SPAZZINO SARA’ LEI!
di ANGELO SIMONE CANNATÀ ♦
Un uomo chiamato a fare lo spazzino dovrebbe spazzare le strade così come Michelangelo dipingeva, o Beethoven componeva, o Shakespeare scriveva poesie. Egli dovrebbe spazzare le strade così bene al punto che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermerebbero per dire che qui ha vissuto un grande spazzino che faceva bene il suo lavoro.
Martin Luther King
Che la città fosse sporca non era davvero un mistero e non occorreva essere appena arrivati dalla Svizzera per capirlo. Era maleodorante e sporca. Di uno sporco antico, ossidato, appiccicoso e scuro che non hai scuse.
Nessuno sa come né perché, ma si era sparsa la voce che stesse arrivando uno spazzino da fuori e che sarebbe arrivato col treno. Per accoglierlo degnamente, in fretta e furia fu costituito un comitato di accoglienza con tanto di banda col maestro in testa e un rappresentante dell’amministrazione comunale con la fascia tricolore. Quando a metà mattina il treno, sul quale fonti molto sicure avevano segnalato la presenza dello spazzino, si fermò alla stazione, c’era un folto gruppo di curiosi ad attenderlo, oltre, ovviamente, al comitato incaricato al cerimoniale.
Dopo che lo stridore dei freni del convoglio si chetò, si aprì lo sportello di una carrozza di quelle più vicino al locomotore e da questa ne scese un solo uomo. Fu allora che la banda iniziò a suonare a gran volume una marcetta allegra, per interrompersi subito dopo, con la bava del suono sgraziato delle trombe alle quali è stato tolto il fiato. Nella stazione dei treni calò un silenzio imbarazzato: non era uno “spazzino” l’uomo venuto da lontano, ma uno “spezzino”, ovvero un nativo di La Spezia, famosa città marinara sul golfo ligure.
– Che fine hanno fatto gli spazzini? – si chiesero tutti.
Vorrei proprio saperlo anche io.
Scomparsi. Dissolti nel nulla. Estinti come la foca monaca, tanto che se ne parli ad un ragazzino di oggi nemmeno ti capisce.
Lo spazzino era un uomo semplice e buono e se lo chiamavi “scopino”, “netturbino” o anche “monnezzaro”, mondezzaio per quelli che parlavano bene, non si offendeva.
Aveva come strumento di lavoro una ramazza formata da ramoscelli di erica o di saggina e da un manico di legno, e un carretto con uno o due grossi secchi che usava spingere lungo le via urbane.
Poggiata a terra la parte terminale della scopa, quella opposta al manico per intenderci, si compiva allora una specie di magia. Questa, azionata dalla forza delle braccia, iniziava a scorrere da destra a sinistra, ma anche in senso inverso, sulle strade e sui marciapiedi e creava dei simpatici mucchietti di immondizia che poi, con l’ausilio di una paletta, venivano raccolti e immessi nei secchi al seguito.
Il risultato? Strabiliante: la città diventava pulita.
Tutto questo avveniva in un tempo lontano, molto prima che le braccia umane perdessero alcune delle loro funzioni, atrofizzandosi per inattività perché poggiate troppo a lungo sul piano di una scrivania o lasciate cadere penzoloni davanti al distributore del mocaccino.
Ma i peggiori, quelli che più di altri determinarono l’estinzione degli spazzini, furono i buoni.
Quelli che hanno pietà di tutto e di tutti, men che per le cose che meritano pietà, e piangono per la morte della pianta del basilico sul balcone e per il dolore inferto alla zanzara spiaccicata barbaramente sulla parete bianca, con l’ausilio del canovaccio da cucina, nelle afose notti d’estate.
Per prima cose pretesero che lo spazzino fosse investito col nuovo altisonante titolo di operatore ecologico. Perché spazzino suonava male e poteva sembrare offensivo.
Questo, lo spazzino, disorientato non sapeva più se recarsi al lavoro con la tuta di fustagno blu o in giacca e cravatta.
– Se sono operatore, allora opero! – pensò lo spazzino – La mondezza raccoglietela voi.
Alcuni dissero che quello era un lavoro umile, poco adatto per essere praticato con soddisfazione dagli uomini, però lo riconobbero utile, nell’immediato, per scambiare favori od ottenere voti in periodo elettorale.
