Olympic war games
di ETTORE FALZETTI ♦
Potrà accadere fra duecento anni che il Bhutan vincerà i mondiali di calcio, che un eritreo sarà oro olimpico nella lotta greco-romana e un portoricano vincerà la coppa del mondo nello slalom gigante. Potrà accadere perché la geografia dello sport sta cambiando: quando io ero bambino statunitensi e inglesi erano pressoché inesistenti nelle competizioni ciclistiche, Africa e Antille si affacciavano timidamente all’atletica e in ginnastica vincevano solo russi/e e giapponesi.
Eppure, se andiamo a guardare i medaglieri olimpici degli ultimi settanta anni, possiamo osservare che le gerarchie mondiali dello sport sono sostanzialmente rimaste immutate con qualche variazione dovuta a eventi politici epocali come la disgregazione dell’Unione Sovietica e la fine dell’isolamento cinese.
Questo il medagliere delle Olimpiadi di Roma nel 1960, le prime che seguii in tv (nessuno in famiglia pensò che valesse la pena di andare a seguire qualche evento dal vivo..)
Provo a fare un audace parallelo con le olimpiadi di Rio, ovviamente le ultime che ho seguito. Audace per una quantità di motivi, per il numero delle nazioni partecipanti (83 contro 207), degli atleti (5338 contro 11303), delle discipline ( 21 contro 42) e per una fondamentale differenza: le olimpiadi erano allora riservate ad atleti formalmente dilettanti; per questo non potevano trovarvi posto sport di dichiarato professionismo come tennis e golf; per questo –in alcune discipline- si assisteva all’anomalia di vedere a confronto il meglio dello sport sovietico coi suoi esperti dilettanti di stato con giovani promesse occidentali. Avrebbe vinto l’oro di ciclismo su strada il russo Kapitonov se anziché con Trapè se la fosse dovuta vedere con Anquetil, Nencini o Van Looy? Certo poi nel pugilato i sovietici rischiavano di trovare giovani come Cassius Clay o Nino Benvenuti, ma questa è un’altra storia.
Guardando il medagliere di allora si può notare che le nazioni leader sono più o meno le stesse di oggi, salvo – come detto- l’assenza della Cina che allora non era riconosciuta (lo era invece Taiwan che conquistò un ‘unica medaglia –d’argento- in una sia pur memorabile gara di decathlon). Non tragga in inganno la mancanza fra le prime dieci di Francia e Gran Bretagna che –incidentalmente- toccarono a Roma il punto più basso della loro prestigiosa storia sportiva; né si sopravvaluti l’exploit turco con medaglie ottenute esclusivamente nella lotta.
Viceversa l’Italia ottenne il suo massimo risultato per numero di medaglie e per posizione in classifica, favorita certo dal fatto di giocare in casa, ma soprattutto dal dominio –mai più ripetuto- nelle competizioni di ciclismo (cinque ori sui sei disponibili più un argento e un bronzo!) e dalla strepitosa performance nel pugilato con ben sette medaglie, di cui tre d’oro. Risultati che stridono fortemente con quelli di Rio: zero medaglie nel pugilato e un oro e un bronzo nel ciclismo in specialità nuove se non nuovissime.
Non troveremo nel medagliere romano paesi come il Kenya, destinati di lì a poco a esercitare un incontrastato potere per decenni nelle gare di mezzofondo e fondo in atletica leggera, anche se fu proprio allora che per la prima volta un uomo degli altipiani – correndo scalzo sui sampietrini –vinse la maratona, era l’etiope Abebe Bikila. Non troveremo neppure la Giamaica per il semplice fatto che allora non esisteva, ma atleti giamaicani conquistarono medaglie (solo di bronzo..) nell’atletica leggera correndo sotto la bandiera delle Indie occidentali insieme a colleghi di Trinidad e delle Barbados.
La Germania, partecipando unificata ( il muro fu innalzato un anno dopo), ottenne le stesse 42 medaglie di oggi a Rio, assai meno della metà di quelle che la sola Germania orientale avrebbe conquistato (a forza di steroidi) a Mosca 1980 e Seul 1988.
