IL RIMEDIO – 27 – Il pugnale dell’Efialte
di FEDERICO DE FAZI ♦
27 – Il pugnale dell’Efialte
Assaporando di nuovo l’aria libera, Samaele si lanciò un’altra volta all’inseguimento di Licio. Non si sorprese di non trovarlo più sotto il sagrato della chiesa. D’altra parte sarebbe stato stupido non ritirarsi, vista la sconfitta imminente. Il mago dei nodi pensò che doveva essersi rifugiato all’interno dell’edificio, magari nella speranza di trovare qualche ostaggio.
Accompagnato dalle grida liberatorie dei soldati, che si erano strappati la maschera sotto la pioggia che scrosciava sempre più forte, Samaele entrò nella chiesa.
Pavel fu preso da un pianto così forte e incontrollabile che, nonostante il corpo gli dolesse per ogni singhiozzo che faceva, non riusciva a fermarsi. Era immobilizzato dal dolore, dalla fatica e dal pianto in una scomodissima posizione supina, con le gambe accavallate e le braccia poste in modo innaturale. La pioggia, che iniziava a cadere gelida con intensità crescente, gli dava un po’ di sollievo, soprattutto grazie alla consapevolezza che aveva fatto il suo dovere e che, anche per merito suo, gli uomini che combattevano nella piazza potevano sconfiggere i costrutti di Licio e dei Sinarchi.
In breve tempo la pioggia divenne uno scroscio continuo e gelato, al punto che Pavel iniziò a perdere la sensibilità degli arti. Quando l’acqua inizò a scorrere come un torrente giù dalle grondaie sopra il camminamento, soffocandolo e impedendogli di riprendere fiato, il ragazzo pensò davvero che quella sarebbe stata la sua fine.
Poi però qualcuno lo sollevò dall’acqua e lo portò al riparo. Pavel non fu mai così felice di vedere il volto di Tiziano Rivalìn.
“Aiutami. Tenigli ferme le braccia!” diceva a un soldato che era accorso con lui sul tetto.
“Adso! Aiutate Adso. È gravemente ferito… e Tre” disse Pavel con un filo di voce, ma i suoi soccorritori non gli diedero retta. Avrebbe insistito, provando magari a parlare più forte, ma era così stanco e stremato che l’unica cosa che poteva fare era lasciare che l’oscurità lo sommergesse.
Entrato nell’edificio sacro, Samaele si segnò istintivamente, quasi ignorando che vi era Licio seduto sul gradino che separava l’iconostasi dal resto della navata centrale.
“È stato un bello scontro” disse il brigante. “Confesso che non mi aspettavo la pioggia”.
“Prevedere sempre almeno le tre future mosse dell’avversario. Me l’hai insegnato tu, ricordi?” ribatté Samaele.
Licio rise di una risata amara. “Sei sempre stato un pessimo scacchista”.
“E tu un pessimo maestro. Se non altro questa lezione l’ho imparata e l’ho saputa portare a frutto. Non sei contento?”.
Licio scosse la testa. “Anch’io ho previsto molte delle tue mosse. Quale scopo credi che avesse quel goffo tentativo di uccidere te e di bruciare quella bettola dove si rifugiano i tuoi amici? Sapevo che ci sarebbe stata una reazione confusa da parte di tutti voi, con il tuo Capitano che si precipitava per rappresaglia in quello che presumevate fosse il mio rifugio e tu che gli venivi dietro, per proteggerlo come una balia. Mi è bastato distrarti un attimo per consentire al mio maestro di prendere il posto di una delle vostre guardie, in modo che potesse colpirvi nel vostro punto più debole, vale a dire quel ragazzino che ti viene appresso”.
Samaele pensò preoccupato a quanto poteva essere successo a Pavel e a chi era con lui. Alzò gli occhi verso la Lacrima di Fuoco, il simbolo sacro della sua fede, pregando per la salvezza almeno del ragazzo. In un’altra circostanza, sarebbe corso fino all’Accademia, ma il suo posto nella scacchiera era lì, a contrastare Licio.
