Sangiuliano ora pro nobis
di NICOLA R. PORRO ♦
C’è una questione più grande delle disavventure di un ministro della cultura come Sangiuliano. È quella che riguarda la qualità della nostra classe politica. Tema stuzzicante, non banale e nemmeno riducibile al caso italiano: una critica rigorosa e preoccupata alla leading class investe un po’ dovunque il ceto politico e gran parte delle classi dirigenti. Al punto da eclissare la stessa critica ai partiti che ormai da diversi decenni ha accompagnato sviluppi, mutamenti a (forse) vere e proprie “degenerazioni” del sistema della rappresentanza. Ha scritto in proposito Giorgio Merlo («Huffington Post» del 7 settembre 2024): «Pur senza rifugiarsi nella solita giaculatoria sulla profonda distinzione tra l’antica e qualificata classe dirigente e l’attuale ceto politico italiano che, salvo rare eccezioni, si divide tra efficaci trasformisti e incalliti carrieristi, è indubbio che ci troviamo nuovamente di fronte… a una caduta verticale di credibilità di chi ha l’ambizione di governare il Paese». La questione di quella che chiamiamo “credibilità morale”, tuttavia, va sottratta a semplificazioni e banalizzazioni moralistiche. Rinvia infatti a una preoccupante fragilità della “cultura di governo”. È comprensibile che la vicenda che ha riguardato il ministro Sangiuliano e la sua intraprendente collaboratrice Maria Rosaria Boccia deragli facilmente nella goliardia boccaccesca degna di un film di Martufello o di Alvaro Vitali. La questione riguarda però un ministro chiamato a governare il nostro sistema culturale e incline a un protagonismo che nemmeno qualche imbarazzante incidente di percorso era riuscito a ridimensionare. Dopo aver ubicato a Londra la newyorkese Times square e aver scoperto che Cristoforo Colombo si era valso del sapere di Galilei (nato cinquantotto anni dopo la morte del primo) il nostro pensatore ha infatti proseguito imperterrito a rappresentare in ogni sede quella cosa – di cui siamo tutti legittimamente orgogliosi – che è la cultura italiana. La pretesa di impunità sembra così nutrirsi di umori inquietanti, altro cha avanspettacolo. Il caso Sangiuliano è piuttosto esemplare di una classe dirigente tanto distante dalle responsabilità della “cosa pubblica” da alimentare quella disaffezione diffusa che si manifesta palesemente nel crescente astensionismo elettorale.
In tempi non sospetti un vecchio democristiano come Mino Martinazzoli aveva chiamato la combinazione di pressapochismo, superficialità e improvvisazione delle leadership il “nulla della politica”. Purtroppo, però, i rimedi si sono rivelati peggiori del male. Basti pensare alla marcata impronta populista e neoqualunquista impressa alla politica nazionale, alla fine della prima decade del duemila, dall’insorgenza cinquestelle. L’irruzione del grillismo nella diroccata cittadella dei partiti non ha infatti prodotto nel medio periodo nient’altro che un ulteriore declassamento qualitativo del ceto politico. La totale sovrapposizione di comunicazione e propaganda – propria di tutti i populismi – ha condizionato seriamente e negativamente la selezione del personale politico contagiando l’insieme del sistema. A tale involuzione non ha posto riparo nemmeno il progressivo declino del movimento di Conte e di Grillo, capace di intercettare ed enfatizzare umori “contro” ma non di fornire risposte a domande socialmente rilevanti. L’autorevolezza stessa della classe dirigente nel suo insieme ne è risultata compromessa. L’acquisizione del consenso si è progressivamente trasformata in una mera operazione d’immagine: un prontuario di tecniche e procedure da coltivare perché elettoralmente remunerative. Sempre più povera si faceva invece un’offerta politica in materia di qualità della vita, diritti, lotta alle disuguaglianze, integrazione europea. Tematiche cruciali come quelle relative ai movimenti migratori sono state ridotte, con particolare aggressività da parte dei governi della destra, a problema di ordine pubblico. L’offerta culturale e le pratiche di integrazione sul territorio sono state declassate a optional, con buona pace dei proclami di Sangiuliano.
Nella stagione, ormai quasi ventennale, aperta dall’irruzione del grillismo e culminata nel governo delle destre, abbiamo visto di tutto. Dal ricorso ai tecnocrati di turno siamo passati a conati di larghe intese e poi a un’occupazione sfrontata del potere garbatamente ribattezzata amichettismo. La progressiva riduzione della politica a pratica amministrativa è così entrata in sinergia con il declino qualitativo dell’offerta dei partiti (vecchi e nuovi). I quali si sono via via trasformati in cartelli elettorali o nell’appendice organizzativa di singoli leader. Come in un circolo vizioso, la combinazione di tutti questi elementi ha di fatto cancellato una delle funzioni capitali dei partiti politici: quella di selezionare, formare e promuovere una classe dirigente. Conseguentemente si è affermata la forma peggiore di fidelizzazione: quella che si riduce nella fedeltà al leader “perinde ac cadaver” non solo come merce di scambio per ottenere favori ma anche come viatico indispensabile a esercitare ruoli di comando. Il più impolitico dei princìpi diviene così la regola aurea per accedere a responsabilità a ogni livello. Quella che Massimo Giannini ha battezzato la capocrazia sembra dilagare a tutti i livelli al posto di quella legittimazione dal basso che rappresenta l’essenza del metodo democratico. La cooptazione, la nomina dall’alto l’hanno sostituita sottraendo vigore e legittimità ai fondamentali del gioco democratico. Un’opposizione paralizzata è stata messa nell’angolo quasi senza colpo ferire. La questione della classe dirigente, della sua legittimazione e della sua qualità deve allora tornare cruciale, come avevano perfettamente compreso più di un secolo fa i primi scienziati della politica, a cominciare da uno studioso conservatore come Vilfredo Pareto.
La questione è drammatica e urgente. Se non si mette mano a una rigenerazione dei partiti (tutti) o di quanto ne rimane, siamo condannati a passare presto dal teatrino boccaccesco di questi giorni al deprimente repertorio di una democrazia dimezzata.
NICOLA R. PORRO

A rischio di sembrare “passatista”, mi trovo talvolta a (ri) pensare a Machiavelli ed alla sua intuizione della Politica come scienza.
E quindi al Politico che, dovunque si collochi-sinistra centro destra etc- conosca l’arte ( o almeno il mestiere…) che va ad interpretare.
il resto…è silenzio, ma purtroppo è un silenzio non ” cantatore”, come vuole la nota canzone napoletana, ma in-cantatore o peggio ancora ossimoricamente urlante. È il silenzio del buonsenso.
Maria Zeno
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