VIAGGI DI ME – (3) Sognammo che un altro mondo ….

… fosse possibile e andammo a cercarlo in Brasile

Sonhamos que um outro mundo era possível e nós fomos buscá-lo no Brasil 

 

di NICOLA PORRO

Pensieri randagi di fine estate mi riportano a un viaggio lontano nel tempo. Diverso dai soliti, né turistico né professionale in senso stretto. Il mio primo viaggio in un Paese speciale come il Brasile continua ad agire nel ricordo come un’immateriale matrioska della memoria. Capace di ospitare piccole e grandi storie, personaggi singolari e testimonianze sorprendenti.  Cercherò di ripescare qualche caso fra quelli che a distanza di sedici anni continuano a suscitare in me emozioni e riflessioni ancora attuali.

Il viaggio si svolge nell’ultima settimana di gennaio del 2001. La destinazione è la città di Porto Alegre.  Capitale della sterminata regione meridionale dei Rio Grande, contava all’epoca quasi un milione e mezzo di abitanti. Da qualche tempo era divenuta la città simbolo di un’esperienza di “democrazia partecipativa” unica al mondo, promossa da un’amministrazione progressista e portata a esempio di una pacifica rivoluzione civica ispirata al programma di Lula, prossimo presidente del Paese. Grazie anche alla generosa ospitalità offerta dalla municipalità e dal suo sindaco, Tarso Genro – vicinissimo a Lula e futuro ministro della Giustizia nel suo governo – Porto Alegre era stata scelta dal coordinamento mondiale del World Global Forum come sede del Primo Forum mondiale dei movimenti di azione solidale. Due anni prima c’era stata la mobilitazione di Seattle, un evento politico a scala planetaria messo in moto da un’inedita mobilitazione di siti web e circuiti informatici. Le metafore della rete e della globalizzazione si erano materializzate in una città nord-americana, investita di una sequenza convulsa di happening e discussioni, segnata anche da momenti di tensione e da scontri con le forze dell’ordine.

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In Italia si era costituito da pochi anni il Forum nazionale del Terzo settore, una rete di associazioni che nell’estate del 2000 aveva strappato al governo in carica provvedimenti legislativi a lungo attesi. In un clima di stato nascente avevano finalmente visto la luce la regolazione delle Onlus, il potenziamento del servizio civile, la fiscalità di vantaggio per il regime non profit, il cinque per mille, persino un tentativo di recepire lo sport di cittadinanza nel sistema sportivo ufficiale. Anche grazie al Forum l’Italia si era in pochi anni trasformata da retroguardia a Paese leader in Europa nel riconoscimento del ruolo e dei diritti di un soggetto sociale terzo, emancipato dalle logiche dello Stato quanto da quelle del mercato. Fu la nostra primavera della solidarietà. Su proposta dell’allora ministro Livia Turco, il Presidente Ciampi nominò dieci dirigenti del Forum (io fui fra questi) membri del Consiglio nazionale del Cnel, conferendo al nostro movimento un riconoscimento di grande rilevanza simbolica, seppure di scarsa efficacia operativa. All’epoca ero presidente nazionale della Uisp, l’Unione Italiana Sport Per tutti. Un gigante organizzativo che aveva fatto la scelta dello “sport sociale”, assumendo per le sue dimensioni e per l’originalità della sua proposta un ruolo non secondario nella gestazione del sistema di Terzo settore italiano. Del Forum facevano parte, del resto, tutte le maggiori organizzazioni non profit: dai sindacati alle reti solidali, dall’Arci alle Acli, dall’Auser a Legambiente, da Comunione e Liberazione ai Cobas, dal movimento scout a Libera, dalla cooperazione all’editoria democratica, dalle Misericordie alle organizzazioni pacifiste.

Sognavamo una socialità nuova, al passo dei tempi della globalizzazione incipiente, aperta al mondo e pronta ad affrontarne le sfide con coraggio e con fantasia.

Porto Alegre rappresentò così l’epilogo di una stagione di euforia che avrà purtroppo breve durata. Nel luglio 2001, dopo il ritorno al governo del centrodestra, il nostro fronte composito e indocile, impropriamente definito no global, subirà l’impatto drammatico dei fatti del G8. A Genova, con gli orrori di Bolzaneto e della Diaz, si sarebbe scritta una delle pagine più vergognose dell’Italia repubblicana, che avrebbe segnato profondamente e depotenziato la breve e pacifica rivoluzione dell’associazionismo democratico. Il nuovo protagonismo del sistema di azione solidale dava fastidio a molti, soprattutto (ma non esclusivamente) ai partiti della destra. Presto avremmo dovuto difendere con le unghie e con i denti lo spazio politico e i diritti appena conquistati. Il ritorno al potere di Berlusconi e la politica sfacciatamente ostile del ministro delle politiche sociali Maroni mutileranno, arrivando a minacciarne la sopravvivenza stessa, quella importante e generosa esperienza. Malgrado tutto, però, seppure a prezzo di qualche ripiegamento e con sempre maggiore fatica, l’opera di istituzionalizzazione di quel pezzo di Italia buona che è il sistema non profit sarebbe proseguita.

