Appunti di viaggio

di MARCO PIENDIBENE ♦

Il Sudafrica è una terra incantevole e il Capo di Buona Speranza è uno dei luoghi più ventosi dell’universo. Questi due elementi furono decisivi per convincermi a partire, nel 1988, alla volta di Città del Capo con grande entusiasmo ed un extra baggage di cento chili tra tavole, alberi e vele da windsurf.
Il mio impegno politico era ancora lungo da venire e tuttavia avevo ben chiara la situazione sociale di quel grande Paese: c’era l’apartheid e chi aveva il visto sudafricano sul passaporto avrebbe avuto preclusa ogni possibilità di recarsi in molti altri paesi che boicottavano apertamente il governo di Pretoria. Io però volevo vedere con i miei occhi e una volta laggiù mi resi conto che la realtà superava di molto ciò che un ragazzo italiano, con il mio vissuto, potesse immaginare. Cartelli che vietavano l’ingresso ai neri, messi non soltanto fuori dei locali, ma anche in luoghi pubblici come spiagge, giardini o impianti sportivi.
Mi capitava di parlare di queste cose con i ragazzi sudafricani che praticavano il mio stesso sport che, per quanto fossero di ceppo inglese e dunque molto più “progressisti” dei loro connazionali boeri, con un disarmante buonismo di facciata ci rivelavano che loro erano “affezionati” a molti neri che conoscevano ma erano anche convinti che a loro non potessero essere concessi gli stessi diritti dei bianchi semplicemente perché non erano culturalmente in grado di gestirli (!)
Robben Island era proprio lì davanti, visibile da Table view dove surfavamo tutti i giorni, e sapevo che proprio lì Nelson Mandela aveva provato gli stenti del carcere durissimo. Mi avevano anche detto che era stato trasferito qualche anno prima in un’altra prigione ma che, proprio in quei giorni, stava per essere trasferito ancora, a causa della tubercolosi contratta in cella. Victor Verster, l’ultimo suo “confino” era abbastanza vicino alla casa che noi, surfisti italiani, avevamo affittato per due mesi e ciò ci fece sentire immeritatamente al centro del mondo.
Tornai in Italia ma ormai seguivo le vicende sudafricane quotidianamente. Importantissimi eventi incalzavano incessantemente: all’ostinato Pieter Willem Botha succede il mediatore Frederik W. De Klerk ma i disordini nelle township sono all’ordine del giorno. Ormai ero attratto da quella terra anche per motivazioni che senza la mia permanenza laggiù, non avrebbero mai potuto emergere. E quindi decisi di tornare a Cape Town anche nell’inverno del 1989.
Una volta arrivato provai la piacevole sensazione di sentirmi in un luogo familiare anche perché conoscevo tante persone che furono felici di rivedermi. Frequentavo surfisti, certo, ma partecipavo anche alla vita sociale della gioventù più progressista. Le manifestazioni cominciavano a vedersi anche nella city e così un giorno mi accodai ad un corteo per la parità dei diritti degli studenti “coloured” (così chiamati perché di sangue misto e ai quali si riconosceva un livello sociale più elevato dei neri). Improvvisamente apparvero tre grossi camion della polizia che in meno di un minuto salirono sui marciapiedi nei punti strategici della piazza, lasciarono cadere a terra un pesantissimo blocco di cemento dal quale partivano delle grosse spire di filo spinato che si svolgevano dal cassone mentre il camion procedeva velocemente a circondare la sua porzione di manifestanti. Poi arrivarono gli idranti con i getti di vernice che dovevano servire a “pitturare” gli accerchiati per renderli riconoscibili anche dopo una eventuale fuga. Per fortuna non ci fu alcuno scontro violento e la folla si disperse senza incidenti sotto gli occhi di una polizia ostile che aizzava i cani contro coloro che brandivano dei cartelli.
Eravamo ormai nel 1990 e Mandela sarebbe stato liberato di lì a poco ma solo in seguito ebbi la conferma che quell’uomo, divenuto presidente, era effettivamente il faro di cui il Sudafrica aveva bisogno. Troppo alto era il rischio di finire come la Rhodesia che con la cancellazione dell’Apartheid aveva di fatto cancellato, con le buone o con le cattive, tutta la popolazione di razza bianca in quello stato che poi divenne lo Zimbabwe di Mugabe.
Mandela no, egli capì che al potere bianco non si doveva contrapporre un potere nero e che ai bianchi, anche durante il periodo del difficile equilibrio delle responsabilità politiche, amministrative ed istituzionali in seno allo stato, si doveva garantire uno stato di diritto che garantisse loro di sentirsi non più su un piedistallo ma, più semplicemente , a casa propria. E così tornai in Sudafrica altre tre volte potendo così constatare che tanti amici bianchi, proprietari di ristoranti, professionisti, impiegati, sono rimasti ed hanno garantito a quel paese una transizione difficilissima, senza spargimenti di sangue, nell’esercizio della democrazia. Grazie a Mandela.

*nella foto di testata, Table Mountain che domina la baia di Cape Town, spazzata dal vento di south east

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