L’Italia, l’Europa e il voto del nostro scontento
di NICOLA R. PORRO ♦
Rinunciando per ragioni di opportunità a intervenire in merito al voto amministrativo dell’8 e 9 giugno, vorrei però sviluppare qualche sommaria riflessione sulla consultazione europea. L’appuntamento è di per sé importante e di alto valore simbolico: 370 milioni di aventi diritto al voto, appartenenti a ventisette Paesi, chiamati a eleggere un Parlamento sovranazionale che è l’unico di questo genere al mondo. Eppure l’evento sembra circondato da un disinteresse diffuso. È noto, peraltro, che le elezioni europee, e non solo da noi, non stimolano la fantasia e non accendono i cuori degli elettori. La tabella 1, che segnala l’affluenza alle urne per ogni Paese per le nove consultazioni plenarie (1979-2019) e per le sei suppletive (che hanno riguardato solo i Paesi di nuovo accesso), mostra un costante decremento della partecipazione fra il 1979 e il 2014. L’ultima consultazione (2019) ha tuttavia segnato un dato in controtendenza. La media dei votanti è salita in Europa al 50.66% (otto punti sopra i valori del 2014), ma è diminuito di tre punti in Italia, dove sino al 2014 l’affluenza alle urne era stata superiore alla media Ue.
In Italia come altrove, del resto, le consultazioni europee hanno sempre assolto una funzione di sensore degli umori politici – un po’ come il voto mid-term negli Usa – senza quasi mai suscitare un confronto di merito sull’Unione e i suoi destini. Anche la flebile campagna di in queste settimane ha conosciuto momenti di vivacità solo grazie alle immancabili sparate di qualche irriducibile anti-europeista. Le europee sono servite piuttosto a scandire le carriere dei leader: nel 2014 celebrarono la breve stagione renziana, cinque anni dopo accelerarono la liquidazione del primo governo Conte. Da questa angolatura, l’offensiva verbale scatenata a freddo in questi giorni dalla Presidente del Consiglio contro le opposizioni era palesemente funzionale a chiarire “chi comanda” ai propri riottosi alleati. La partita si gioca per intero nel campo di una destra che comprende due forze radicali (Fratelli d’Italia e Lega) insieme ai meno irruenti comprimari di fede berlusconiana. Programmi e strategie sono più o meno identici a quelli degli altri movimenti della destra europea: contrasto alle migrazioni, politiche della sicurezza, enfasi posta sulle ragioni della “nazione” e della sua “sovranità” (espressione di cui forse qualche volenteroso adepto un giorno ci spiegherà il significato). Non manca una strizzata d’occhio alle politiche sociali che saranno pure patrimonio delle sinistre ma interessano anche una parte non trascurabile dell’elettorato avversario.
Se la campagna elettorale è apparsa sotto tono e se l’affluenza alle urne non si annuncia certo travolgente, le rilevazioni dell’Eurobarometro segnalano però un’accresciuta fiducia nelle istituzioni comunitarie e registra. La Brexit, insomma, non ha fatto proseliti e in base ai sondaggi sarebbe oggi sconfessata anche in Gran Bretagna. Le ultime rilevazioni dell’Eurobarometro segnalano poi che il 57% degli intervistati ripone fiducia nella Ue e ritiene che farne parte sia un bene per il proprio Paese. Si tratta inoltre di valori in crescita: la fiducia è cresciuta di quattro punti rispetto al 2016 ed è aumentata del 6% anche la quota di quanti ritengono che l’appartenenza europea dia “più voce” al proprio Paese. Quasi la metà degli intervistati – in significativo aumento rispetto alla rilevazione precedente – ritiene addirittura che l’Unione funzionerebbe meglio se si limitasse il potere di veto degli Stati e si accettasse realisticamente l’idea della cosiddetta “Europa a due velocità”.