Altri ancora volta misero in giro la voce che nessuno voleva far più il lavoro dello spazzino, perché in fondo si trattava di un lavoro sporco e faticoso.
E’infatti risaputo che le persone che un lavoro non ce l’hanno, preferiscono di gran lunga dormire in macchina e mangiare alla Caritas, oppure addirittura suicidarsi per disperazione, prima di accettare un’assunzione a tempo indeterminato presso un azienda di raccolta dei rifiuti.
Il dubbio che mi assale è che furono assunti per fare gli spazzini, dei lavoratori che non erano spazzini. Degli avvocati? Dei ragionieri in incognito? Degli inventori? Dei ricercatori? Persone che appena essersi assicurato uno stipendio, per quanto modesto, subito si ingegnarono per fare qualcosa di importante che non ci è dato di sapere? Chissà. Certo è che pian piano questi lavoratori manuali impiegati nel settore della nettezza urbana si dissolsero nel nulla e la città divenne appiccicosa come la melassa.
Per quel che mi riguarda sono un uomo qualunque, uno della strada e in quanto tale, se ci fosse, uno spazzino prima o poi lo incontrerei.
Mi nascono al proposito delle domande sceme alle quali mi piacerebbe dare una risposta.
Dicono che non ci sono fondi, che la città è al tracollo finanziario.
Significa forse che siccome non abbiamo di che pagarli abbiamo mandato gli spazzini a casa? Come quando costruisci in economia e chiami un muratore e un manovale a metter su le file di blocchetti di tufo solo quando pora zia ti ha regalato il suo libretto di risparmio al portatore o hai messo da parte qualche Euro? Se è così allora non ho che dire. Alzo le mani.
Ma se lo stipendio ai netturbini ancora viene corrisposto, dov’è che stanno? Capisco che le spazzatrici hanno bisogno di gasolio per camminare, ma il carretto e la scopa hanno bisogno di braccia. E forse anche di un po’ di amore per se stessi e per il posto che si vive.
Il lavoro dello spazzino, come tutti i lavori onesti, non è svilente. E’ svilente lavorare la metà delle ore che ti spettano e le altre trascorrerle ad aspettare che passi il tempo, perché tanto il posto fisso ce l’hai e nessuno te lo può levare.
Io però me lo ricordo il mondo quando ancora esistevano gli spazzini. Quello che si occupava di tenere pulito il nostro quartiere si chiamava Nino e gli volevamo bene. Passava tutti i giorni sotto casa col suo carretto ed era quasi considerato un parente da tutti. Aveva una bella famiglia: un figlioletto poco più piccolo di me, una bambina con i boccoli biondi come Shirley Temple e una moglie che gli accendeva lo scaldabagno Zoppas in tempo, perché tornando a casa dal lavoro potesse farsi un bagno caldo.
Possedeva oggetti meravigliosi senza alcun legame di forma, tipo e colore tra loro. Erano quelli che la gente gettava via e che lui recuperava dai secchi, regalandogli una seconda vita.
Io li ricordo quegli anni che erano del sacrificio ma anche della dignità, dell’impegno e del futuro che ti correva incontro, incosciente e pieno di possibilità come un giovinetto che ancora non sa bene cosa farà da grande.
Per carità, anche questa è vita e negarlo sarebbe sfidare la buona sorte, ma viverla nel degrado che è sotto gli occhi di tutti e al quale giorno dopo giorno ci stiamo sempre più abituando, equivale a vivere un po’ meno.
Forse ci meriteremmo un nuovo rinascimento, un nuovo decoro, per vivere con orgoglio questa città difficile.
Io non voglio smettere di crederci.
Stupendo il racconto è affascinante la lingua, azzardata la speranza, temo. Dovunque vada, tornando dopo anni negli stessi luoghi, trovo tutto peggiorato. Tranne, devo dire, le valli del Trentino. Ma noi viviamo altrove.
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Preciso, delicato, emozionante, complimenti Angelo Simone.
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Leggo, in genere, tutti gli articoli scritti per il blog. Questo, forse perchè ero in vacanza,confesso, mi era sfuggito. Molto accattivante. Bella narrazione. Divertente ma anche ricco di spunti di riflessione. Alla prossima.
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