“Evidentemente anche quel punto non era così debole come credevate”.
“O forse sei stato solo fortunato” sbuffò il brigante, alzandosi. “Certo, non è che quel ragazzino può dirsi altrettanto fortunato. È riuscito a farla in barba al Maestro, ma dubito fortemente che abbia ancora la vita attaccata al suo corpo”.
Samaele resistette all’istinto di attaccare quello che considerava un fratello con tutti i mezzi che aveva a disposizione. Lo trattennero la ripugnanza che aveva dell’idea di usare la violenza in un luogo sacro, il rigido codice che gli imponeva di provare ogni cosa prima di fare ricorso all’uccisione, ma soprattutto, e si vergognava un po’ ad ammetterlo, l’affetto incondizionato che ancora nutriva per quel ragazzo omicida.
“Non sei stanco, Licio? Non ne hai abbastanza di fuggire e nasconderti, di combattere per la vita ogni giorno? Di dormire sempre con un occhio aperto per paura che qualcuno possa pugnalarti nel sonno? Non è ancora troppo tardi per cambiare. Vieni via con me e…”.
“Ma falla finita! Tu non hai idea di quello che sono diventato. Il mio corpo è stato modificato per resistere alle esalazioni delle macchine alopaite. La mia mente per entrare in contatto con i cristalli di coscienza. Io sono quello che voi avete paura di diventare con la vostra magia da quattro soldi. Io sono divenuto un mago più potente di te e tra poco non avrò più bisogno né di maestri come te, né di allievi come il tuo ridicolo apprendista Pavel”.
Detto ciò, Licio tirò fuori da sotto la sopraveste un pugnale dall’elsa di oricalco, sulla quale erano incastonati dei cristalli azzurri e un gigantesco cristallo di coscienza poco sotto la lama sproporzionatamente larga, che sembrava fatta di ossidiana.
“Sai cos’è questo, Lontra?”.
“Un pugnale dell’Efialte…” disse Samaele atterrito. “Sei pazzo, morirai!”.
“Forse se fossi ancora un uomo comune”.
Grazie alle stesse forze che l’avevano trasportato nella mischia poco prima, Samaele traslò verso Licio e gli afferrò il braccio per impedirgli di pugnalarsi.
“Non farlo, per l’amor dell’Uno! Non potrai più tornare indietro”.
“Io non voglio tornare indietro!” gridò Licio, contrastando senza troppo sforzo il tentativo del gracile Samaele di disarmarlo.
Il mago dei nodi scivolò allora tra lui e la lama.
“Ti hanno mentito, Licio. Non puoi sopravvivere. I Sinarchi non lo permetteranno”.
Per tutta risposta, Licio gli diede un pugno contro le costole, facendogli perdere il fiato e la presa. Con un altro colpo, Samaele ruzzolò a terra e il pugnale ebbe la strada libera per il cuore di Licio.
Non c’era più nulla da fare. Samaele afferrò il cappello, che gli era caduto nella colluttazione, prese fiato, chiuse gli occhi e corse fuori dalla basilica.
Nonostante trattenesse il respiro, le sue narici iniziarono a bruciare fino a sanguinare.
Aprì gli occhi poco fuori dalla soglia. La pioggia cadeva copiosa sulla sua testa mentre riprendeva fiato e cercava di disperdere il velo di lacrime, battendo le palpebre e trattenendosi dal toccarsi gli occhi.
“Capitano Bogatir!” gridò, allacciandosi il cappello e correndo verso di lui. “Fate andar via i vostri uomini”.
“Che succede?”.
“Allontanatevi! Si è trasformato in un efialte!”.
A differenza dei Surransi, che crescevano con le storie paurose degli incubi creati dagli Adici alopaiti, ai Beteni come Bogatir si raccontavano le storie dei temibili sciamani negromanti delle steppe. La parola “efialte” non faceva rizzare i capelli a Bogatir, come faceva a Marzio o a Samaele. Razionalmente, però, un ammasso alto quattro spanne, composto da schegge taglienti come rasoi, era un nemico ben al di là delle sue forze.
