Chi c’è nello specchio?               

di CATERINA VALCHERA ♦

Tra gli scritti di Primo Levi di recente vengono riletti con rinnovato interesse i racconti: un corpus variegato di tematiche, sollecitazioni intellettuali, invenzioni, fantasie, esperimenti fatti nel mondo dell’immaginario o che si avvicinano al conte philosophique. In molti di questi emergono con chiarezza le conoscenze scientifiche dello scrittore, divenuto purtroppo famoso soprattutto per un altro drammatico racconto, quello della sua esperienza concentrazionaria, dalla quale sul piano letterario risulta in qualche modo circoscritto. Sorprendente è invece la vena molteplice di queste suggestive pagine, accompagnata dallo stile che contraddistingue Levi: la sua scrittura, luminosa e chiara anche quando testimonia del nero o del grigio della tragedia umana, qui diventa ariosa, quasi cristallina. Dettata, come La chiave a stella, da una prospettiva rasserenata dall’idea di una possibile redenzione dell’uomo grazie alle sue capacità ”tecniche” e ai suoi mestieri, ognuna di queste short stories sembra frutto di prassi, di intelligenza concreta, di recupero di un contatto diretto e autentico con la realtà. Levi stesso ne L’altrui mestiere afferma di essersi divertito a rivisitare le cose della tecnica con l’occhio del letterato, rivelando così la coesistenza di entrambi i profili nel suo mondo interiore e intellettivo, e insieme additando con forza l’esigenza di scrivere, un’attitudine sviluppata molto precocemente, legata alla sua curiosità e alla tradizione familiare in cui leggere era un vizio innocente. Da un padre lettore accanito, quasi spasmodico, deriva a Primo il piacere dell’osservazione dei fatti, un’erratica, multiforme esigenza di trattare temi, di osservare persone, fatti e oggetti, di costruire personaggi verisimili tratti da persone vere, da incontri reali. Anche se non tutto ciò che esce dalla sua penna è allo stesso livello artistico, tutto è però altamente gradevole, ispira simpatia e induce alla complicità, perché se ne avverte l’autenticità, l’onestà intellettuale. Parafrasando Benjamin, mi viene da dire che il lettore lo sente come un fratello, un fratello maggiore in cui è possibile ritrovare la scala di valori e di sentimenti da condividere e di casi umani che sembra sempre aver raccolto da altri narratori. Con lui si entra sempre nella vicenda della vita come vissuto prima e successivamente narrato. Anche quando il narrato si colloca nel filone del fantastico/fantascientifico o quando assolve, nell’apparente trama realistica, a una funzione allegorica: come nel caso de Il fabbricante di specchi. Il breve densissimo racconto potrebbe aggiungersi alle Meditazioni di Palomar di Italo Calvino: il protagonista Timoteo ne condivide infatti la riflessione scatenata dalla fondamentale domanda “Come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io?” e dall’altra- altrettanto fondamentale- convinzione che dentro e fuori siano concetti relativi, mentre in certe particolari occasioni  e grazie a certe fortunate coincidenze il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante (Palomar). Timoteo ha ereditato dal padre il mestiere di fabbricante di specchi e ne ha pedissequamente seguito la tradizione accontentandosi dei soliti specchi di rame verdi per l’ossido( Levi il chimico si affaccia nel testo..),e specchi d’argento anneriti da secoli di emanazioni umane. Alla morte del padre, mentre di giorno prosegue il mestiere secondo le regole della corporazione, la sera si sente libero di fabbricare specchi diversi..] specchi versatili capaci di restituire un’immagine altra del mondo, fatta di colori più intensi, un mondo striato, lattescente, sfumato in cui persone e oggetti sembrino fondersi. Specchi che non obbediscono a una legge fisica semplice e inesorabile, e quindi rigida, ossessa, specchi che non pretendono di accogliere in sé la realtà.. Come se ce ne fosse una sola!  Timoteo è davvero figlio minore di Palomar, di quel “valzer epistemologico”- come lo definì Calcaterra – e della sua musica di fondo : elogio del relativo e del multiforme in una visione sfaccettata, prismatica ma armonica dell’universo e che dialoga con la simbologia iconica così presente anche in un’altra grande voce del Novecento, quella di Borges.  