Lettera a un insegnante – ovvero richieste per il primo giorno di scuola
di GIACOMO ANGELINI ♦
In questi giorni ricomincia la scuola. Non è che siamo contenti, prof. Però va bene. Dopotutto inizia anche a fare più fresco, e poi, ovviamente, piove. Insomma, i pomeriggi a mare sono finiti, in qualche modo dovremo pure passarli quelli che ci aspettano. Però vorrei chiederle, chiedervi, chiederti qualcosa prima che inizi l’anno scolastico.
Il primo giorno, non cercate di fare subito i duri. Non fate l’appello: il primo giorno non manca nessuno. Anzi, ci veniamo proprio perché non si fa niente. Il problema sono quelli che vengono dopo.
E non ci chiedete se i compiti per l’estate li abbiamo fatti: li stiamo ancora copiando dall’unico che li aveva segnati sul diario dell’anno scorso. E non vi arrabbiate per questo, avevamo bisogno di un po’ di tempo per noi.
Non iniziate già a dirci cosa dobbiamo ripassare: sappiamo che c’è il trimestre, che è breve, che avete bisogno di voti, che avete fretta, che i programmi sono tanti, che abbiamo sempre meno tempo, che le gite, i ponti, le vacanze.. Sappiamo tutto. Ma non ci dite di ripassare. Non ce lo possiamo nemmeno appuntare sul diario. Non l’abbiamo ancora comprato.
E non ci chiedete quando inizieranno ad arrivarci i libri nuovi: parlateci a voce di quello che volete insegnarci. Una cosa detta da qualcuno che hai davanti, vale molto più di una cosa scritta da qualcuno di cui a malapena conosci il cognome, letto sul libro, col nome puntato.
Non ci dite che siamo in ritardo dopo la ricreazione, sappiamo anche questo. Ma veniamo da tre mesi in cui il tempo non è esistito. Vi prego, non ci chiedete che ore sono: lasciateci ancora un po’ di libertà.
Non spiegate fino agli ultimi minuti della campanella, lasciateci quei dieci, cinque minuti alla fine di ogni ora per parlare. E parlate con noi.
Chiedeteci cosa abbiamo fatto durante le vacanze, ma non davanti a tutti, così, per perdere mezz’ora di tempo. Fateci alzare, camminare per la classe, perché i ricordi per essere ricordati hanno bisogno di camminare. Altrimenti non vi meravigliate se la risposta sarà “niente”.
Non ci dite che quest’anno abbiamo l’esame di maturità, o i crediti, o le prove INVALSI, o la riforma, e quindi.. Lo sappiamo. Ma adesso cerchiamo di dimenticarci, per un attimo, in che mondo viviamo.
Chiedeteci cosa abbiamo letto, se abbiamo letto. Probabilmente non servirà a niente nella maggior parte dei casi, ma anche per stimolare il confronto fra compagni. “Lui ha letto, lei ha letto.. Perché io no? Magari domani ci provo. Inizio con due pagine, poi vediamo come va..” Tipo medicina.
Non scrivete niente sulla lavagna, lasciatela nera, o bianca, lasciatela pulita. Attirate voi, lei, tu, la nostra attenzione, così da capire, oltre che sentire, le vostre parole, che non rimangano vuote.
Non fateci stare cinque, sei ore in classe. Fateci uscire, c’è il giardino. Fateci camminare, fateci prendere aria. Abbiamo solo bisogno di credere che tutto questo sia meno peggio di quello che ci volete far credere già dal primo giorno.
Non sceglieteci voi il posto a sedere. Avrete tutto un anno per dirci cosa fare, e noi lo faremo, perché dobbiamo imparare. Ma il cammino è lungo, e almeno fateci scegliere i compagni col quale affrontarlo. Sono un disastro? Va bene, divideteci. Però più in là. Adesso fateci fare amicizia.
La preside, il preside, può venirci a salutare? Non con aria formale, eh. Per i corridoi. “Buon anno. Buono studio. Come va?” Molti alunni neppure lo conoscono il dirigente. Vorremmo conoscerlo, perché bisogna conoscere per rispettare.
I bidelli, potrebbero non farci sentire estranei dentro la nostra scuola? “Che ci fai qui? Mancano cinque minuti alla campanella. Prima delle otto non si entra.” Sarà pure un fatto “di sicurezza”, ma a me, a noi, fa estraneo. Non posso essere affezionato a un posto se non mi sento accolto. E ditegli di sorridere, che in fondo ci sono lavori peggiori.
Tu, prof, adesso, inizia a spiegare. Raccontaci di te, della tua estate, di quello che hai fatto e che avresti voluto fare, di perché hai scelto questo mestiere infame, e noi ti staremo a sentire. Perché siamo curiosi di conoscere chi ci sta davanti.
PS (ma importante): Vorremmo che la scuola non ci trattasse tutti allo stesso modo. Sembra strano, ma la legge non dev’essere uguale per tutti. Noi siamo tutti diversi e la scuola è una. Mi spiego. Se a una classe con un elefante, una scimmia, un pesce, una foca, un eccello, un pinguino, un cane, chiedi di scalare un albero, la scimmia lo scalerà con facilità, perché le sue braccia lo consentono, l’uccello ci volerà sopra, perché le sue abilità gli permettono di superare l’ostacolo, il cane potrà anche arrivare fino in cima, ma con molta difficoltà. Per il pesce, il pinguino, l’elefante, la foca, sarà impossibile riuscire a salire sull’albero. Trattateci tutti in modo diverso, e vedrete che vedremo la scuola un po’ meno come un avversario da evitare o da sconfiggere, e più come un posto dove imparare.
