Il trumpismo e il “male americano”
di NICOLA R. PORRO ♦
Di recente ci siamo occupati dell’Europa e della sua obiettiva fragilità nel quadro della competizione globale. A preoccupare è però soprattutto l’assenza di una qualsiasi strategia a scala continentale, quasi fossimo ancora alle prese con la pura necessità di contenere l’orso russo ignorando l’alleanza che si sta consolidando fra questo e l’altra grande autocrazia: la Cina. Quest’ultima è da oltre un decennio economicamente competitiva e politicamente più robusta dell’Occidente, minato all’interno dalla crescita del radicalismo di destra e dall’esterno dalle tentazioni isolazioniste degli Usa di Trump. Il quadro è reso più critico dai retaggi della Guerra Fredda che affliggono l’Europa e dall’inaffidabilità di un alleato come Trump, incline e farneticazioni nazionalistiche e a un ostentato antieuropeismo. Piaccia o non piaccia, del resto, la Cina di Xi, la Russia di Putin e l’America di Trump hanno già abbozzato un nuovo ordine internazionale che prevede un drastico ridimensionamento del ruolo e del peso dell’Europa. A favorirlo il progressivo disimpegno americano dalla solidarietà atlantica e il conseguente indebolimento del potenziale difensivo degli alleati occidentali. Di certo il modello di alleanza e cooperazione elaborato fra le potenze occidentali nel contesto della Guerra Fredda è ormai definitivamente esaurito senza che vi sia all’orizzonte alcuna valida alternativa. L’alleanza fra la forza militare dell’autocrazia russa e la potenza economica cinese descrive però un quadro inquietante, soprattutto se si considera la crescente influenza di quella destra radicale che oltre Oceano alimenta le tentazioni isolazioniste e antieuropeiste di Trump. In gioco c’è il futuro della democrazia. Se infatti gli Usa conoscessero un’involuzione verso qualche forma di autocrazia e voltassero le spalle agli alleati storici si aprirebbero scenari inquietanti con il rischio, ad esempio, di sottovalutare la rinnovata aggressività russa e insieme di sopravvalutare la potenza cinese. Solo una rinnovata e coraggiosa leadership occidentale potrebbe far fronte a rischi che non hanno precedenti. Di certo non rivivremo un’altra Guerra Fredda, simile a quella che si sviluppò nei primi decenni postbellici. Altrettanto certamente, però, le risorgenti suggestioni nazionalistiche – si pensi all’acronimo Maga (Make America Great Again) tanto caro a Trump – non promettono una globalizzazione della democrazia. Si fa invece più evidente la relazione fra declino del vecchio ordine mondiale ed emergenze populiste. Quasi per forza di inerzia si ripropongono così vecchie modalità di conflitto. Negli Usa, Paese leader dell’Occidente, tanto i repubblicani quanto i democratici ostentano una retorica anticinese che riproduce pari pari gli slogan antisovietici della vecchia Guerra Fredda. E lo stesso accade, quasi in un eterno ritorno dell’uguale, per le categorie ideologiche e persino le strategie militari adottate all’epoca. Su entrambe le sponde dell’Oceano i pericoli per le democrazie sono però di natura del tutto diversa rispetto a quelli corsi nel tempo della Guerra Fredda e del confronto con l’allora Unione Sovietica. Mi pare che in proposito si possano isolare nella produzione politologica nord-americana alcune questioni ricorrenti. La prima riguarda l’idea che le due grandi autocrazie orientali (Cina e Russia) costituiscano attori globali orientati a contestare su ogni terreno il “primato” occidentale. La seconda concerne la natura prettamente ideologica e nazionalistica del conflitto, incline a logiche noi-loro che, nel caso di Trump, si accompagnano a un’ostentata diffidenza verso i partner europei. Si manifesta poi, da parte della pubblicistica nordamericana, una crescente (e forse esagerata) inquietudine per la rilevanza assunta dalla potenza economica cinese quasi a riproporre il vecchio incubo del “pericolo giallo”. Sono invece scarsamente indagate tanto la robusta crescita della destra radicale negli Stati Uniti come in Europa quanto la polarizzazione dell’opinione pubblica nordamericana fra una maggioranza politicamente passiva e una minoranza incline all’isolazionismo.
In questo quadro la retorica trumpiana, ispirata al “fare di nuovo grande l’America” e incline a dissociare i destini degli Usa da quella dei partner europei, non va banalizzata né ridotta a un’esibizione di slogan propagandistici. Più che solleticare un grossolano nazionalismo, Trump mira infatti a intercettare con la sua retorica umori alimentati da una latente crisi d’identità. L’hanno chiamata American Malaise e si alimenta di allarme sociale in materia migratoria, di criminalità e di violenza diffusa. Dal tempo della Guerra Fredda ha ereditato un repertorio propagandistico proprio della destra radicale mentre le divisioni fra repubblicani e democratici – e all’interno di entrambi gli schieramenti – sembrano esasperarsi. Gli uni e gli altri sono costretti a inseguire la propaganda trumpiana abbassando il livello del confronto politico. In entrambi gli schieramenti i leader (i big challenger) sono divisi fra Isolazionisti e pluralisti quasi cancellando la storica opposizione fra democratici e repubblicani. Nessuna analogia è dunque possibile con gli scenari del Novecento, della Guerra Fredda e delle prime decadi del Duemila. E specularmente l’opposizione oscilla fra pulsioni radicali e battaglie di retroguardia. Tentazioni autocratiche e umori demagogici sono del resto ingredienti primari del cosiddetto neopopulismo. Un fenomeno che nel gergo politologico italiano associamo alle categorie del qualunquismo e del massimalismo, intese come esemplari del genere populismo.
NICOLA R. PORRO

Di fronte allo scenario che Nicola tratteggia, come di consueto, in modo impeccabile, nasce una riflessione sull’Europa. E’ persino scontato dire che, in un mondo così, l’unica speranza per il Vecchio Continente è l’unità, non solo economica ma anche politica (e militare). Purtroppo, però, in tutta l’Europa stanno prevalendo forze nazionaliste ed euro-scettiche. Siamo destinati alla catastrofe ?
Roberto Fiorentini
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