LO STATO, LA NAZIONE E IL SOGNO DI VENTOTENE (SECONDA PARTE)

di NICOLA R. PORRO ♦

1_patriottismo

La rielezione di Donald Trump a Presidente del Paese più ricco e più militarmente potente del mondo suggerisce un interrogativo banale quanto inquietante: come è stato possibile? Considerando la personalità del personaggio, la sua storia (anche giudiziaria) e la prova non esaltante che aveva già dato di sé come Presidente, si rimane sconcertati. A ben vedere, però, la gamma delle possibili risposte è ampia e rinvia agli umori prevalenti nell’opinione pubblica statunitense: la (falsa) convinzione che la destra sia più adatta a gestire protezionisticamente l’economia, la (comprensibile) insofferenza per l’impegno politico e/o militare negli scenari di guerra, la (crescente) tentazione di un isolazionismo di cui l’opinione pubblica sembra percepire i vantaggi immediati ma non le possibili conseguenze nel tempo. Argomenti e umori che Trump e i suoi strateghi hanno cavalcato, enfatizzato e in qualche caso ispirato. Alcuni osservatori non escludono nemmeno, inoltre, che qualche latente pregiudizio di tipo sessista e razzista abbia influenzato anche segmenti dell’elettorato democratico. Con sguardo europeo noi percepiamo infatti l’immagine più fotogenica di quel grande Paese: una democrazia liberale fondata sull’inclusione, prospera, libera, accogliente. A molti sfugge invece l’esistenza di un’America profonda, provinciale, poco loquace e poco fotogenica: una minoranza non trascurabile che ritiene intoccabile la pena di morte e detesta quella cultura woke che le destre usano come sinonimo di quel progressismo intollerante e snobistico che, ai loro occhi, caratterizzerebbe i movimenti impegnati su temi sensibili come i diritti civili e il rispetto delle minoranze.[1] Per quanto sia sconfortante, occorre dunque riconoscere che una narrazione di pretta marca populista, come quella  di Trump, risulta capace di aggregare un consenso esteso e socialmente trasversale. Lo fa attivando il classico espediente retorico adottato dai totalitarismi di ogni colore: quello di trasformare ogni avversario in un nemico. La demonizzazione dell’avversario è indispensabile per legittimare l’aggressività delle argomentazioni e costruire una drammatizzazione a tinte paranoiche dell’opposizione noi-loro. Il ricorso sistematico alla menzogna e alla manipolazione dei fatti per generare allarme e mobilitare l’opinione amica rappresenta però nel caso del trumpismo un vero e proprio tratto identitario. Basti rammentare come fu proprio la denuncia di brogli elettorali mai avvenuti che nel 2021 scatenò l’assalto a Capitol Hill. Sfregiando l’immagine della democrazia americana, quel gravissimo episodio trova precedenti solo nell’Europa fra le due Guerre. Ricorda infatti quel sovversivismo reazionario, a tinte populiste, che aveva fatto seguito alla Grande guerra alimentandosi di un risentimento sociale diffuso e non ancora contrastato da efficaci politiche di welfare. All’epoca, però, il fenomeno aveva interessato democrazie incompiute e stremate da una guerra recente, mentre il trumpismo ha messo radici in un Paese leader e in una democrazia pluralista che si vanta legittimamente di non aver mai conosciuto regimi dittatoriali.

2_Trump

A tentare un’interpretazione del fenomeno, se non una sua spiegazione esaustiva, sono intervenuti persino gli psicologi sociali. La strategia dell’aggressività e della drammatizzazione vittimistica, a loro parere, fa leva su un bisogno diffuso di rassicurazione che deriva da un altrettanto diffuso decifit di identità. L’avversario non va solo demonizzato: va trasformato in un nemico. Si tratterebbe di un’eredità del pensiero primitivo dalla quale millenni di civilizzazione non sono evidentemente bastati a liberarci. L’opposizione amico-nemico pare dunque di tipo primario, irriducibile ad argomenti razionali e diffusa in tutti i tempi, a tutte le latitudini, in tutte le possibili modalità. Se gli ingredienti sono arcaici, la filosofia dell’amico-nemico si è però facilmente e perfettamente acclimatata nella cultura digitale, che è anzi divenuta il suo habitat preferito. La comunicazione trumpiana, come già quella berlusconiana, ha addirittura generato una neolingua della politica che, come nell’incubo di Orwell, [2] attinge a stilemi e strategie propri dei nuovi media. Il suo vettore principale sembra essere la pubblicità commerciale per la quale non conta quanto il messaggio sia attendibile bensì quanto sia capace di influenzare il destinatario. Questa strategia comunicativa presenta, a sua volta, diverse tipologie e un’ampia gamma di variazioni sul tema. Il discorso pubblico meloniano, ad esempio, appartiene al repertorio del vittimismo aggressivo. L’autocelebrazione dell’underdog, mescolando aggressività e vittimismo, serve a legittimare ed enfatizzare la missione che si è assegnata: quella di restituire dignità e “cittadinanza politica” alla Nazione. Si tratta della cosiddetta funzione manifesta, orientata alla conquista di un consenso. La funzione latente – delegittimare l’opposizione e le sue ragioni – mira invece proprio a trasformare gli avversari in nemici negatori tanto dei valori ideali quanto degli interessi materiali della Nazione. Del tutto assente è invece qualsiasi tentativo di declinare e aggiornare l’idea di Nazione nel tempo della globalizzazione e dell’Unione europea.  Incapaci di misurarsi con problematiche di vasto respiro ma estranee a una cultura ereditata dai vecchi nazionalismi, prevale da parte delle destre (non solo italiane) una sorta di sospettosa diffidenza. L’europeismo democratico, che trovò una prima espressione compiuta con il Manifesto di Ventotene, stilato nel 1941 durante l’esilio da intellettuali antifascisti come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, è invece quanto di più lontano da una visione del mondo fatta di piccole patrie e focolari identitari. Inutilmente esorcizzato da tutte le destre del continente, con la nascita dell’Unione europea l’europeismo democratico ha ispirato e animato la costruzione comunitaria trovando progressivamente accoglienza nell’azione politica e nella produzione legislativa degli Stati. [3]  Soprattutto, però, ci ha insegnato a immaginare un futuro condiviso che non si costruisca più contro un nemico bensì insieme a Paesi amici vincolati da interessi comuni e reciproca lealtà.