In questo panorama spicca però un vero e proprio “caso italiano”. Il nostro Paese, per decenni fra i più convinti sostenitori dell’Europa, sembra essere precipitato in un diffuso euroscetticismo. Solo il 35% degli intervistati italiani sostiene, per cominciare, che sia un bene per l’Italia far parte dell’Ue. [1] Più critici di noi solo i cechi e i greci. La maggioranza relativa, il 37% degli intervistati (oltre a un 4% di indecisi), ritiene che stare dentro o fuori l’Ue sia del tutto indifferente. Un quarto degli intervistati ritiene che rappresenti addirittura un danno. Senza alcun dubbio questi dati hanno eccitato l’offensiva propagandistica leghista nella settimana prima del voto. La speranza di pescare in fasce di elettorato anti-europeista potrebbe però andare delusa: si ha a che fare con una sfiducia generalizzata che non risparmia nessuna forza politica. A completare e complicare l’analisi ci sono le risposte a questioni più specifiche. Se tre italiani su dieci sostengono che sia indifferente “stare dentro o fuori” l’Unione, tre su cinque sostengono però che solo l’appartenenza all’Unione europea possa contrastare la crescente influenza cinese, le minacce provenienti dalla Russia e l’instabilità dell’area arabo-islamica. Sono sei su dieci, inoltre, quelli che si sentono rassicurati dal far parte della Ue nel caso che l’imprevedibile Trump divenisse presidente degli Usa. Quanto alle aspettative, più di otto italiani su dieci credono che la Ue possa contribuire a contrastare disoccupazione e terrorismo e a meglio regolare l’immigrazione. A poca distanza si collocano le aspettative che riguardano questione ambientale e contrasto all’evasione fiscale. Gli umori del nostro elettorato sembrano insomma grosso modo in linea con la media degli altri Paesi e una tendenziale uniformazione delle opinioni politiche a scala europea è stata rilevata da tempo. Un recente sondaggio Eurobarometro ha però acceso le luci proprio sul caso italiano segnalando non solo una generica insoddisfazione bensì una vera e propria insofferenza nei confronti delle istituzioni europee. Si veda in proposito la mappa 2 dove la soddisfazione nei confronti dell’istituto comunitario è segnalata dai colori chiari mentre l’insoddisfazione è proporzionale a estensione e intensità al colore rosso. Ancor più eloquente è il grafico 3 che mette a confronto il giudizio sul beneficio di appartenere sulla Ue degli italiani e degli altri cittadini europei


Basta uno sguardo alla mappa per constatare come l’Italia risulti oggi, fra i Paesi maggiori, quello di gran lunga più critico verso l’Unione. Da osservare, inoltre, come la disaffezione interessi soprattutto le regioni dove si concentra maggiormente la ricchezza nazionale e le più inserite nel circuito economico transnazionale. Manifestazioni di disagio anti-europeista, va detto, sono presenti anche in altri Paesi importanti come Francia, Svezia e in parte nella stessa Germania. Nessuno di essi denuncia però un’insofferenza paragonabile a quella manifestata dagli italiani. Siamo in presenza di una specie di abiura diretta alla Ue e già indirettamente segnalata dal crescente astensionismo elettorale. [2]
Il grafico 4, utilizzando i dati sull’affluenza prima sommariamente illustrati e contenuti nella tabella 1, mostra come la colonna celeste (percentuale di partecipanti al voto europeo), segnali, nelle tre consultazioni svoltesi sino al 1989, valori nettamente superiori alla media europea (colonna gialla). Nel decennio 1994-2004 l’affluenza media decresce significativamente ovunque ma proporzionalmente meno in Italia. Con la dilatazione dei confini Ue si assisterà a una minore affluenza al voto ma l’Italia continuerà a vantare livelli di partecipazione fra i più elevati. È solo nell’ultimo decennio che si assiste a una progressiva inversione di tendenza. Fra il 2014 e il 2019 la partecipazione al voto degli italiani si allinea al valore medio europeo: l’affluenza al voto italiana segna il passo mentre cresce quella dei Paesi partner.

Soprattutto, però, la comparazione fra percentuale di votanti (assunto alla buona come indicatore di “fiducia”) e soddisfazione registrata dalle rilevazioni dell’Eurobarometro segna una netta divaricazione. Si tratta però in questo caso di approfondire l’analisi dato che la comparazione statistica è complicata dal fatto di interessare un numero di Paesi crescente nel tempo. L’affluenza registrata per ogni singola consultazione, inoltre, può essere significativamente influenzata da fattori contingenti, come nel caso ricorrente di Paesi che associno all’appuntamento europeo altre consultazioni. Non di rado, inoltre, il test europeo funge da sismometro di umori del tutto estranei all’oggetto della consultazione.
