RUBRICA BENI COMUNI, 90. DALLA PADELLA AL SERRAGLIO

a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦

Gli studi svolti per approfondire la conoscenza delle fasi dello sviluppo urbanistico di Civitavecchia nei secoli del governo pontificio hanno posto in evidenza che gli interventi attuati nel corso del Seicento per dotare la città di attrezzature pubbliche e di infrastrutture sono stati preceduti da un intenso dibattito. Quanto, in tale dibattito, sia stata coinvolta la popolazione o almeno i suoi rappresentanti non è possibile comprenderlo, anche per la scomparsa o per l’assenza ab origine di tali atti negli archivi storici comunali che avrebbero potuto rivelare documenti sull’argomento. Possiamo comunque supporre che a Civitavecchia non vi siano state consultazioni né in piazza né in sala consiliare e neppure l’istituto del referendum era previsto nella legislazione dell’epoca.

Certamente, al dibattito hanno partecipato le alte gerarchie ecclesiastiche e gli stessi pontefici, le autorità militari, gli architetti camerali e gli esponenti dell’establishment locale che avevano in gestione i pubblici servizi (assentisti). L’esempio più rilevante e meglio esplorato dagli studiosi è quello dell’arsenale, la cui ubicazione è stata a lungo discussa, come ci attestano scritti e disegni riportanti le diverse proposte esaminate, mostrando come la decisione, fino alla geniale soluzione berniniana, sia stata preceduta da dubbi e ripensamenti. Altrettanto può dirsi per quanto riguarda le aree da destinare all’ampliamento urbano e al modo in cui organizzarne la suddivisione in lotti edificabili e la viabilità. Qui le scelte sono state di natura essenzialmente tecnica, essendo prevalsa inizialmente un’impostazione basata su criteri militari di difesa, poi accantonata per privilegiare la massima utilizzazione del suolo, vincolato dalla forma delle fortificazioni interne ed esterne.

Un argomento che non è stato precedentemente approfondito è quello riguardante la localizzazione di due edifici molto importanti per la città di allora: l’ospedale e il bagno penale. Se consideriamo quanto queste due strutture urbane hanno caratterizzato l’assetto di Civitavecchia anche in tempi successivi e, si può dire, fino ai nostri giorni, il modo in cui il tema è stato affrontato tre secoli e mezzo addietro risulta senza dubbio di grande interesse. In una delle planimetrie (figura 90.1) che, intorno al 1661, Carlo Fontana redige allo scopo di illustrare i lavori fatti e da fare per completare l’arsenale, indica con la lettera E il lotto posto tra la Chiesa di S. Fran.co e le mura che delimitano la Terra di dentro, cioè l’abitato, ancora limitato in quel momento al borgo racchiuso dalla prima cinta. Nella legenda del disegno, alla lettera E, l’architetto scrive: Sito doue si hà dà fabricare il nouo Seraglio. L’area è quella che nel 1669 sarà assegnata dal balì Rospigliosi, Generale delle Galere e Governatore, all’Archispedale del Santo Spirito e vi verrà fatto il progetto di un palazzo (disegno Gab. Naz. Stampe, Fondo Corsini, in catalogo su F. Fuga, Multigrafica 1988) che sarà poi Palazzo Pucitta.  Di questa indicazione ho fatto un breve cenno nelle note introduttive alla traduzione dei Voyages di Jean-Baptiste Labat (nota 1), mettendola in relazione con il disegno F.C.70424, vol. 44 H 32 del Gabinetto Nazionale delle Stampe (nota 2), relativo all’approvazione, nel 1669, del progetto di un edificio dell’Archispedale di Santo Spirito. Rilevavo che il termine seraglio poneva un non facile problema interpretativo. Infatti, come si sa, la parola serraglio, ha in italiano diverse accezioni, dato che indica tanto la dimora del sultano in genere e l’appartamento delle concubine, l’harem, in particolare (derivata, attraverso il turco, dal persiano sar­āy), quanto il luogo dove si tengono esposte in gabbia le bestie feroci o gli animali esotici, ma anche un recinto con intorno camere per il ricovero di carovane (caravanserraglio) e, per estensione, di viaggiatori in genere – quindi anche un ostello, un albergo – ovvero una barricata o un luogo comunque chiuso e protetto da guardiani. In quest’ultimo significato, l’etimologia deriva dal latino serraculum.

Beni comuni 90 fig 1

Beni comuni 90 fig 2

Beni comuni 90 fig 3

Come se non bastasse, tante sono state, girovagando per la penisola, le volte in cui mi sono imbattuto in un “Serraglio”: a Brescia (come termine di apparecchiature idrauliche urbane), a Verona e dintorni (dove il Serraglio scaligero è una muraglia fortificata affiancata da un vallo allagabile, per proteggere il territorio veronese dalle incursioni milanesi e mantovane), a Mantova e ancora altrove, sempre per indicare fortificazioni che “serravano” una zona più o meno ampia per chiuderla e proteggerla.

Quale significato attribuisse al termine il Fontana non era effettivamente facile a capirsi. Ai suoi tempi, erano in uso tutti i significati suddetti e, scartati quelli evidentemente improponibili in una cittadella dello Stato ecclesiastico, restavano tutti gli altri, con l’ulteriore dubbio che il progetto d’un nuovo serraglio implicasse l’esistenza di uno vecchio. Come non si poteva escludere che nella città portuale fosse utile un’area per il ricovero entro la cinta bastionata di bestiame in transito. Anche un luogo dove albergare comitive di viaggiatori in arrivo o in partenza poteva avere un indubbio interesse, pur se almeno una locanda già esisteva. Il fatto che il carcere, quasi certamente esistente nel vecchio edificio comunale a ridosso delle mura castellane (prima della sua ristrutturazione di fine secolo), dovesse essere molto piccolo, poteva far pensare ad un nuovo reclusorio per i delinquenti comuni. L’approvazione del progetto del Santo Spirito, infine, accreditava l’ipotesi di un edificio ospedaliero, data la minima consistenza di quello esistente presso la chiesetta di San Paolo.

