SULLA PROVINCIA E ALTRE MALINCONIE DI PERIFERIA
di ANGELO SIMONE CANNATÀ ♦
C’è qualcosa di tristemente provinciale nel parlare male… delle province.
Quelle città “di mezzo”, né piccoli borghi né grandi metropoli, che orbitano con umiltà attorno ai capoluoghi. Non abbastanza lontane da essi da essere davvero indipendenti, ma neanche così vicine da poterne condividere i vantaggi.
Guarda noi, ad esempio, che viviamo a Civitavecchia: Roma ci uccide.
Sì, proprio lei. Non Grosseto, che pure dista solo qualche chilometro in più.
Quando al nostro teatro comunale vanno in scena spettacoli di tutto rispetto, la risposta è spesso la stessa:
“Seee, vado a Roma! A Roma è tutta un’altra cosa!”
A Roma ci sono i nomi più in voga, le scenografie più spettacolari, le tecnologie più moderne. Tutto quello che un piccolo centro di provincia – come il nostro – non può permettersi.
E questo vale anche per i medici.
“In quell’ambulatorio riceve un dottore che viene da Roma. Il mercoledì!”
Il solo fatto che lo specialista arrivi dalla capitale sembra valere quanto una seconda laurea. Un bonus. Un master.
Magari è finito in provincia proprio perché lì non era considerato, o aveva una reputazione traballante.
Ma da noi, se “viene da Roma”, allora è per forza bravissimo.
E guai a metterlo in dubbio: si rischia un duello a colpi di ricette pur di difendere questa convinzione.
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Se da un lato il cittadino di provincia è costantemente critico verso la sua città, dall’altro si vanta con orgoglio dei suoi aspetti peggiori, come se fossero primati di cui andare fieri.
È un paradosso. Ma succede. Eccome se succede.
Prendiamo il caso dei camini delle centrali elettriche.
Ne ho sentiti tanti dire, con aria soddisfatta:
“La ciminiera della nostra centrale a carbone è la più alta e grande d’Europa!”
E non con tono preoccupato per l’ambiente o per la salute. No.
Lo dicevano con la stessa espressione di chi proclama: “Io ce l’ho più lungo!”
Quando non possiamo vantare il traffico, il numero di cinema, i negozi o gli eventi di una grande città, ci aggrappiamo ai primati che possiamo raggiungere, anche se sono negativi.
L’importante è primeggiare, a qualsiasi costo.
Anche se nessuno vorrebbe davvero condividere quel primato con noi.
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La provincia soffre di un complesso d’inferiorità profondo.
E invece di guardarsi dentro, si rifugia nel confronto continuo con la città: spesso perdente, a volte patetico.
C’è poi un altro aspetto che fatico ad accettare.
In provincia, ma non so dire se sia un fenomeno solo della provincia, troppe persone sono sempre contro tutto. Pronte a giudicare negativamente qualunque proposta. A stroncare ogni tentativo.
Anche il più semplice.
Voglio raccontare a tal proposito una mia esperienza.
Sono nato – nemmeno in una città di provincia – ma nella sua periferia.
In un posto che chiamano borgata, o anche frazione.
Sono nato ad Aurelia, e questo sì che è un record: quasi tutti i governi cittadini, nel tempo, si sono dimenticati della sua esistenza.
Nella vecchia piazza di questo borgo, nato ai margini di un importante insediamento industriale dei primi del Novecento (poi smantellato nel dopoguerra), c’è un grande orologio.
Uno di quelli con le lancette nere e i numeri grandi, come si usava una volta.
È fermo.
Guasto da anni. Io, in tutta la mia vita, non l’ho mai visto funzionare.
Un giorno, attraversato da una riflessione poetica, pensai che forse il destino della borgata fosse legato a quell’orologio.
Che il suo declino – da “Città Giardino” come veniva chiamata prima della guerra, al luogo trascurato e degradato che conosciamo oggi – fosse segnato da quelle lancette immobili, incapaci di contare il tempo.
Così proposi, sui social, di ripararlo.
Un gesto simbolico, un tentativo di ridare fiato alla memoria del luogo.
Eppure, la reazione fu scoraggiante.
C’era chi diceva che prima dell’orologio bisognava sistemare le fogne.
Chi sosteneva che prima ancora veniva l’impianto idrico.
Poi arrivarono quelli che reclamavano la pubblica illuminazione.
C’era persino chi voleva abbattere tutto e costruire un bar col biliardo.
Tutti contro. Nessuno per. Nessuno che vedesse nel gesto un significato più grande del suo valore pratico.
Peccato.
Perché quello che manca, spesso, non sono i servizi, ma lo sguardo.
Lo sguardo di chi sa riconoscere valore in ciò che esiste, anche se logoro, anche se da riparare.
Il valore di un punto di partenza.
Lo sguardo poetico, capace di dare senso a un orologio fermo in cima a una piazza dimenticata.
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E dire che qui da noi c’è il mare, che da solo basterebbe a renderci diversi. Con una marcia in più.
Forse dovremmo iniziare a pensare che la vera grandezza delle città di provincia non sta nel competere, ma nel differenziarsi.
Dovremmo ritenerci felici di quel che abbiamo e, possibilmente partecipare alla sua valorizzazione, essere propositivi, collaborativi. Attenti.
Credo che la fortuna del vivere in provincia sia soprattutto nello sguardo di chi le abita.
Perché, in fondo, non sono le città a non essere grandi.
Sono le persone, a volte, a non esserlo abbastanza.
ANGELO SIMONE CANNATÀ

Bravissimo, tutto giusto e condivisibile. Michele Capitani
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Sono d’accordo! È il provincialismo dell’anti provincia.
Io ricordo compagne mie di Scuola che il sabato andavano a Roma a comprare magliette e pantaloni di tela “Genova” ( i jeans, insomma) di marche vendute anche all’epoca in più negozi di Civitavecchia…Ma vuoi mettere l’esibizione della busta con su scritto un indirizzo di Roma?! Eh, tutta un’altra cosa, cari “provincialotti”
Maria Zeno
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Sapessi,come allenatore di Basket, insieme a colleghi civitavecchiesi come me, abbiamo vissuto la situazione di “inferiorità”nei confronti di allenatori ritenuti migliori perché venivano da Roma !
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firmato Stefano Cervarelli
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È proprio così. Un teorema troppo complesso per troppi, purtroppo… Ernesto Berretti
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