Tutto ciò non basta però a spiegare il crescente “disamore” del nostro elettorato e le dimensioni che ha assunto. Agiscono probabilmente dinamiche di medio periodo non ancora adeguatamente analizzate. Anche il quadro politico nazionale, peraltro, è radicalmente mutato e appare per alcuni aspetti del tutto inedito. Non era mai accaduto, ad esempio, che due forze di destra al governo, come la Lega e Fratelli d’Italia, si contendessero un elettorato percorso da diffusi umori anti-europeisti. Queste forze, inoltre, presentano un profilo non solo ideologico, ma anche sociologico, molto simile. La competizione a destra si va inasprendo perché la Lega salviniana teme soprattutto di essere surclassata elettoralmente – anche nelle sue storiche roccaforti territoriali – dai fratelli-coltelli d’Italia. I predecessori di questi ultimi (il Movimento Sociale Italiano e Alleanza Nazionale) non erano invece mai entrati in competizione diretta con gli insediamenti leghisti del Nord. La conversione a un appassionato patriottismo da parte della Lega – quella che bruciava i tricolori e invocava la secessione della Padania – rivela non solo la spregiudicatezza dei leader ma una più profonda mutazione genetica. Essa ha trasformato il separatismo regionalista bossiano, permeato di una vaga sensibilità antifascista, in un partito ispirato al radicalismo fascistoide lepeniano. Giorgia Meloni, dal canto suo, è chiamata a un esercizio di equilibrismo. Per un verso deve ‘normalizzare’ l’immagine internazionale del suo partito, presentandolo come una rispettabile alternativa conservatrice e costruire a propria misura il nemico immaginario di cui ha bisogno la sua narrazione. Per un altro, ha fretta di proporsi come il leader vincente pronto a sdoganare definitivamente la destra radicale per trattare in suo nome con i moderati e imprimere uno spostamento a destra della Ue. I risultati diranno se un’inedita alleanza fra centro-destra e destra radicale – problematica in linea di principio ma non impossibile – riuscirà a rendere marginale la sinistra (Pse) e fare a meno dei liberali di Renew. Operazione ambiziosa, tutta da verificare e dal percorso incerto. Una Lega umiliata nelle urne potrebbe infatti essere tentata di rovesciare il tavolo della coalizione. Quanto al fronte avversario, reduce da una stagione amara e durissima, se ne misureranno con il voto la tenuta e la capacità di resilienza. Resistere all’urto gli consentirebbe però almeno di conservare una presenza europea di qualche significato e di sottrarsi alla tenaglia di una destra arrembante e di un neo-populismo inaffidabile come sempre.
[1] Va osservato però che il valore del 2016 era ancora più basso, pari al 33%.
[2] Il sito online della Voce sviluppa in proposito una riflessione ad ampio raggio sul fenomeno dell’euroscetticismo e sui profili sociologici che riguardano le classi di età, il genere, l’occupazione, l’ubicazione territoriale, il livello di informazione e di istruzione.
NICOLA R. PORRO

Caro Nicola il tuo ottimo lavoro merita alcune riflessioni ed un incitamento al voto. Le riflessioni sono a seguire mentre l’incitamento lo riservo per domani.
Alla base del fenomeno della bassa affluenza penso che ci sia la “qualità” della classe politica attuale. L’attacco contro i tecnici al potere in nome del popolo votante ha significato ciò che osserviamo ogni giorno. A ciò aggiungiamo l’impunità dei corrotti e la mancanza di visione strategica. Tutte cose ovvie.
Circa la bassa adesione al modello Europa è certo dovuto alla inefficacia dell’Unione e alla affrettata inclusione di Paesi che non avevano i requisiti culturali per convivere assieme. Ma esiste un punto essenziale: la Russia di Putin!!
I giornali di oggi parlano di quanto sia pesante l’intrusione di Mosca sul voto .
Giornalisti che esprimono preferenze putiniane, esperti professori che danno per scontato il crollo ucraino, politici al soldo russo, un fiume di news che spargono veleno . Indebolire l’Europa attraverso il sovranismo significa per Putin trattare con statarelli indipendenti e non con una massa di 400 milioni di persone e con un PIL che si dimensione al terzo posto nel mondo. Le truppe camellate putiniane non sono poche, consapevoli (pagate in rubli) ed inconsapevoli(illuse di un passato troppo passato).
Votare non è solo un diritto ed un dovere ma oggi è un piccolo ma significativo contributo “armato” alla lotta contro la pazzia putiniana.
Per l’appello non posso che ricorrere ai nostri “santi protettori” d’un tempo.
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Grazie, condivido in toto!
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