Caro Berlinguer, io continuo a volerti tanto bene.

di PIERO ALESSI ♦

Ho letto con colpevole ritardo un contributo, su questo Blog, di M.M. Pascale dal titolo: “Berlinguer (non) ti voglio tanto bene” del 21 luglio 2017. In esso si è parlato, tagliando con l’accetta il ragionamento, di E. Berlinguer addebitando a lui, in qualità di segretario del P.C.I., la responsabilità della crisi, tanto trascorsa come odierna, della sinistra.

Gli argomenti utilizzati meriterebbero non un linciaggio, come Pascale ha  paventato, ma una risposta seria e argomentata. Sono convinto di  non essere capace di mettere in fila le questioni, così che appaia chiaro quale, a mio giudizio, sia stato il ruolo del PCI in quello scorcio di secolo preso in esame; ma ci si può sempre provare

In primo luogo respingo nettamente che l’affetto e la stima di cui Berlinguer ha goduto, in vita e oltre, siano in via esclusiva il frutto di una visone sacra della sua figura, in gran parte legata alla sua morte eroica.

Lui era amato, in primo luogo, perché era il segretario di un partito al quale veniva riconosciuto il rapporto che aveva con la povera gente e la tutela degli ultimi; quindi la strenua difesa della democrazia durante la Resistenza, ma anche, nel dopo guerra, dai tentativi di riportare indietro le lancette della storia e, da ultimo, dal terrorismo.

Sono del tutto convinto che era lontano, nel tempo e nello spazio, dal Partito Comunista Italiano, il mito della personalità.

Berlinguer ha incarnato una politica che era frutto di un confronto per nulla privo di conflitti interni, al contrario di altri leader politici che hanno fondato la propria ascesa su un forte carattere dirigista e personalistico.  Certo, ogni grande leader lascia la propria impronta.

Non sarò certo io a negare il carisma di Berlinguer. Altrettanto sono persuaso che se un altro, per come veniva vissuta la politica dentro il PCI, avesse preso la guida del più grande Partito della sinistra italiana avrebbe ricevuto la medesima stima e goduto del medesimo affetto. Quindi mi riferirò a Berlinguer per comodità di linguaggio ma sia chiaro che non mi sfugge, neppure per un secondo, che dietro di lui c’era un collettivo che ne condivideva le scelte e anche quando non le condivideva se ne faceva carico. Le criticava talvolta, certo, ma, in ogni caso, le sosteneva e le adottava.

Il primo essenziale passo è scendere dal piedistallo di una visione leaderistica della politica, che peraltro era molto lontana dalle caratteristiche anche personali di E.Berlinguer.

Quando poi, in ciò che ho letto, si riferisce della proposta di “compromesso storico” si commette il fondamentale errore di ridurla ad una ipotesi che guardava al solo eventuale incontro tra comunisti e cattolici. Non si tratta solo di semplificazione ma anche, mi si lasci dire, di distorsione. La proposta di compromesso storico si rivolgeva a tutte quelle forze di segno progressista, dunque in primo luogo ai socialisti, ma non solo. In ogni caso anche a loro, assieme alle migliori espressioni del cattolicesimo, era rivolto l’invito ad aprirsi a nuove e più larghe alleanze. In primo luogo alleanze di contenuti e di valori, prima che di formule. La proposta si reggeva su di una analisi storica e politica della società italiana ed era fortemente ancorata al periodo storico che si era vissuto. Riassumo in particolare alcuni elementi: i tentativi, sia pure maldestri, di colpo di stato; un terrorismo di matrice fascista; la volontà di prendere le distanze da un “socialismo reale” di cui si avvertiva il carattere dispotico; il colpo di stato in Cile che dimostrava quanto fragile potesse essere una vittoria della sinistra che, in Occidente, non avesse un larghissimo consenso popolare.

Dette queste cose rimane da individuare il “responsabile” della crisi della sinistra.

Per evitare la fine di Diogene che andava in cerca “dell’uomo” con una lampada (senza trovarlo) dirò, per quel che mi riguarda, che non vedo individui che hanno sulle proprie spalle questa responsabilità.

Ciò che vedo è una società che è mutata così profondamente che nessuno, penso, della mia generazione, ne avrebbe potuto cogliere le avvisaglie.  Se solo torniamo con la memoria al proverbiale saggio sulle classi sociali di Syilos Labini avvertiamo e misuriamo la distanza che ci separa da quell’epoca. Persino lui, che aveva individuato un certo rimescolamento delle classi sociali, tradizionalmente intese, era ben lontano dall’immaginare ciò che sarebbe accaduto trenta-quaranta anni dopo. A partire dalla fine della “guerra fredda”, la caduta del muro di Berlino sino al frantumarsi del blocco dei paesi dell’Est, e poi i fenomeni indotti dalla globalizzazione, la rivoluzione digitale e il ruolo assunto dal sistema della comunicazione, trasformazioni profonde delle modalità organizzative del lavoro, parcellizzazione delle imprese, processi migratori formidabili che hanno coinvolto e coinvolgono centinaia di milioni di esseri umani, nel pianeta, la questione delle risorse energetiche, alimentari, idriche, e infine, ma non ultima, la questione climatica.

E vorremmo, di fronte a queste mutazioni epocali, ad un universo totalmente diverso, interrogarci e interrogare sulle presunte responsabilità della crisi della sinistra attribuendole a grandi leader del secolo passato? Capisco le semplificazioni ma le questioni sono più complesse e le responsabilità sempre molto più diffuse.

 Riconsegniamo, dunque, ciascuno al suo contesto storico, politico e sociale e guardiamo avanti.

Ritengo, con lo sguardo rivolto al futuro che, fermi restando i valori di riferimento, sia necessario che la sinistra cambi e si trasformi. Ciò che noi chiamiamo crisi è, per come la vedo io, la necessaria transizione ad altro. Non vanno aggiornati gli obiettivi. Semmai vanno rimodulate le forme attraverso cui ci prefiggiamo di raggiungere quegli obiettivi. In primo luogo a partire dalla consapevolezza che nella vecchia Europa, ad oggi, si dibatte e si compiono atti che vanno verso il superamento di una concezione nazionalistica. Dunque, le piattaforme rivendicative vanno riviste. Servono organismi e politiche sovranazionali. La sinistra a mio modesto parere ha da svolgere ancora un grande ruolo, nel nuovo secolo che si è aperto da poco. Altro che superamento delle ideologie. Vediamo bene che la destra  e l’ultra destra continuano ad inseguire idee di sopraffazione e purtroppo, complice la paura che è cattiva compagna dei Paesi che attraversano crisi economiche, sociali e culturali, conquistando consensi anche nei settori popolari. Sono gli ultimi, d’altronde da sempre, ad avere il timore di perdere il poco che hanno e che guardano con sospetto e rivalità coloro che gli sono più vicini nella scala sociale, in quanto minacce più prossime e concrete.

La sinistra, nel nostro Paese e nel mondo,  avrebbe il dovere con il suo impegno di garantire la pace, di battersi contro le diseguaglianze, di affermare valori di tolleranza e solidarietà, difendere il pianeta dalle aggressioni insopportabili all’ambiente.

In questo quadro, e se è questa la posta in gioco, appaiono incomprensibili le divisioni, territoriali, nazionali e sovranazionali, che attraversano un fronte che avrebbe bisogno di tutte le energie per affermare i suoi valori di fondo.

Talvolta, purtroppo, si ha la sgradevole sensazione che non si guardi  l’orizzonte ma la punta delle proprie scarpe o il piccolo strapuntino che si vuole conquistare o per  nessuna ragione abbandonare.

PIERO ALESSI