LO STATO, LA NAZIONE E L’OMBRA DELLA POSTDEMOCRAZIA (TERZA PARTE)

di NICOLA R. PORRO ♦

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La stagione che stiamo vivendo a scala globale non è totalmente e meccanicamente riconducibile – a dispetto delle analisi di autorevoli pensatori Tronti e Cacciari – a quella perenne opposizione amico-nemico descritta da un grande teorico del pensiero conservatore come Carl Schmitt (1888-1985) nella stagione fra le due guerre. [1]  A campeggiare è piuttosto una ventata di demagogia reazionaria che aspira a contendere al pensiero “di sinistra” una non meglio precisata egemonia. L’argomento è specioso e anche curioso. Per conquistare visibilità – e magari aspirare a un’egemonia nel senso attribuitole da Gramsci nei Quaderni dal carcere (quello fascista) – basterebbe infatti confrontarsi criticamente con la produzione degli avversari avanzando idee e argomenti prima di pretendere riconoscimenti di status in forza di un’appartenenza politica. La vicenda, o meglio la sua declinazione vittimistica, si riduce così a una parodia della schmittiana opposizione amico-nemico.[2] L’obiettivo che si cela dietro l’invito a depoliticizzare il confronto è dunque, come sempre, quello di contrastare la vera o presunta egemonia culturale della sinistra. Qualunque confronto, quale ne sia l’obiettivo, è però utile solo se non è viziato da pregiudizi e/o da disinformazione. Nel merito: è sorprendente come la critica al cosiddetto pensiero progressista non faccia che reiterare l’accusa di economicismo e classismo senza nemmeno un pallido tentativo di aggiornarne l’analisi.  Basterebbe una rapida scorsa alla produzione editoriale per scoprire come ovunque nel mondo, da almeno trent’anni, la riflessione degli studiosi “progressisti” sia dominata da tematiche come i diritti e l’ambiente. Si tratta di problematiche complesse, ad ampio spettro e difficilmente riconducibili a categorie ideologiche partorite due secoli fa. La stessa questione dell’egemonia si è liberata da tempo della scolastica gramsciana e sono soprattutto le tematiche di genere, di identità, di cittadinanza e di pari opportunità che hanno caratterizzato sia la produzione più recente sia l’agenda politica del nuovo progressismo. Con l’obiettivo di offrire accoglienza e opportunità a nuovi attori collettivi che non ricalcano il profilo sociologico della prima rivoluzione industriale bensì quello, frastagliato e cangiante, della modernità postindustriale e della rivoluzione digitale.

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Si tratta di processi complessi e non sempre indolori che potrebbero ispirare un nuovo ordine globale in uno scenario segnato dal ritorno della guerra ai confini dell’Europa. L’Italia, per giunta, è alle prese con criticità mai superate ma rimosse o dimenticate secondo le convenienze politiche. La fragilità del nostro Stato sociale, ad esempio, non è l’effetto di quello “sciovinismo del welfare” che la pubblicistica di regime addebita all’opposizione parlamentare. Rappresenta piuttosto un preoccupante effetto di ritorno dei tagli alla spesa pubblica e della contrazione delle politiche sociali. Così come non si può bollare come “statalismo di ritorno” l’appello a far fronte alla complessa questione migratoria valendosi delle esperienze maturate in altri contesti nazionali. Non è a immigrati e rifugiati che si può addebitare il rischio di un tracollo dell’economia nazionale bensì a governi e forze politiche incapaci di trasformare un problema in un’opportunità.[3]  E non troveremo risposte adeguate alla sfida se al sano patriottismo costituzionale dei padri costituenti  si opporrà soltanto l’evocazione retorica dell’identità nazionale, di una religione consuetudinaria, della famiglia tradizionale. Certo: siamo fortunatamente lontani dall’ideologia del sangue e del suolo che alimentò l’immaginario nazionalista del Novecento. Persiste però nella visione governativa un’idea della nazione ridotta a una “comunità di discendenza” legittimata, in quanto tale, a erigere una barriera difensiva nei confronti di quanti, come i migranti, non vi appartengano. È la replica di un copione già recitato altrove ma che appare grottesco nel caso di un Paese come l’Italia che, a cavallo fra Ottocento e Novecento, e sino a pochi decenni or sono ha conosciuto un esodo migratorio di proporzioni bibliche e che oggi, divenuto fra i più anziani del mondo, ha una disperata necessità di forza lavoro. [4]

