Riflessioni sul fine vita
di ENRICO IENGO ♦
“Capelli neri e giovinezza sono un soffio” (Qoelet)*
“Prima che si precipiti su di noi, la vecchiaia è una cosa che riguarda solo gli altri” (Simon De Beauvoir)*.
Era da un po’ di tempo che si sorprendeva a pensare alla morte. Del resto era naturale: quando gli anni sono tanti si finisce per considerare come l’evento ineluttabile ci appartenga sempre più. Prima non era così, prima veniva percepito come qualcosa che riguarda soprattutto gli altri.
Di qui nasce l’interrogativo inevitabile sul quando e soprattutto sul come.
Da circa un anno l’uomo aveva perso il coniuge, aveva due figli, bravi ragazzi e molto legati a lui, ma lavoravano in luoghi lontani dalla sua casa e quindi le loro visite erano necessariamente diradate nel tempo. Aveva svolto una professione appagante, al servizio degli altri, con un notevole carico di responsabilità e ciò lo rendeva orgoglioso e consapevole di aver lasciato un ottimo ricordo, con un bilancio della propria attività più che positivo.
Certo, gli mancavano il lavoro, il contatto con gli altri colleghi, ma soprattutto l’essere utile agli altri. Con il tempo aveva scoperto che nella vita o si è utili o si è inutili e in quest’ultimo caso si cerca disperatamente un nuovo senso, che non sempre si trova.
Il suo corpo era cambiato: la colonna aveva assunto una curvatura permanente, determinando una postura con il tronco leggermente flesso in avanti, la fronte alta e spoglia, le sopracciglia incanutite, due rughe profonde gli scavavano la pelle ormai ingiallita per l’età. Ad uno sforzo minimo come il camminare corrispondeva un affanno ingravescente che limitava la sua autonomia. Che nostalgia per quelle lunghe passeggiate in riva al mare, con la moglie sottobraccio, in quelle belle giornate di sole! Ora la sua meta abituale era il supermercato sotto casa.
Aveva ridotto anche i suoi accessi dal medico, soprattutto da quando il suo vecchio, caro medico era andato in pensione.
Era un uomo molto colto, nella sua casa accogliente non mancavano libri di filosofia, storia, narrativa: aveva sempre letto molto con grande piacere ed era consapevole della ricchezza che gli veniva dai suoi tanti interessi letterari, ereditati probabilmente dalla madre. Ma qualcosa negli ultimi tempi era cambiato. Per esempio aveva ripreso in mano l’”Ulisse” di Joice, ma non riusciva ad andare avanti, si doveva fermare dopo qualche riga e rileggerla più volte per memorizzarla nella sua testa; del resto le piccole dimenticanze facevano parte della sua vita quotidiana, come quando cercò per oltre un’ora la propria auto parcheggiata da qualche parte.
La sua vita era stata vissuta intensamente, senza risparmiarsi: viaggi in Paesi lontani, esperienze sempre nuove, una instancabile sete di sapere. Quando si scopriva a riflettere su questi temi arrivava ad una conclusione: non era stanco della vita, ma piuttosto sazio. Ironicamente gli veniva in mente un ristorante con la stella Michelin, il maitre di sala che si avvicina e propone un’ultima portata, che devi rifiutare perché proprio non ce la fai.
Un altro sentimento che viveva con amarezza era una perdita di significato e di scopo. Mancanza di empatia e distacco reciproci fra sé e li mondo circostante erano aspetti della vita quotidiana, improntavano e impregnavano i rapporti sociali.
Cominciò a pensare al significato che aveva assunto questa rimanenza di vita, a cosa poteva chiederle, se non ciò che era impossibile ottenere, soprattutto cominciò a pensare che non c’è vita senza possibilità e che, come insegnava il buon Seneca, uno dei suoi autori preferiti: “Non omni pretio vita emenda est”.
A fronte della fine delle possibilità, nella lucida, volontaria, indipendente libertà di decidere sul fine vita, rivendicò il diritto di poter scegliere il come e il quando e si incamminò verso una strada senza ritorno.