A contendersi il primato troviamo, in un’ideale prosecuzione della guerra fredda, Unione Sovietica e Usa: fino a Barcellona 1992 si alterneranno al comando, poi con la disgregazione della prima gli americani troveranno un altro potente competitore nella Repubblica popolare cinese. Eppure ancora oggi, se per gioco provassimo (impropriamente e scorrettamente per il moltiplicato numero degli atleti) a sommare i risultati di Russia, Ucraina, Bielorussia, Lituania, Estonia, Uzbekistan, Kazakistan, Azerbaijan, Tagikistan, Armenia, Moldova, Georgia arriveremmo a 142 medaglie complessive di cui 34 d’oro contro le 121/46 degli Stati Uniti.
Ci si potrebbe domandare se queste gerarchie abbiano corrisposto e corrispondano alla potenza economica e/o demografica degli stati. In linea di massima sì (ad esempio tutti i paesi del G8 si piazzano nei primi undici posti del medagliere), con l’eccezione in entrambi i casi dell’ India (il paese meno “sportivo” del mondo in base a un dato che riporterò a breve), ma con modesti riscontri anche di Messico, Indonesia, Arabia Saudita e dello stesso Brasile, sia pur favorito dal giocare in casa con conseguente miglior performance olimpica di sempre. Naturalmente, quando si valuta il numero delle medaglie, è opportuno valutare quanto esse siano spalmate su varie discipline (abbiamo già ricordato il caso della Turchia a Roma), tuttavia se volessimo divertirci a considerare il rapporto fra popolazione, ricchezza e successi olimpici potremmo prendere a prestito dei dati pubblicati sul Sole 24 ore qualche giorno fa, riferiti naturalmente alle Olimpiadi di Rio. Risulterebbe in testa per medaglie rispetto agli abitanti e al Pil nientemeno che Grenada (una medaglia ogni 100.000 abitanti e per soli 600 milioni di euro di Pil) confermando il primato di quattro anni prima. Peccato però che questo doppio exploit sia dovuto a un unico atleta..caso che si ripete per molti altri piccoli paesi che con solamente una o due medaglie schizzano ai primissimi posti.
Andando però a vedere i paesi “più consistenti”, troviamo curiose risultanze.
Gli Usa, stravincitori nel medagliere assoluto, precipitano al 39° posto in relazione alla popolazione (poco dietro l’Italia) e addirittura al 60° rispetto al Pil (venti gradini più giù dell’Italia). Molto peggio fa la Cina (66° e 67° posto), decisamente meglio la Gran Bretagna (15° e 31°), disastrosa l’India, ultima –e di molto- in entrambe le graduatorie: due sole medaglie per una popolazione di quasi un miliardo e trecento milioni di abitanti e il decimo Pil al mondo. Fra i G20 pessimi risultati di Indonesia e Messico e dello stesso Brasile, mentre l’Arabia Saudita semplicemente non compare affatto nel medagliere.
Spiccano i risultati di paesi piccoli, ma di grande e consolidata cultura sportiva come Ungheria (11° e 16°) e Paesi Bassi. Emergente l’ancor giovane Croazia, in enorme flessione la Finlandia- fino a pochi decenni fa dominante in alcune specialità dell’atletica-, assai ridimensionata rispetto al recente passato Cuba.
Evidentemente questi indicatori non vanno presi troppo sul serio, Molti altri ne dovremmo considerare: secondo lo studioso di Harvard Daniel Reyche la ricchezza e la popolazione non bastano, altrimenti non si spiegherebbe come mai il Kenya, con poco più degli abitanti dell’Arabia Saudita, ma enormemente più povero, abbia nella storia olimpica conquistato 100 medaglie contro 3. E’ una questione di strategie politiche: mettere le donne in condizione di sfruttare il potenziale di metà della popolazione, creare istituzioni sportive forti, specializzarsi in alcuni sport, adottare per primi tecniche e sport nuovi.
Ci sarebbe poi un’altra strada più spiccia per ottenere successi sportivi, percorsa dai paesi del golfo, ma non solo: la rapida naturalizzazione. Un po’ come con i brasiliani per il calcio, per l’atletica si va a fare la spesa al mercato antillese o degli altipiani d’Africa.
