Contro il regime del rancore: il caso Scurati
di NICOLA R. PORRO ♦
Al di là degli aspetti contingenti della vicenda che ha colpito lo scrittore Antonio Scurati, un caso tanto sfacciato di censura – capace di sconfessare in un colpo solo l’autonarrazione “democratica” della destra di governo e della sua leader – sollecita interrogativi inquietanti. Per capire meglio occorre forse risalire all’intuizione che ha ispirato il romanzo M. Il figlio del secolo (edito da Milano, Bompiani, 2019). Scurati scrive infatti che Mussolini «è stato il primo ad aver capito di poter sfruttare il rancore per la lotta politica, il primo a essersi messo alla testa di un esercito d’insoddisfatti, declassati e falliti». È lo stesso rancore che riemerge puntualmente quando si cerca di individuare il nucleo profondo di quella cultura reazionaria. Non che l’uso politico del rancore, il vittimismo aggressivo, la demonizzazione dell’avversario appartengano in esclusiva al pensiero fascista e post-fascista. Un autorevole filosofo tedesco, Peter Sloterdijk, aveva parlato in tempi non sospetti di quelle che chiamava “le banche del rancore e dell’odio”. Anche la Chiesa cattolica e i partiti socialisti e comunisti hanno talvolta depositato in queste metaforiche banche un risentimento verso gli altri che trovava una posticcia giustificazione in una missione votata alla conquista del Paradiso o del Sol dell’avvenir. Scurati ha però mostrato, con la sua limpida scrittura, il salto di qualità rappresentato dal “mussolinismo”. Un pensiero che va inteso, ci ha spiegato, come una variante novecentesca, pronta a sfruttare le icone del modernismo, dei più antichi nazionalismi reazionari. Il rancore rappresenta l’ingrediente fondamentale di una visione del mondo in cui Il mito della velocità si associa disinvoltamente al culto del capo. Si vuole tutto e subito e per ottenerlo si può fare ricorso a qualunque mezzo, compreso l’assassinio politico: il delitto Matteotti si colloca cronologicamente nella fase iniziale del regime. Scurati ci ha spiegato infatti come i fascismi non sappiano e non vogliano “rinviare al futuro” perché temono il giudizio di un’opinione pubblica che, alla lunga, potrebbero non essere più in grado di eccitare, mobilitare e manipolare con i soli strumenti della propaganda. Si è scritto in proposito che Scurati ha avuto principalmente il merito di tradurre in una narrazione coerente ed emozionalmente densa la contorta biografia dell’inventore del fascismo. L’ha narrata da scrittore, l’ha indagata come uno storico e l’ha interpretata come un intellettuale democratico. Sta a confermarlo il successo internazionale dei suoi lavori. Il racconto ha un andamento sincopato e narrativamente efficace: 838 pagine per ricostruire un pezzo cruciale del nostro passato che va dalla costituzione dei Fasci di combattimento al discorso parlamentare di Mussolini del 1924 in cui prende forma compiuta la dittatura.