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Il 28 Novembre 2011 Lucio Magri decise della propria morte per mano altrui in piena lucidità, compì tutto l’iter burocratico necessario in totale solitudine e anche contro il parere dei suoi amici e familiari più stretti, ribadì in clinica il consenso libero e informato, quale è richiesto dalla procedura medica svizzera per la morte volontaria assistita. L’eco mediatica di tale scelta fu enorme nel mondo. Il dibattito fu acceso, appassionato, con ovvi risvolti sul piano giuridico e religioso, ma soprattutto a sinistra la notizia venne accolta con sconcerto e stupore: un grande leader comunista assumeva di fronte al mondo una decisione che sembrava una metafora proprio di quella sinistra che aspirava a cambiare il mondo e che ammetteva la propria sconfitta. C’è chi la definì una scelta “socratica”: quando la “polis” non è più la tua casa, quando alle ragioni della politica si associano la perdita degli affetti e degli interessi, puoi non vedere alternative alla cicuta. Altri, molto semplicemente, l’hanno giudicata conseguenza di una patologia depressiva.
Ben presto scattò in tanti il meccanismo difensivo della rimozione: si spensero i riflettori sulla vicenda e sul suo significato individuale, sociale e politico.
Io credo che qualsiasi tentativo di spiegare quella decisione individuale rischi di essere sbagliato e ingiusto: l’uomo non era né un folle né un reietto, era un soggetto che scelse per sé, in piena autonomia, nella sua piena libertà individuale, di compiere un gesto che avviene necessariamente in un contesto sociale, ma rispetto al quale la società deve tacere e avere rispetto, interrogandosi però sul significato generale che chiama in causa aspetti etici, giuridici e politici.
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Quale è il fondamento alla base del “senso” dell’esistenza per un laico? Possiamo dire, seguendo il ragionamento sviluppato fin qui, che perseguire una ricerca di senso nell’esistenza non può prescindere da una condizione psico-fisica che consenta una libera espressione del sé. Per questo trovare un senso nell’esistenza è diverso all’età di 80 anni rispetto alla gioventù e alla maturità, perché il senso ha bisogno di futuro, di possibilità, di anni. E senza senso è mera sopravvivenza.
Non si può non tenere conto di due variabili che si fondono in una sintesi vincolante l’esistenza: una variabile individuale interna, legata alla ingravescente vulnerabilità del corpo e dei suoi organi e una consistenza esterna connessa con il ruolo sociale in una società votata a produrre e a consumare, ove chi non produce e non consuma è equiparato a oggetto da rottamare.
Bobbio scrisse il “De Senectute” all’età di 87 anni. In un passo, impregnato di realistica malinconia, sosteneva: “Non condivido una patetica e ingannevole retorica della vecchiaia…Mi riferisco alla retorica del <<vecchio è bello>>. No, il vecchio non è sempre bello. Anzi è quasi sempre più brutto che bello…La medicina ha fatto progressi enormi e benefici, per quel che riguarda non solo l’allungamento della vita, ma anche la diminuzione delle infermità tipiche della vecchiaia. Ma in molti casi la vita del vecchio è pura sopravvivenza, una lunga attesa della morte”.
Una politica “alta” deve con urgenza intervenire nella protezione di fasce sociali vulnerabili, riorganizzare globalmente l’assistenza agli anziani, anche attraverso lo sviluppo di nuovi ruoli che contrastino la solitudine e non vedano le persone come oggetti passivi immersi in una cultura dello “scarto”. E’ un compito enormemente difficile di cui la società deve farsi carico; è la sfida del XXI secolo che bisogna raccogliere, consapevoli che non intervenire sta mettendo a rischio l’equilibrio sociale in quanto condizione di consonanza tra gruppi sociali.
E’ pur vero che, come sostiene Monsignor Paglia nel suo libro “L’età da inventare”, ci sono “molte vecchiaie” a seconda della storia individuale, della personalità, dei mezzi economici.
Esistono i grandi vecchi e l’elenco è lungo: Rita Levi Montalcini, Madre Teresa di Calcutta, Eugenio Scalfari, Ferrarotti venuto a mancare recentemente e tanti altri le cui menti hanno brillato fino all’ultimo, generando, nei loro ultimi anni di vita, contributi per l’umanità di enorme valore culturale, etico, sociale, politico. Giuseppe Verdi scrisse il suo Falstaff a 80 anni, è uscito nelle sale cinematografiche l’ultimo film diretto da Clint Eastwood all’età di 94 anni.
C’è una ragione scientifica alla base della creatività nella tarda età ed è, insieme ad altri fattori, la plasticità neurale. Questa consiste nel fatto che le connessioni nervose possono essere modificate dall’esperienza: il nostro cervello non è statico, come si pensava fino a 30 anni fa, non si limita a perdere neuroni, è soggetto al flusso della stimolazione ambientale e lo può essere sia in senso adattivo che disadattivo (in quest’ultimo caso possono entrare in gioco: deprivazione sensoriale, traumi, ictus, processi neurodegenerativi). Allenare il cervello grazie ad un ambiente ricco di relazioni sociali, di stimoli cognitivi permette maggiore accumulo di riserve cerebrali sotto forma di circuiti sinaptici alternativi e ciò consente maggior resilienza verso le malattie, in particolar modo quelle neurodegenerative e addirittura l’acquisizione di nuove capacità.