Distruggendo quindi gli ultimi due soldati di sale rimasti, ordinò ai suoi uomini di rifugiarsi sul lato opposto della piazza, lasciando la sua arma a Samaele e il campo di battaglia agli automi.
Dopo poco tempo, dalla chiesa iniziò a provenire un rumore simile a quello di un vetro che si frantumava all’infinito. Il rumore divenne sempre più forte, quasi assordante, finchè il frontone del tempio non venne letteralmente divorato da un gigante fatto da un caotico agglomerato di cristalli neri e schegge rugginose.
La creatura che un tempo si sarebbe chiamata Licio, emise un grido simile al rumore che fa un pezzo di metallo poggiato su una mola in movimento e abbattè il gigantesco e mostruoso braccio contro il gruppo automi, che saltarono via come fanno le cavallette quando si cammina sul prato d’estate. Benché ormai formato, l’efialte continuava a produrre un orrido miasma, che sembrava un misto di carne bruciata e decomposizione.
“Sei un idiota, Licio!” gridò Samaele, nella speranza che il mostro potesse ancora sentirlo nonostante la pioggia e il rumore continuo di vetri in frantumi. “Me lo dicevano tutti i miei confratelli che eri un inutile stupido e che dovevo lasciarti perdere”.
L’efialte tentò di colpire Samaele, ma il mago traslò di qualche passo, facendogli mancare il colpo e consentendo agli automi di infierire su di lui con le loro lame. Schegge dell’essere volarono in aria. Il miasma si fece più forte.
“Loro avevano ragione e io torto” continuava il mago. “Sei un buono a nulla, Licio!”.
Un altro colpo a vuoto frantumò il pavimento della piazza. L’ennesimo assalto degli automi quasi non staccò all’efialte il braccio.
Dopo aver distrutto e incorporato parte della scalinata marmorea per ricostruire le parti perdute, il mostro cercò di colpire gli automi, ma gli esseri di oricalco erano troppo veloci per i suoi movimenti elefantiaci.
“Sei un fallimento su tutti i fronti, Licio! Hai fallito come erede, hai fallito come mago, hai fallito come brigante e ora stai fallendo anche come mostro. HAI CAPITO, LICIO? SEI UN FALLITO! UN FALLITO!”.
“MUORI!” gridò l’efialte, abbattendo il suo braccio contro Samaele. Quando lo sollevò, sul selciato distrutto vi erano solo il cappello in frantumi e il mantello a brandelli, ma nessuna traccia del corpo.
Samaele aveva fatto ricorso a tutta la magia che gli rimaneva per spostarsi poco sopra l’efialte e abbattersi sulla sua schiena con una pesante azza d’arme lasciatagli da Bogatir.
L’unguento, di cui l’arma era ricoperta, fece da conduttore a una potente scarica di energia elettrica e termica, che mandò in frantumi metà del torso dell’efialte con una grande esplosione di schegge, fiamme azzurre e fulmini. Benchè Samaele si fosse coperto il volto con un panno apposito, che faceva da risvolto al bavero del farsetto, l’esplosione gli aveva portato via le sopracciglia e parte dei capelli, ustionato la fronte e tagliato in più punti il volto. La pioggia lavò via il sangue e diede all’ustione un po’ di refrigerio, mentre l’efialte, con un lamento cacofonico, si ricomponeva fagocitando le colonne di un porticato.

Immagine di Ludovico Serra
La creatura continò a cercare di colpire Samaele e gli automi, ma i suoi movimenti si facevano sempre più lenti e impacciati, consentendo agli esseri di oricalco di colpire con maggior precisione e forza. L’efialte cercò di colpire per l’ennesima volta Samaele. Il mago si spostò con un balzo e per il mostro sarebbe stato facile prenderlo semplicemente spazzando il pavimento con l’arto deforme. Ma invece, a seguito dell’impatto, il braccio rimase immobile.
“Che succede?” disse l’efialte. La sua voce adesso ricordava di più il rumore che fanno i piedi quando camminano sui ciotoli.
“Che succede?” chiese di nuovo. Il suono delle parole era sempre più basso è lento.