Cosa non si farebbe (doping a parte) per qualche medaglia in più..
Non mi dilungo oltre in questo mio piccolo divertissement, scusandomi con l’amico Nicola Porro per avergli invaso un po’ il campo e confidando in sue illuminanti postille.
ETTORE FALZETTI
Mi viene alla mente un film che racconta le vicende olimpiche di una improbabile squadra di bob giamaicana. Credo che il bello delle Olimpiadi sia che si fa beffe del PIL e di altri parametri poichè, alla fine, sempre in undici si gioca al pallone e, forse anche grazie alla globalizzazione, qualsiasi paese riesce a mettere assieme una squadra di calcio con undici atleti, figuriamoci in altre discipline meno impegnative dal punto di vista numerico.
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Raramente mi risulta piacevole leggere di sport (mia lacuna, ammetto), eccetto quando ne scrive Ettore Falzetti.
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Non sono affatto geloso e anzi molto ammirato dell’analisi che proponi. Al punto che vorrei invitarti a un seminario che sto organizzando sul tema a Cassino. La questione cruciale che sollevi, quella del “rendimento di prestazione” per nazioni e della sua continuità nel tempo, è davvero complessa e controversa. Mi sento di dire che la scientificità dell’analisi cresce se si considerano numeri significativi e sequenze temporali lunghe. Me lo conferma un bel lavoro curato da Alan Tomlinson, “The Olympic Legacy”, uscito a luglio e che sto leggendo in questi giorni in preparazione del mio corso. Nel lungo periodo si disegna un panorama più strutturato la cui relativa continuità è affidata a un mix di fattori, fra i quali nettamente prevalente sembra la consistenza dei sistemi sportivi nazionali e la loro capacità di gestire al meglio le risorse di cui dispongono. Giustamente la comparazione può farsi solo fra Paesi che abbiano caratteristiche adeguate e il giochino delle relazioni statistiche con popolazione o reddito pro capite è del tutto ozioso. Caso Italia: ci ha fatto (quasi) grandi la nostra italianità. Ovvero la capacità di sfruttare la linfa della provincia, quegli straordinari vivai locali che ho chiamato “distretti sportivi”. A Rio abbiamo perso subito Schwazer, è affondata la Pellegrini, è caduto Nibali. Spedizione alla canna del gas dopo due giorni. Poi sono usciti fuori gli schermidori di Jesi e di Acireale, i tiratori fiorentini, i canottieri napoletani, i surfisti civitavecchiesi…Un Paese di campioni ignoti sui quali i riflettori si accendono ogni quattro anni per un giorno per spegnersi il giorno dopo. Quelli che, generazione dopo generazione, ci hanno regalato un posto di assoluto prestigio nel medagliere di tutti i tempi. Una ricerca che ho diretto tre anni fa sullo sport europeo per conto del Miur dimostra d’altronde che per valutare la qualità di un sistema sportivo si possono assumere indicatori diversi di rendimento. Non solo le medaglie olimpiche, ma anche il numero dei praticanti, la quota di pil prodotta dal sistema sportivo, le audience televisive ecc. Dipende dall’angolo visuale che si intende privilegiare. Certo è che non esistono relazioni lineari. Per esempio: non risulta affatto che alla crescita della pratica diffusa corrispondano i successi attesi nell’alto livello. L’Ungheria miete importanti successi avendo un tasso di attività diffusa fra i più bassi d’Europa. L’Italia è secondo l’Eurobarometro il più pigro dei grandi Paesi della Ue, ma precede nazioni che hanno in percentuale il doppio dei cittadini “attivi” rispetto a noi. La sportivissima Scandinavia o l’Austria regina delle nevi si eclissano nei Giochi estivi. La ricchezza economica e altri indicatori strutturali (livello di istruzione, aspettative di vita, indice di sviluppo umano dell’Onu) non forniscono valori di correlazione significativi se non in casi particolari. Per esempio in Paesi come quelli postsocialisti dell’Est Europa questi indicatori sono in stretta relazione con la percentuale di praticanti ma non con i successi agonistici. Nei Paesi occidentali le variabili socio-economiche non spiegano nulla e non sono