Si comprende bene, perciò, il livore suscitato da Scurati nei sepolcri imbiancati di una destra incapace di fare i conti con un passato imbarazzante e con nostalgie mai rimosse. Ciò mentre nella narrativa europea si assiste a un revival di attenzione alle biografie dei grandi personaggi del Novecento. Mussolini e il suo imitatore di maggior successo, Adolf Hitler, sono descritti come gli uomini nuovi che, dopo lo sfacelo sociale prodotta della Grande guerra, aspirano a spazzar via le élite tradizionali e le classi dirigenti “malate di democrazia”. Scurati mostra come non si trattasse in realtà che di spregiudicati apprendisti stregoni. Inclini a cavalcare con cinismo i miti coltivati da una letteratura dozzinale (si pensi soltanto alla retorica della “giovinezza”), questi imbonitori del rancore avrebbero cercato proseliti fra i reduci delusi della Grande guerra. Al loro seguito sarebbero arrivati presto – esiste in proposito un’imponente e rigorosa documentazione storiografica – bande di avventurieri, intellettuali di provincia nonché “perdigiorno e nottambuli, pregiudicati, e incendiari, disperati, sfaticati e nullatenenti”. Il fascismo viene così descritto da Scurati come un prodotto di sedicenti “homines novi”, pronti a consegnarsi a un leader come Mussolini che, privo di un autentico credo politico, mescolava a fini di propaganda gli ingredienti più disparati. Il duce del fascismo è rappresentato come un geniale dilettante e un inguaribile trasformista, bisognoso di visibilità e di continue conferme emotive. Il successo del lavoro di Scurati si spiega anche, tuttavia, con l’inquietudine suscitata dalle insorgenze reazionarie che hanno preso forma di recente in Europa mentre nuove e vecchie destre si sforzano di degradare l’antifascismo a residuo di una storia ormai trascorsa. Scurati ci ricorda invece come il ripudio di ogni totalitarismo costituisca il fondamento stesso della democrazia repubblicana. Abbiamo il dovere di non dimenticarlo e Scurati ci aiuta a farlo riavvolgendo il nastro della storia nazionale e svolgendolo di nuovo nei suoi lavori in forma suggestiva. Per questa via indaga impietosamente, ad esempio, il frenetico narcisismo di vecchi e nuovi leader totalitari. Un tratto della personalità bisognoso di continui riti di conferma: i dittatori, ci viene spiegato, non si accontentano di monopolizzare il potere. Aspirano a una popolarità plebiscitaria che scaturisca dal riconoscimento, sincero o coatto che sia, da parte delle masse. A questo scopo Mussolini usava il corpo come il Führer usava la voce. Entrambi costruivano un’identità artificiale che si sarebbe materializzata tramite il contatto con la folla. Scurati ci ricorda perciò come, nel tempo di un bonario e accattivante “totalitarismo mediatico”, non si possa rinunciare a riflettere su questo passato che minaccia di invadere il futuro. Si comprende meglio, allora, l’obiettivo non dichiarato dell’attacco rivolto a Scurati in forma ipocritamente “amministrativa”. Si è cercato di dare un segnale a chiunque non si rassegni a celebrare il conformismo di regime e i suoi rituali. Conforta constatare l’indignazione sollevata dalla vicenda e prendere atto della goffaggine con cui si è cercato di giustificare l’operazione censura. Ma non illudiamoci e prepariamoci a sostenere ancora, ogni volta che sarà necessario, le voci di quanti non intendono subire minacce e censure da un potere che, per riconoscersi tale, ha bisogno di atteggiarsi a regime. Oggi più che mai: buon 25 aprile, Italia!
NICOLA R. PORRO

Caro Nicola, concordo perfettamente sul giudizio che hai formulato su Scurati. Se non ci fosse stata la stupida censura RAI (o imposta in modo esogeno) il caso non sarebbe stato. La tracotanza spesso è controproducente. Scurati non ha detto se non ciò che era dominio comune (dei lettori attenti, naturalmente!). La pubblicità gratuita è il prezzo pagato da chi vuole troppo.
Ammiro la razionalità di Crosetto che si distoglie dal coro becero dei militanti e dagli utili idioti dei sostenitori ad oltranza.
L’antifascismo può declinarsi in varie articolate modalità. Ne scelgo una perchè non solo appartiene al mio fondamento culturale ma per la sua evidente chiarezza. L’antifascismo è “pregiudiziale ricostruttiva” del nostro Paese (De Gasperi, citato oggi su Repubblica). Aggiungo che questo concetto va oltre gli anni ’50 e si pone al di là della fase ricostruttiva. Questo termine allora va inteso come valido in ogni fase di crisi del Paese. La giusta traduzione, dunque, dovrebbe essere questa: l’antifascismo è pregiudiziale corroborativa e sistemica del nostro essere in comunità italiana.
"Mi piace""Mi piace"