“Succede che è finita, fratellino” rispose Samaele, ansimando.
“Che significa?”.
In quella voce dal suono innaturale, Samaele poteva ancora cogliere lo stesso timbro che aveva Licio quando, spaventato, gli si era avvicinato per la prima volta.
Il mago si sedette accanto alla statua immobile.
“Significa che è finita” disse con dolcezza. “L’energia accumulata nel pugnale dell’efialte non può sostenere un corpo come questo se non per pochi minuti. Al suo termine, come una lampada che ha esaurito l’olio, l’efialte si spegne”.
“Ma il Maestro mi aveva assicurato che l’energia non si sarebbe esaurita…”.
“Il maestro ti ha mentito. Non esiste modo di accumulare energia per un tempo indefinito e le modifiche fatte al tuo corpo non potevano prolungare il tuo stato forse per non più di qualche giorno, cosa di cui dubito fortemente”.
“E non si può rimboccare di olio la lampada, fratello?”.
“Non lo so. Non credo sia possibile” rispose Samaele, guardando gli automi interrogativo. Per un attimo quasi sperò che fosse possibile fare qualcosa per l’amico.
“La tecnologia di cui è composto questo costrutto è imperfetta e progettata per avere poca durata” rispose piatto uno degli automi.
“E immagino che anche tentare di estrarre il corpo ancora in vita dal costrutto sia impossibile”.
Gli automi si consultarono tra loro, poi uno rispose: “Dai dati in nostro possesso e quello che possiamo rilevare, non è rimasto niente della sua componente organica che possa definirsi ancora funzionale, se estratto dal costrutto”.
“Quindi morirò” concluse Licio, modulando il suono della sua voce in modo che somigliasse a una cupa risata. “Hai ragione. Sono un fallito su tutti i fronti. Sono fallito anche come mostro”.
“Questo non lo pensavo veramente. L’ho detto solo per farti arrabbiare, in modo che potessi consumare più in fretta le tue energie e, concentrandoti su di me, fare meno danni possibile alla città. Non ho mai pensato che tu fossi un fallito”.
“Non mentire a te stesso, Samaele. Io per te sono una delusione. In fondo lo sai che è vero. Non sono diventato quello che volevi tu e, ai tuoi occhi, non ho mai fatto nulla di buono”.
“Questo non è vero” cercò di dire Samaele, ma la mancanza di convinzione gli strozzò la voce.
“Tu sei qui solo per rivalsa” continuava Licio. “Per dimostrare per l’ennesima volta la tua superiorità in ogni frangente, anche di fronte al tuo personale fallimento che io rappresento. Ma io non sono un giocattolo mal costruito. Io sono io e non so che farmene della tua pietà. Quindi è meglio che tu te ne vada e mi lasci morire in pace”.
Samaele tacque. Licio era riuscito a ferirlo. Era vero: considerava Licio il suo personale fallimento. Fin dal momento che l’aveva conosciuto, c’era sempre stato, nascosto nella sua mente, il pensiero che sarebbe stata una grande impresa fare di quel ragazzo svogliato e capriccioso un grande maestro dei nodi, che magari avrebbe potuto, una volta raggiunta l’età, governare il feudo di Roccarossa secondo il Codice e l’insegnamento di Zarateo. Anche se qualcuno avrebbe potuto trovare molte sostanziali differenze, per Samaele quella sarebbe stata un’impresa gloriosa al pari di quelle dei paladini di Ruggero il Grande.
Era un desiderio capriccioso, egoista, tracotante e vanaglorioso. Samaele lo sapeva ma, per quanto si sforzasse di allontanarlo dai suoi pensieri, quello restava sempre lì, nascosto da qualche parte.
A tutti diceva, dicendo il vero, che a muoverlo erano l’affetto, la stima e il senso del dovere, ma Licio aveva ragione. Poteva nascondere questo pensiero vanaglorioso agli altri, ma non a se stesso.
“Samaele, dove sei?” disse Licio, con una voce sempre più bassa e cupa, come se provenisse da sott’acqua. “Non te ne sei andato, vero? Fratello, non mi lasciare solo. È tutto così buio… così freddo…”.