Buon Anno.
GIACOMO ANGELINI
E’ curioso leggere oggi in queste righe quello che 40 anni fa noi pensavamo ma non si sognavamo di scrivere. Eravamo decisamente pigri anche in questo. Un’altra generazione. Un bell’esordio, alunno Giacomo.
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Forse un giorno il nostro paese avrà scuole aperte tutto il giorno, scuole da vivere e nelle quali crescere. Quando andavo a scuola io si andava a scuola pensando già all’uscita, a volte con orari impossibili. Ero a La Spezia, si faceva il terzo turno dalle 17 alle 21. Oggi, che fra TV ed altri media si sa cosa succede altrove, nel mondo, vedi ciò che accade in altri paesi. Vedi ad esempio paesi nei quali la scuola è aperta tutto il giorno, oltre alle lezioni classiche si ha tempo per svagarsi, per la creatività, per esperienze complementari, fare sport ed anche, ovviamente, per studiare. La scuola diventa il proprio ambiente, non è solo un luogo dove passare 4 o 5 ore seduto al banco a subire passivamente la lezione. Lo so sembra una utopia, ma forse qualcosa si può comunque fare, ma forse parlo un po a vanvera, troppi anni sono passati dall’ultima volta che mi sono seduto su un banco di scuola.
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Quanta acredine Giacomo! Va bene che sei uscito con poco più di 60 però sarebbe meglio non sputare sul piatto dove hai mangiato e leccato per bene. Una tuo ex( per fortuna) compagna di classe.
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Cara Manuela, questo commento, non solo è fuori luogo, ma non c’entra il focus di quello che ho scritto. Vedi, io, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, amo la scuola, amo i professori, e proprio per questo vorrei si “salvassero” dall’essere impiegati di un ufficio e ritrovassero quella spinta che li ha portati a scegliere questo lavoro, per molti versi meraviglioso. Vedi, Manuela, probabilmente, come me, hai fatto il Classico, evidentemente, ma non hai imparato a leggere. Non hai imparato a leggere tra le righe, ti sei limitata a leggerci sopra, come fanno tutti i bravi robottini. SE avessi imparato a leggere davvero, avresti capito bene che questa lettere di uno studente ad un insegnante, non è un’accusa, è un’amorevole “svegliati”. Massimo Recalcati, un famoso psicoanalista, dice che la Scuola, come quella di ieri guardava ai padri, in una sorta di complesso di Edipo, oggi guarda se stessa, come Narciso, e se ne compiace. In realtà dovrebbe guardare come guardava Telemaco il ritorno del padre Ulisse, con speranza per il ritorno del padre, ma non per dipendenza, ma bisogno, il bisogno di avere un esempio da seguire, per cambiare. Magari leggilo questo libro, spero che tu possa capire. Anche se non mi sembra. Vedi, Manuela, mi dispiace che tu, come altri, non abbia capito. Però questo è un problema tuo. Io non posso che scrivere, e se chi legge fraintende, probabilmente ha qualcosa che gli pesa sulla coscienza. Vedi, Manuela, la mia non è acredine, anzi, è amore. Invece vedo tanto rancore. Questo rancore, non lo trasformare in critica agli altri. Ma a te stessa. Vedi, a me non dispiace essere uscito con un voto basso dal liceo, e sai perché? Perché io, il liceo, me lo sono vissuto. Sono stati anni meravigliosi, che ancora oggi ricordo con molto affetto, con molto piacere, e con grande nostalgia. In questi anni ho incontrato persone meravigliose che mi hanno dato la possibilità di esprimermi, altre da cui mi sono allontanato perché era giusto così. Vedi, Manuela, io non ho sputato in nessun piatto, anzi, ho ammirato quella scuola che per anni mi ha dato da mangiare, e a cui io ho dato un pezzo di me. Lo scambio è reciproco. Tu, invece, cosa hai dato? Prova a vedere se la scuola ha avuto qualcosa in cambio da te. Probabilmente ti accorgerai che avresti potuto dare molto di più. E non l’hai fatto, perché eri concentrata su te stessa. Vedi, Manuela, io sono contento del mio percorso. Mi chiedo, ora, se anche tu lo sia davvero, dato che evidentemente è un percorso pieno di rancori.
Ah, Manuela, un’ultima cosa. Dato che nella mia classe nessuna si chiamava Manuela, abbi il coraggio, oltre che di non saper leggere, di dire davvero chi sei. Un’ultima cosa dice Recalcati: l’esame di maturità serve a farci acquisire la responsabilità della parola. In quel momento noi siamo soli davanti alla commissione, e la nostra parola è “nostra”, e di nessun altro. Solo così si diventa grandi, maturi. Ecco, a questo serve la Maturità. Ma mi sembra che tu, cara Manuela, non ne abbia.
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Cara Manuela, ma lei era una compagna di classe delle superiori? Perché anche io lo ero ma non ricordo nessuna “Manuela”.
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