La premessa era necessaria per comprendere il senso di quell’improvvisa chiamata alle armi (metafora provocatoria: con tanti pacifisti…) con destinazione Brasile. Il Forum di Porto Alegre si sarebbe aperto il 24 gennaio. La delegazione italiana avrebbe conteso a quella francese il primato delle presenze. Fra le due maggiori delegazioni europee, diversissime per composizione e tipologia, si svilupperà presto una rivalità che sfocerà in qualche momento di tensione.

Foto 3 e 4

Per imbarcare tutti, il Forum aveva dovuto requisire tutti i posti su un volo da Milano Malpensa diretto a San Paolo. Da quell’aeroporto, lo scalo maggiore del Sud America, ci saremmo imbarcati per Porto Alegre con un volo delle linee interne brasiliane.

Arrivai a Malpensa fra gli ultimi. Sbrigate le formalità per l’imbarco, presi posto al gate in una specie di accampamento popolato da decine di dirigenti del Terzo settore. Conoscevo la maggior parte dei miei compagni di viaggio. Qualcuno mi era noto solo in fotografia o per incontri casuali.  L’infaticabile Raffaella Bolini, della direzione Arci, comandava le operazioni di imbarco fornendoci informazioni e aggiornamenti in tempo reale. A tarda sera eravamo tutti a bordo. Vicino a me individuai Vittorio Agnoletto della Lila, il leader dei Cobas Piero Bernocchi, i giornalisti del Manifesto Anna Pizzo  e Pierluigi Sullo, Maurizio Gubbiotti di Legambiente, Giulio Marcon di Lunaria. Un espansivo peruviano sulla quarantina mi riconobbe e si presentò calorosamente. Era a capo di un’associazione di immigrati del suo Paese e l’organizzatore di un torneo di calcio fra connazionali che era stato tecnicamente organizzato da un circolo Uisp romano.

Qualcuno in vena di humor nero commentò il decollo un po’ turbolento riflettendo sugli effetti politici che avrebbe avuto la scomparsa improvvisa e simultanea dell’intero stato maggiore dei movimenti. Fu zittito con gesti scaramantici assai poco politicamente corretti. Quasi tutti, malgrado l’ora tarda e la stanchezza, ci concentrammo invece sulla pellicola programmata dalla compagnia aerea. Era I cento di passi, il bel film di Giordana uscito pochi mesi prima e che raccontava la storia tragica e struggente di Peppino Impastato. Ci chiedemmo se la scelta fosse casuale o no. Però funzionò. Man mano che il racconto si dipanava qualcuno prese a commentare ad alta voce i passaggi salienti. Alla scena finale, quando la madre di Peppino vede dalle finestre di casa l’interminabile fiumana di volti e bandiere venuti a onorare la memoria del figlio e a denunciare la verità di comodo sulla sua morte, scoppiò un applauso intenso e prolungato. Adesso il ghiaccio era sciolto davvero. Aldilà di tante divisioni avevamo trovato le ragioni di quel viaggio, il senso di far parte di quella strana composita compagnia. Poi ci arrendemmo alla ferrea legge dei ritmi circadiani sin quando una voce dalla cabina ci comunicò l’imminente atterraggio a San Paolo del Brasile.

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Avevamo volato verso ovest, quindi al di là dell’Oceano trovammo ancora la notte. Intravedemmo appena lo spettacolo della sconfinata metropoli. La sua superficie era percepibile dalle mille luci spruzzate nel buio e nella nuvolaglia di una notte estiva (fine gennaio corrisponde in Brasile alla nostra fine luglio).  Ci fecero scendere in un’ala avveniristica del grande aeroporto. Fummo sottoposti al rito del controllo immigrazione reso estenuante dalla lentezza delle procedure. Poi come in una transumanza ci spostammo ai Voli nazionali. Qui regnava una confusione chiassosa e la notte era piena di voci, annunci, musiche. Casino totale, per dirla con eleganza. Fummo ripartiti su differenti vettori in partenza per Porto Alegre.  A me e all’ecologico amico Gubbiotti, insieme a pochi altri, toccò attendere l’ultimo volo. Imprecammo con lo stile possibile in simili circostanze, ma la forzata sosta al terminal voli nazionali di San Paolo ci consentì una prima full immersion nel Paese che ci accoglieva. Al bar dove bivaccammo facemmo una prima scoperta: noi italiani comprendiamo il portoghese dei brasiliani abbastanza facilmente e sicuramente meglio di quanto non intendiamo il portoghese originale (non chiedetemi il perché). Il contatto con la gente, anche nell’ambiente anonimo di un aeroporto – quello che Marc Augé indica come esempio di “non luogo” – non è mai sgradevole o freddo. Nonostante la congestione il personale è paziente e cortese.

