoghi”. Strutture anonime, prive di anima e perfettamente replicabili in qualunque contesto, come un aeroporto internazionale, un gigantesco outlet, una Disneyland o una Las Vegas. Credo che la questione interroghi anche la politica e non solo quella locale. Dieci anni fa con il governo municipale delle “larghe intese” si consumò il tentativo, consapevole e tenacemente perseguito, di trasformare la città in una sorta di appendice funzionale del porto. La cui leadership e le cui strategie non sarebbero state, e non potevano essere, di competenza della comunità. Sappiamo come è andata a finire. Grazie, Enrico,della tua riflessione-provocazione.
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Ricordo, sposetto, le lunghe ed economiche passeggiate all’antemurale, arrivavamo sino alla punta e ci passava la domenica. Che fosse la parte esterna o il lato interno era sempre piacevolissimo. Quando la chiusero ci sentimmo letteralmente scippati. Pur essendo, in qualche modo straniero, ho sentito per qualche tempo il porto come facente parte della città, una risorsa anche per il cittadino apparentemente estraneo ad interessi “portuali”. Ma questo bell’articolo mi ha sollecitato una riflessione sulla dea di “globalizzazione”. Voglio dire, che questo fenomeno, lungi da essere qualcosa di inclusivo, è qualcosa che somiglia assai più ad una sorta di “controllo globale”. Mi verrebbe da dire che la “globalizzazione” è quel fenomeno per il quale in poche mani si raccoglie il controllo delle cose del mondo. Delle sorte di idrovore sottraggono il controllo delle cose a chi naturalmente lo ha. Nella fattispecie qualcuno o qualcosa ha sottratto il porto alla sua città, credo assieme ad altri porti. Con un accostamento audace mi vien da dire che somiglia un po’ alle famiglie smembrate dal lavoro altrove… Chi ha figli o coniugi che il lavoro ha separato ben lo sa come lo so io. Qualcuno dice che bisogna adattarsi al mondo moderno, all’idea di separarsi di non mettere radici, ed è quasi una colpa essere attaccati alla propria terra ed alla propria famiglia.. ma è davvero così? Ma è davvero virtuoso staccare il porto dalla città in nome del “successo mercantile” o di una sorta di isolamento dalla nefasta realtà locale? Io credo che non ci sia virtù laddove si divide.
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Vorrei prendere spunto da queste accorate espressioni di un rimpianto che, pur non essendo nativo di Civitavecchia, sento molto anche io. Non ho molta esperienza personale della vita sulla Calata, ma qualcosa ne ho appreso dalle molte fotografie dell’ultimo secolo e dalle immagini di quelli precedenti, come le vivacissime vedute dell’Hackert o le penetranti caricature di Carlo Marchionni e altro ancora. Ho nei miei ricordi bellissimi momenti vissuti nel porto di La Rochelle o in quello di Saint-Tropez alla fine dei Sessanta, con atmosfere diversissime da quelle dei nostri porti, ma anche delle pescherie di Acireale o di Tokyo (grazie al viaggio a Ishinomaki).
Ho fatto dei progetti sul porto di Civitavecchia: il mio piano del porto storico ha avuto anche dei riconoscimenti a livello internazionale ed il progetto della darsena romana, fatto con altri colleghi, è stato pubblicato sullo Yearbook di quest’anno dell’Ordine Architetti di Roma. Mi sono posto il problema di come “rianimare” (resuscitare?) il porto antico, di cui vedo io pure l’attuale deserto. Ho progettato la ricostruzione della Scaletta (è stata scelta la più semplice di una decina di soluzioni proposte da me anche con abilissimi colleghi), mo non basta (a qualcuno non piace nemmeno). Per riunire il porto alla città ci vuole altro, fermo restando che alle barriere o chiusure recenti indubbiamente Urbano VIII Barberini ha dato un supporto non da poco. Ma idee ce ne sono e altre ne verrebbero parlandone, confrontandosi con tutti, giovani e anziani, esperti o no, cittadini e non, se ci sarà il modo di farlo. Ci vogliamo provare?
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Intanto penso che sia da comprendere chiaramente e senza remore il motivo dell’attuale cancellata.
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Pippo er mio zio, a sentire i racconti di famiglia, leggenda o realtà, ragazzo irrequieto fu spedito dalla madre, tramite carabinieri a Lipari, dal padre in confino.
Oltre a essere di Civitavecchia,sono nato in via XVI settembre, davanti l’osteria di Argentina.
I ricordi della calata,della darsena romana fanno parte della mia vita. Grazie del racconto Iengo. La chiusura totale dei confini portuali da parte delle passate autorità portuali, anche se per motivi di sicurezza , è stata un’offesa,alla calata basti guardare la città dal porto , da un bellissimo arco si sbatte a un muro usato come orinatoio. Non dico di ricostruire l’arsenale di Traiano,alberghi o acquari, ognuno di noi è in grado di fare giuste piccole proposte, che possano dare dignità ad una città che di fatto ospita e circonda completamente il porto. Ci possiamo anche provare ma se il dialogo è un muro che facciamo? per saperlo bisogna almeno provare.
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Che dire! Mi complimento con Enrico,raccontare cosa era la “calata”è stato un atto di fede alla città, sono convinto che il passatotale non può essere dimenticato,anzi deve servire ad una maggiore valorizzazione del presenterritorio ed è indispensabile alla proiezione futura di una città
È con rammarico ,che sempre più vedo,come nella nostra città, ci sia una tendenza “al dimenticare”per evitare il confronto.purtroppo questo accade in quelle città che le deve essere tolto un futuro proprio,affinché il suo territorio possa venire utilizzato in pericolose servitù. Un saluto.
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