correlate né con la pratica né con le medaglie. Sulla quota di cittadini attivi agisce invece efficacemente una causa non sportiva: come funziona il sistema nazionale di welfare e se nelle sue politiche sociali sostiene (e finanzia) la pratica fisico-motoria come strategia di prevenzione sanitaria attiva e di inclusione. Le medaglie dipendono invece soprattutto da come è organizzato e programmato nel tempo il lavoro degli enti specializzati (federazioni sportive e comitati olimpici in primis). Paesi come la Gran Bretagna erano precipitati nel medagliere e hanno invertito la tendenza cambiando in radice il modello di organizzazione e incentivazione delle specialità. Paradossalmente (al netto del doping) hanno finito per dar vita a una versione iperliberista e “capitalistica” del modello Ddr anni Settanta. E’ lo Sports Council governativo (non il Comitato olimpico che conta poco o nulla) a fissare centralisticamente programmi e obiettivi. Al posto della rete organizzativa di regime ci sono sponsor commerciali che finanziano “chiavi in mano” i piani settore per settore beneficiando di iperbolici incentivi fiscali e di un formidabile ritorno di immagine a fini pubblicitari. Lo strumento operativo si chiama accountability: con i soldi degli sponsor si premia chi porta a casa il risultato. Non credo, però, che sia facile trapiantare un modello vincente in contesti fortemente strutturati. Il sistema sportivo sport italiano, ad esempio, è una macchina complessa da maneggiare con cura. Presenta punti di forza e fattori di criticità. Abbiamo un ente olimpico con funzioni molto ampie rispetto agli altri Paesi, una pratica scolastica di avviamento alla pratica tendente a zero, un sistema di sport in divisa che garantisce 4/5 del medagliere olimpico, un movimento come la promozione sportiva che andrebbe rigenerato profondamente ma che ha agito come serbatoio di quei “distretti sportivi” cui accennavo prima. Coniugare la necessaria innovazione di prodotto (come incrementare pratica diffusa e possibilmente medagliere olimpico) con quella di processo (come riformare un sistema bisognoso di un complessivo e coraggioso ridisegno) è la sfida del futuro prossimo. La candidatura olimpica di Roma avrebbe aiutato. Peccato, ma non voglio qui aprire un altro fronte di discussione. Ci ritorneremo e intanto grazie davvero, Ettore, per questo contributo. Facciamolo girare.
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Sapevo, Nicola, che avresti approfondito il tema con la tua grande competenza in materia. Saranno anche questi -mi auguro- gli argomenti che tratterai il 12 gennaio nella serata de Il Pensiero e la scena EROI, BARI E GUASTAFESTE – STORIE, LEGGENDE E GUERRE SIMULATE NELLO SPORT, appuntamento da non mancare.
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Ringrazio Ettore per l’interessante articolo e naturalmente Nicola. Vorrei aggiungere, a supporto di quanto diceva Nicola, la mia esperienza professionale, che mi porta a certificare l’idoneità dei ragazzi sotto i 14 anni. Al di sotto di questa età l’avviamento allo sport è di pertinenza esclusivamente dei genitori. Questi si accollano le spese di iscrizione alle società del nuoto, del calcio e degli altri sport. Immaginiamo una famiglia con 2-3 figli (ci sono ancora), ma anche con un solo figlio: diventa difficile per quella famiglia rientrare nel suo budget. Così non solo perdiamo futuri potenziali campioni, ma come dicono le statistiche cresciamo figli obesi predisposti a future malattie. Aiutare le famiglie, mi sembra un primo passo importante.
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Per il 12 gennaio mi sto già scaldando. Grazie anche a Enrico per la sua testimonianza, che conferma “sul campo” il quadro descritto con grande evidenza dalla nostra indagine. A fine mese avrò l’opportunità di illustrare a Madrid l’indagine e i primi aggiornamenti ai dati, che nella versione originale risalivano al 2014. Cercheremo così di valutare meglio gli effetti della crisi economica sullo sport di cittadinanza.
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