Il motivo dello specchio ha alimentato l’immaginario letterario di tutti i tempi, nel secolo scorso in particolare agganciandosi a quello del doppio e dell’angoscioso dissociarsi dell’Io. Ma in questo caso è proprio il gioco del riflettere che interessa i nostri scrittori e che chiama indirettamente in causa le pagine di Lacan sullo stadio dello specchio nell’evoluzione del bambino: lo specchio come fenomeno – soglia, che marca i confini tra immaginario e simbolico per poi farlo virare dall’io speculare verso l’io sociale, lo specchio come “crocevia strutturale”. Negli stadi più evoluti sempre lo specchio si presta a valenze semiosiche (Eco) su cui vale la pena interrogarsi grazie alla sua curiosa virtù di scambiare la destra con la sinistra, anche se solo illusoriamente, perché in realtà è l’osservatore ingenuo e cioè fisico che per immedesimazione si figura di essere l’uomo dentro lo specchio. E subito penso ad Alice o all’urlo di Rimbaud: Je est un autre! Gli specchi che inizia a costruire Timoteo nel racconto di Levi sono specchi  nei quali un  congegno costato settimane di lavoro inverte l’alto col basso e la destra con la sinistra; chi vi guardava dentro la prima volta provava una vertigine intensa, ma se insisteva per qualche ora finiva con l’abituarsi al mondo capovolto e poi provava nausea davanti a un mondo improvvisamente raddrizzato. Stupenda allegoria di quella legge umana che anche Leopardi considerava la più forte di tutte, l’assuefazione, ma letta in chiave novecentesca, quella cioè del rovesciamento di prospettiva, di guardare all’altro da noi per riuscire a conoscerlo e a rifletterci in esso. Timoteo costruisce anche uno specchio per tre volti, uno specchio a tre ante per far comprendere il dogma trinitario ai bambini durante le lezioni di catechismo.. E poi specchi variamente deformanti, mal sopportati dalla sua fidanzata che non apprezza molto di essere trasformata in un mostro dal collo filiforme, e che perciò rompe lo specchio e anche il fidanzamento. Commento del narratore: Timoteo si addolorò ma non tanto. Si sta già dedicando infatti al suo capolavoro, quello di ottenere specchi metafisici. Uno Spemet ( speranza metafisica?) non obbedisce alle leggi dell’ottica, ma riproduce la tua immagine quale essa viene vista da chi ti sta di fronte. Timoteo racconta Magritte. Giocosamente surreale. Il suo brevetto, riprodotto in una ventina di campioni e offerto per prima ad Agata per farsi perdonare, gli rivela purtroppo come lo vede la sua amata: non stempiato ma calvo, con i denti guasti e l’aria non trasognata ma ebete..Inevitabile la rottura definitiva. A vederlo fanciullo, angelico e biondo è invece sua madre. La seconda amata, Emma, semplice certo e un poco ingenua, ma non dura come la pietra Agata ( i nomi sono pure qualcosa) gli restituisce di sé un’immagine talmente positiva da spingerlo a voler amarla per sempre. Sul piano economico-sociale però gli Smet si rivelano un fallimento, troppo costosi e troppo rischiosi per il comune narcisismo. E Timoteo torna a fabbricare i soliti, convenzionali, rassicuranti  specchi di sempre. Quelli che non mettono in crisi il senso del sé, quello generalmente maturato attraverso l’idea che ognuno ha già di sé. Specchi piani e di qualità eccellente. Specchi del conformismo imperante.

P.S. Torno un attimo a “riflettere” su questo amabilissimo-divertente, calviniano racconto di Primo Levi ed ho un soprassalto. Anche il libro(?) di Vannacci porta sulla fronte, come gli specchi di Timoteo, la scritta capovolta, quella di un mondo al contrario! Ma immediatamente mi tranquillizzo: l’autore(?)- a differenza del grande scrittore – non invita a leggere la realtà da parecchi punti di vista, non relativizza la conoscenza di sé e degli altri sulla base dell’apertura prospettica, della stravaganza o della sana ribellione al conformismo. È invece il contrario di tutto questo. È il mondo al contrario del mondo al contrario. Dunque il solito, vecchio, superato e abusato modo di vedere le cose. Vannacci non disegna un mondo che non c’è perché non sa immaginarlo, non può vedere senza specchio e non sa neppure entrarvi dentro. Il suo specchio, al più, è del genere dei primi specchi fabbricati da Timoteo: i soliti, noiosi, incolori specchi della corporazione.

CATERINA VALCHERA

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* Immagine copertina : Primo Levi; Source Wikipedia