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Dopo Ventotene, nessun cittadino europeo, insomma, andrà più pensato come “altro da noi”. La costruzione di un’Europa più forte, più libera e più autorevole non potrà però ricalcare la stagione dei moti risorgimentali che a metà Ottocento plasmarono l’identità e la stessa rappresentazione simbolica di una Nazione come l’Italia, di antichissime origini ma ancora priva di uno Stato. La sfida che ci attende andrà infatti affrontata insieme a Stati di antica costituzione che condividano tanto i nostri valori ideali quanto più prosaici interessi economici, commerciali e finanziari. La sconfitta dei vecchi nazionalismi – quelli che hanno insanguinato il Novecento – ci ha però già regalato la più lunga stagione di pace mai vissuta dai Paesi contraenti. In forma ancora imperfetta, si è persino intravisto l’embrione di una possibile Patria comune e di un ordine politico sovraordinato rispetto a quegli Stati Nazione che in Europa avevano preso forma cinque secoli prima ponendo fine al particolarismo feudale. L’istituto dell’Unione europea costituisce insomma un’esperienza storicamente inedita e non riducibile alla pura logica delle convenienze economico-commerciali, come vorrebbero le destre nazionaliste. Il sistema comunitario, del resto, non prevede cessioni di sovranità che non siano condivise e concordate in vista di benefici a favore di tutti i contraenti. Rinunciando a pregiudizi ideologici e sterili nostalgie, bisogna dunque riconoscere che l’integrazione politica dell’Europa è la sola strategia capace di impedire che i nostri singoli Stati siano ridotti al ruolo di comparse in uno scenario globale dominato da potenze extra-europee. Solo se uniti i Paesi europei potranno sottrarsi al rischio di divenire le vittime designate della Grande Trasformazione.

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NICOLA R. PORRO

[1] L’espressione americana woke, corrisponde grosso modo, con accenti più marcatamente dispregiativi, a quella europea di radical chic.
[2] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2013.
[3] Nell’aprile 1949 aveva preso forma la NATO, un’alleanza intergovernativa per la sicurezza stretta fra gli Stati Uniti, il Canada e dieci paesi dell’Europa occidentale. Allo stato vi appartengono ventuno Paesi dell’UE. Ancora nel 1949, nel mese di maggio, si era costituito il Consiglio d’Europa a tutela della democrazia, dei diritti umani e dello Stato di diritto. Nel maggio 1950 il Piano Schumann traccerà le linee di un’integrazione dei sistemi industriali fondata su politiche comuni in materie strategiche come il carbone e l’acciaio. Il piano, cui aderiscono per primi Germania, Francia, Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo, sarà sottoscritto nel 1951 dando vita alla CECA (Comunità europea del carbone e dell’acciaio) che entrerà in vigore l’anno dopo. La Convenzione europea dei diritti dell’uomo sarà invece attiva dal settembre 1953 e quattro anni più tardi, il 25 marzo 1957, saranno solennemente sottoscritti i Trattati di Roma in forza dei quali l’anno dopo prenderanno vita la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Nel marzo dello stesso anno si svolgerà a Strasburgo la prima storica seduta dell’Assemblea parlamentare europea che eleggerà alla presidenza Robert Schuman avocando a sé le funzioni esercitate dalla CECA. Il 30 marzo 1962 l’Assemblea assumerà la denominazione di Parlamento europeo. Allo stato sono ventisette i Paesi europei appartenenti alla UE per una popolazione complessiva di 450 milioni di abitanti.

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