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Al bar dove bivacchiamo osserviamo cameriere e camerieri e le sobrie movenze del corpo o del capo con cui tutti accompagnano la musica diffusa. Veniamo iniziati ai piaceri della caipirinha. Ci spiegano dettagliatamente quante parti di cachaça occorrano, le dosi di lime, la necessità di usare solo zucchero di canna, un iceberg di ghiaccio, il bicchierone highball. Fondamentale mescolare con lo stirrer senza azzardarsi a shakerare o ad agitare. Uno di noi opta per un espresso (all’italiana, mi raccomando!). Gli portano un bibitone sciacquabudella denso e insapore. Prendiamo nota: se in Brasile desideri un caffè forte e servito in tazza piccola, non chiedere mai un espresso. Molto meglio il loro cafezinho, accettabile variante di rito paulista del nostro espresso.

Come Dio vuole arriva anche per noi il momento dell’imbarco. Ci informano che all’arrivo saremmo stati rilevati da un pickup destinato agli hotel del centro città. Forse avremmo persino avuto il tempo per una doccia fugace prima di essere trasferiti all’Università Pontificia, dove è in programma la cerimonia d’apertura.

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Il volo da S. Paolo a Porto Alegre è relativamente breve. Pisolino incompiuto e atterraggio a notte fonda. Recuperiamo i bagagli e ci precipitiamo ai van che ci condurranno all’hotel Embaixador. È ubicato in pieno centro, a Rua Jeronimo Coelho. Lungo il percorso viviamo il primo impatto con questo Paese e le sue contraddizioni laceranti. Attraversiamo miserabili favelas illuminate fiocamente da pali della luce sbilenchi. Nella penombra si intravedono le sagome minute di giovani corpi di donne che adescano clienti sulla porta di povere casupole. Poi un ponte avveniristico e una gigantesca rotatoria immettono su viali spaziosi, modernissimi e illuminatissimi. Gli spartitraffico sono ricchi di vegetazione lussureggiante e di aiuole eleganti. Ci incuriosiscono i distributori di benzina. C’è una pompa in più rispetto ai nostri. Eroga benzina derivata dalla macerazione della frutta tropicale, costa poco e sembra garantisca prestazioni analoghe ai carburanti tradizionali. Peccato, ci spiega l’autista, che sia stata messa fuori mercato da qualche anno. È vox populi che si tratterebbe della contropartita chiesta qualche anno prima dagli Usa per salvare l’economia del Paese dalla bancarotta. Ci avviciniamo al centro città costeggiando la grandiosa Usina Cultural, una vasta struttura architettonica (tutto è grande in Brasile) ricavata dalla ristrutturazione di un antico gasometro e dedicata alla sperimentazione artistica. Mentre albeggia attraversiamo la semideserta Praça da Alfandega.

Nella hall dell’hotel sono affissi gli elenchi degli ospiti accreditati per le sedute del Forum che inizieranno poche ore dopo. Ci invitano a verificare subito il nostro accredito e ad annotare il numero di badge. Un attimo e si scatena il putiferio: nessuno si ritrova nell’elenco, stanchezza e nervosismo alimentato la protesta. Dalla reception ci impartiscono così un’altra lezione di Brasile. Nel Paese si adottano i criteri propri delle comunità di lingua portoghese. Nell’ordine alfabetico si privilegia il nome di battesimo rispetto al cognome (da noi Aldo Zurzolo starebbe in testa, Zeno Abate in coda). I calciofili confermano: non è un caso se tutti i campioni brasiliani sono chiamati per nome o per diminutivo. C’è di più: in caso di doppio cognome, quello della madre precede quello paterno. Approvazione delle delegate di area femminista. Sfumano doccia e colazione. Dissolvenza: la grande avventura sta per avere inizio.

10_Praça da Alfandega - Porto Alegre (Ronaldo Sgarioni)

 

NICOLA PORRO 

ps: All’epoca del viaggio l’uso della fotografia digitale era ancora molto limitato e la sua qualità mediocre. Le foto proposte sono tratte da repertori web (Pinterest, El Pais e altri). La foto di Praça da Alfandega è di Ronaldo Sgarioni.

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