Sicuramente. tutti questi edifici erano nei programmi del Camera Apostolica in quegli anni di intensa attività edilizia tesa al rinnovamento delle strutture urbane e all’incremento delle attrezzature portuali, ma io ritenevo più probabile che … Ma non concludo la frase. E invece, cambio argomento e passo alle altre due illustrazioni (figura 90.2 e figura 90.3), che riguardano un’altra “curiosità” della toponomastica della terra di Civitavecchia. Come in altri casi, peraltro, non si tratta di una particolarità propria ed esclusiva. Come il nome di “Ponte del Diavolo” lo ritroviamo in una infinità di luoghi (nota 3), quello di cui sto per parlare è a sua volta molto diffuso in numerosi paesi e città d’Italia. Si tratta della denominazione di un piccolo spazio pubblico accessibile dalla Quarta Strada (oggi via Manzi), Piazza Padella, che ritroviamo ad Ancona, Bracciano, Borgo San Giuliano (Pisa), Capranica (Roma), Corchiano (Viterbo), Correggio (Reggio Emilia), Cremona, Fabriano, Firenze, Formello (Roma), Gualdo Tadino, Gubbio, Jesi (Ancona), Lugo (Ravenna), Marcellina (Roma), Mondaino (Rimini), Monsummano (Pistoia), Montalcino (Siena), Pesaro, Piombino, Pisa, Portoferraio, Pozzo della Chiana – Foiano (Arezzo), Rimini (Via Padella), Roma, San Gregorio da Sassola (Roma), San Polo dei Cavalieri (Roma), Scandiano (Reggio Emilia), San Severino Marche, Urbania (Pesaro Urbino), Vasanello (Viterbo). Nelle ricerche in rete, poi, ho travato svariate spiegazioni etimologiche, tra le quali, ad esempio, quella che Padella era la divinità degli Osco-Umbri, con molte elucubrazioni sui suoi attributi “posteriori” e la loro “bellezza” che avrebbe generato un proverbio attribuito però proprio al recipiente da cucina.

Siamo arrivati alla puntata numero 90, “la paura”, come suggerisce la Smorfia, e al numero 182 (due più del doppio dell’altro) sono arrivate le mie uscite su SpazioLiberoBlog. Pur non volendo del tutto abbandonare il mio impegno settimanale, ho una vaga paura di annoiare… forse potrei rallentare il ritmo delle uscite e verificare l’efficacia di queste puntate, alle quali vedo interessate (dai commenti) poche persone note e gentili. Forse, per la maggior parte degli amici del Blog, la rubrica è qualcosa di monotono, di superfluo, di inutile. E quindi proprio per questo voglio fare una prova, che è quella di fermarmi qui, di non dare la mia conclusione e di lasciare in sospeso i due temi di questa puntata, quello del Serraglio, cosa avrà voluto dire Carlo Fontana parlando del sito dove se ne ha da fabbricare uno “nuovo”, e quello di Piazza Padella, cosa volevano dire i civitavecchiesi, insieme a tanti altri cittadini di numerosissimi borghi della nostra Italia, a chiamare con quel nome uno spazio che di piazza aveva poco e di padella ancora meno.

Aspetto risposte, ipotesi, provocazioni, qualunque cosa mi dimostri che la rubrica e i suoi argomenti destino un’attenzione non sporadica e molto ristretta. Sarà un motivo per proseguire ancora a fornire questi scritti e disegni che sono anche, in certo modo, (di)segni di vita.  E non mi rassicurate in toni consolatori sul grande interesse di questi scritti.

 

nota 1 – Correnti F., Finalmente è una città, in Correnti F. e Insolera G., Civitavecchia del Settecento nelle memorie del Padre Labat (“OC/quaderni del Cdu”, a. IX, n° 1, gennaio-marzo 1990), p. 17. n. 10, ripubblicato con integrazioni in Correnti F. e Insolera G., I viaggi del Padre Labat dalle Antille a Civitavecchia, 1693-1716, Roma, Officina edizioni, 1995. Ho ampliato l’analisi nella relazione Francesco Correnti, Il dibattito sulle scelte urbanistiche a Civitavecchia nel secolo dei grandi interventi
nota 2 – Pubblicato nel volume realizzato dall’Istituto Nazionale per la Grafica, Ferdinando Fuga e l’architettura italiana del Settecento, Multigrafica Editrice, Roma 1988, pp. 116-117, fig. 185.
nota 3 – I ponti del diavolo avevano questo nome popolare soprattutto perché, non essendo più in funzione le strade a cui appartenevano, sostituite da sentieri e scorciatoie per l’abbandono della manutenzione delle consolari, apparivano delle inutili invenzioni diaboliche per fini sicuramente nefasti. Del nostro, credo si debba dire che è di grande importanza per ricostruire la viabilità antica del territorio essendo il vertice in cui si toccano due lunghissimi rettifili della Aurelia Nova: quello che parte dal fosso di Zampa d’Agnello, attraversa la Vigna Antonelli con il viale dei 100 pilastri (che quella famiglia pose a futura memoria alla fine del Settecento) e raggiunge appunto il ponte e l’altro che da lì riparte per arrivare con una sola piccola flessione a Forum Aurelii, più o meno Montalto di Castro, per poi da lì proseguire verso la Toscana.

FRANCESCO CORRENTI

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