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Quella dell’underdog è invece la filosofia del recinto, da situare possibilmente lontano dai patri confini. La vicenda della fallita deportazione in Albania di un pugno di poveri cristi e del loro tragicomico andirivieni fra le due sponde dell’Adriatico costituisce un caso esemplare. Testardamente incapace della minima autocritica, il governo indulge a un mix di vittimismo, di suscettibilità, di allarmismo sociale e di autocelebrazione. Ciò può anche rappresentare l’effetto di ritorno di una lunga esclusione dal potere dovuta però non a chissà quali trame e congiure bensì alla pura e semplice volontà degli elettori. La retorica del vittimismo aggressivo, ricorrente nel trumpismo come nella narrazione delle destre europee, è declinata con particolare improntitudine e aggressività nella propaganda di Salvini. Sempre pronto a giocare in proprio e a soffiare sul fuoco di un qualunquismo senza pudore e senza misura, il “capitano” leghista, reduce da sonore batoste elettorali, è freneticamente impegnato a ritagliarsi uno spazio di sopravvivenza. Può però trovare accoglienza solo nell’area del radicalismo di destra europeo e genuflettersi al sospirato ritorno del trumpismo. Sul fronte interno, del resto, dopo aver reclamato i pieni poteri fra l’ilarità di amici e nemici, il nostro non sa che reiterare maniacalmente la contestazione alla legge Fornero e improvvisare qualche stoccata alla Costituzione rispettando la regola aurea del “più uno”: spararla sempre un po’ più grossa dei propri partner. Preoccupa tuttavia che persino il presidente del Senato, seconda carica dello Stato, accarezzi l’idea di metter mano alla Costituzione mentre uno strisciante attacco al sistema costituzionale trova espressione nella proposta di premierato avanzata dalla stessa alla Meloni. Sono le tattiche degli eterni improvvisatori, incapaci di visioni strategiche ma alla continua ricerca di un flash televisivo o di uno strillo di agenzia. Intanto, però, nell’estate del 2024 sono bastate poche settimane di “ritorno alle origini” della nuova-vecchia destra per declassare il rango diplomatico dell’Italia, ostentatamente esclusa da tutti i vertici recenti fra i leader europei. Lo scenario ricorda sempre più quello della stagione berlusconiana quando l’eroe eponimo, proclamatosi “unto del Signore”, coltivò la tentazione di aggredire le garanzie costituzionali. Fortunatamente, malgrado tutto, gli anticorpi di cui i padri costituenti hanno dotato la nostra democrazia sono ancora attivi. Non bisogna però abbassare la guardia. È ad esempio del tutto legittimo misurarsi senza ostracismi preventivi anche con proposte come l’autonomia differenziata, il premierato, la sempre evocata riforma dei percorsi decisionali. Una democrazia matura non conosce argomenti tabù, ma tutto ciò che riguarda l’architettura costituzionale esige un supplemento di attenzione, una seria valutazione costi-benefici e una condivisione di responsabilità.

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Alla fin fine il caso italiano, al netto di indebite drammatizzazioni o di irresponsabili sottovalutazioni, sembra attagliarsi come pochi altri al profilo di quelle cosiddette post-democrazie dove un esecutivo debole si accompagna a bulimia del potere e a una strisciante insofferenza per il gioco democratico. Quello che si viene delineando è uno scenario non limitato al caso italiano e che andrà indagato approntando, da parte degli studiosi dei sistemi politici, strumenti di analisi idonei. Ricordando però agli attuali governanti come i problemi che sono chiamati ad affrontare non sono significativamente diversi da quelli con cui si sono misurati tutti i trentuno presidenti del Consiglio che si sono succeduti alla testa dei sessantotto esecutivi della nostra storia repubblicana e da quelli che a ogni latitudine impegnano governi di qualsiasi colore politico. Forse allora è la corazza democratica a essere troppo pesante per spalle tanto fragili alimentando la tentazione di rovesciare il tavolo e cambiare quelle regole del gioco, ispirate a un sapiente sistema di pesi e contrappesi, che fanno della nostra Costituzione “la più bella del mondo”. [5]  In questione non sono insomma le regole del gioco bensì le capacità dei giocatori.

NICK PORRO

NICOLA R. PORRO

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[1] Figura complessa e non priva di contraddizioni, Schmitt non osò opporsi ai nazionalismi fra le due guerre. Seppe però indagarne le contraddizioni, gli errori e gli orrori mentre la destra europea dei nostri giorni non fa che riproporne una malinconica parodia e un’interpretazione riduttiva, limitata nella migliore delle ipotesi alla relazione giuridico-formale fra cittadino e Stato.
[2] Cfr. F. Ruschi, Carl Schmitt e il nazismo: ascesa e caduta del Kronjurist, «Jura gentium», vol. IX, 2012, pp. 119-141.
[3] Cfr. E. Gargiulo, E. Morlicchi, D. Tuorto, Prima agli italiani, Bologna, Il Mulino, 2024.
[4] Solo i leader della destra, per inciso, sembrano non essersi sono accorti dell’appassionato ma non disinteressato sostegno recentemente tributato dallo stato maggiore di Confindustria a politiche di accoglienza e regolazione dell’immigrazione.
[5] Si veda il recentissimo lavoro di L. Sommi, La più bella. Perché difendere la Costituzione, Milano, Baldini e Castoldi, 2024.