“Sono qui. Non ti lascio solo”.
“Scusami. Quello che dicevo… non lo pensavo veramente”.
“Lo so. Non preoccuparti”.
“Ti prego… non lasciarmi nel… silenzio… Di’ qualcosa”.
“Che cosa?”.
“Quello che vuoi… Di solito è difficile… farti stare zitto… Raccontami di come vanno… le cose ad Antilla”.
Samaele sentiva la tristezza e il lutto pesargli nel ventre come un macigno e non aveva le forze per parlare. Il freddo e la stanchezza di certo non lo aiutavano, ma volle comunque sforzarsi: “Quando sono partito, papà era appena tornato insieme agli altri mercanti dalla Fiera di Ponterosso con un bel po’ di lana grezza. Dice che sotto certi aspetti è meglio della lana vegetale, ma io non gli credo. Aristarco e Irenandro hanno lasciato la Torre dei nodi per aiutare mio padre a tempo pieno. Alla torre dei nodi, della nostra guardia siamo rimasti io, Vassaele, Lucilia, Verdiana e Paolo. Credevamo rimanesse anche Verto, ma da quando si è sposato con Sethra, a momenti non lo si vede più neanche in chiesa. Sì, hai sentito bene: Verto si è sposato con quella figlia dei boschi di cui ti parlavo sempre. Al villaggio c’è stata una disperazione totale di tutto il sesso femminile, quando è stata data la notizia. Mi sono sempre chiesto come fosse possibile che le ragazze girassero sempre attorno a quel tipo. Forse semplicemente perché ha i capelli biondi, chissà…
Il raccolto delle olive quest’anno non è stato un granché. Ha piovuto troppo poco e c’è stata anche una bella grandinata. Abbiamo dovuto coprire tutto con teli di seta di ragno, ma non è che sia servito a molto. In compenso gli agnelli vegetali si sono salvati. Speriamo che ad altri non sia venuta la stessa idea di mio padre di comprare lana ovina o quest’inverno la lana vegetale ce la daremo sui denti.
Mamma invece si stava dedicando a tempo pieno alla raccolta delle erbe medicinali, ma penso che adesso avrà anche finito. Ha avuto il suo bel da fare anche come levatrice quest’anno, visto che sono nati tre bambini e tra tre mesi probabilmente Sethra ci darà un quarto mocciosetto.
Le lontre stanno bene. Abbiamo avuto anche lì delle nascite e siamo stati bravi ad addestrarle in fretta. Se non avremo grano o olive quest’inverno, se non altro avremo una gran quantità di pesce e molluschi, questo è certo.
Ricordi quando ti sei buttato per la prima volta in mare, Licio? Ti eri preso uno spavento tale che a momenti non mi annegavi. Ti ricordi, Licio? Licio…”.
Ma l’unico suono proveniente dall’agglomerato inerte di cristalli fu il picchiettare della pioggia.
“È finita?” chiese Samaele all’automa più vicino.
L’automa si avvicinò all’efialte, come per sentire meglio.
“Non rilevo alcuna fonte di energia residua”.
Samaele si tolse il guanto destro e, incurante del fatto che la superficie del costrutto fosse piena di lame, la carezzò. Poi si portò le mani alla fronte, segnandosi alla maniera dei Surransi.
“Addio fratello” disse con voce strozzata. “Quattro. Sei Ran Quattro, Giusto?” chiese poi all’automa vicino a lui.
“No. Sono Uno”.
“Scusami”.
“Il tuo errore è comprensibile e non mi arreca alcuna offesa. Hai una richiesta da fare?”.
“Sì. avrei piacere se tu e i tuoi omologhi mi aiutaste ad estrarre il corpo di Licio e a seppellirlo, poiché nessuno dei miei omologhi lo farebbe. Se però vi è qualche impedimento a fare ciò, non considererò un’offesa il vostro rifiuto”.
“Non c’è nessun impedimento. Siamo disposti ad aiutarti”.
“Grazie”.
FEDERICO DE FAZI