Quindi vi sono parecchi anziani la cui vita continua ad essere attiva, socialmente e culturalmente; avvertono di avere tante cose da fare e proprio la consapevolezza di essere sul viale del tramonto li spinge a perseguire con maggiore passione interessi e obiettivi vecchi e nuovi in continuità con i valori che hanno contraddistinto la loro esistenza.
Ma non per tutti è così come ogni giorno ci dimostrano le nostre esperienze con amici e parenti
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“La morte è dolce a chi la vita è amara” (T. Campanella)*.
Detto ciò e con tutte le cautele che l’argomento impone, si può auspicare che si accenda nella società e nel parlamento un dibattito sul fine vita serio, laico, non ideologico, incentrato sulla libertà dell’individuo come diritto inalienabile?
A chi intravede in queste riflessioni il rischio di un pendio scivoloso, destinato ad instaurare una cultura della morte o, peggio ancora, una prospettiva di pulizia sociale, rispondo che dobbiamo certamente accendere tutti i “warning” del caso nella gestione di situazioni così delicate, ma rimane decisiva la volontà di una persona in pieno possesso delle sue facoltà mentali e libera da condizionamenti esterni.
Accostarci oggi ai temi della bioetica e del diritto, comporta necessariamente anche riflettere sui grandi interrogativi legati alla disponibilità o indisponibilità della vita. Al di là di come la si pensi, affrontare tali temi ha una portata esistenziale che trascende il contemporaneo e l’individuale per farsi universale.
Almeno così è per me.
ENRICO IENGO

Occorre ringraziare l’autore di averci introdotto a una riflessione impegnativa e di vasta risonanza sociale, soprattutto in un Paese come il nostro dove gli anziani rappresentano nel loro insieme un “attore sociale” demograficamente sempre più rilevante ma bisognoso di riconoscersi adeguatamente sul piano culturale e sociale. Allo scopo occorre elaborare categoria di analisi e chiavi di lettura in parte inediti e sono da apprezzare contributi stimolanti come quello proposto. La dimensione sociologica, quella psicologica e quella relazionale devono procedere insieme e sono preziose riflessioni che si sforzano di suggerire un approccio interdisciplinare. Capace, cioè, di suggerire il confronto fra discipline che non si limitino a cumulare informazioni e riflessioni ma sollecitino piuttosto una sana “contaminazione” dei saperi. Grazie Enrico.
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Sono Nicola Porro, classe 1948.
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Grazie Enrico per questo tuo contributo e per il riferimento doloroso a Lucio Magri, poco prima della sua morte comprai “il sarto di Ulm” una possibile storia del PCI. Un libro nel quale si tradiva sia la dedizione alla causa di una vita , ma anche la sua delusione cocente. Nell’accomoagnarlo in Svizzera Rossana Rossanda disse che fu tristissimo, ma non terribile, ma soprattutto che fu anche una scelta politica. Grazie ancora
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Enrico, esprimo la mia commozione a questo tuo lucido intervento, che mi “muove” dal profondo.
Tengo per me, chiuse in angoli riposti, alcune mie paure che d’altro canto credo siano facilmente intuibili, legate alla costante ricerca di autonomia…Any way…Sì, mi hai dato da pensare 🙂
Maria Zeno
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Caro Enrico ho appena terminato il mio articolo sugli amici persi e sulla assurda possibilità fantastica di rivederli appellandomi al genio greco.
La vecchiaia è un dramma fisiologico, un continuo fastidio del corpo. Se corpo e mente sono legati necessariamente il primo non può soffrire senza il conforto patetico dell’altro. Ahinoi!!
Tuttavia, sembra esista per i fortunati uno sfasamento temporale. Il che permette un pò di saggezza.
Riflessioni profonde le tue. Non poteva essere altrimenti. Usando termini altolocati sembra che abbiamo avuto una “sincronizzazione”. Così, penso, che Venerdì possa risponderti più o meno sullo stesso tema.
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Grazie Enrico. Una riflessione profonda e problematica sull’unica questione che non possiamo evitare di affrontare. Corrado
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