RUBRICA “BENI COMUNI”, 69. MAGARI… (parte 4^)
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
(4 – continua dalla puntata precedente)
Trascrivo, per dare il senso e la profondità di queste relazioni, alcuni brani scelti tra quelli che ho ritenuto più significativi, mettendo insieme una relazione-tipo. Credo che gli Amici del Blog, tra i quali diversi sono (o sono stati) docenti e insegnanti di valore, apprezzeranno le idee che vi sono espresse e renderanno omaggio anche loro alla memoria del professor Pasquale Cutore.
«Regia scuola complementare … / anno scolastico …
«Relazione finale sull’insegnamento di matematica e della computisteria.
«Illustrissimo Signor Preside,
«il mio insegnamento in questa Regia Scuola Complementare durante l’anno scolastico 1925-26, si è limitato a due materie: matematica e computisteria. Le classi affidatemi furono tre: 2 B e 3° B per entrambe le materie, 3°B solo per la computisteria. [omissis]
«Un motivo di doglianza riguarda le circolari ministeriali. Come pretendere che il pubblico apprezzi pienamente la bontà della nostra scuola e ci si rivolga con piena fiducia se lo stesso Ministero ha poca cura e stima per chi insegna?
«Un’altra piaga è quella dei libri di testo, a causa delle deficienze che chiunque può riscontrare nei libri adottati. [omissis] Lo stile del libro di merceologia non è accessibile ai nostri alunni: si nota la tendenza dell’autore (che è docente universitario) a usare periodi lunghi e termini difficili.
«Per quanto riguarda la questione dei locali, mi permetto di dire che la S.V. non può pienamente valutare gli inconvenienti che derivano dall’angustia e dalla disposizione delle aule dove si svolge la nostra difficile e delicata opera: aule in cui non è possibile un’adeguata aerazione, scarsamente illuminate, poste in piani diversi e mal disposte. In simili aule non si può pretendere una costante attenzione da parte degli alunni, perché sono costretti a fare uno sforzo eccessivo per non rompere quel filo ideale che dovrebbe legare alunni e docenti e non tutti sono in grado di sopportare a lungo tale sforzo, inchiodati su banchi costruiti senza criterio, costretti ad acuire la vista e ad allungare il collo per vedere la lavagna: la scuola così diventa un luogo di pena e trovano quindi una sufficiente spiegazione l’esuberante vivacità alla quale si abbandonano non appena lasciano la scuola e la grande gioia alla notizia di una inattesa vacanza.
«Sento infine il dovere di ringraziare la Signoria vostra per i continui consigli e suggerimenti avuti, mediante i quali ho potuto svolgere opera più proficua: grazie alla Sua eccellente azione educativa, nessun atto scomposto o indisciplinato turbò la serenità delle lezioni. Se i risultati ottenuti dal punto di vista culturale non furono quelli che ciascuno di noi avrebbe desiderato, grande fu invece l’azione educativa: riuscimmo a far sì che le alunne guardassero con fiducia e con simpatia questa nostra scuola e che ad essa venissero con animo lieto.
[Relazione del settembre 1945] «Termino con l’augurio di tempi migliori per la nostra Patria, alla cui fortuna sono legate le sorti della scuola. Ho piena fiducia che il sereno, sia pure lentamente, tornerà a risplendere sul cielo d’Italia: troppe sono state le nostre sofferenze in questi anni, perché esse debbano durare ancora.
«Con ossequi, mi firmo / Pasquale Cutore»


Non devo aggiungere altro, direi, per far capire che questo “Angelo Custode” della Scuola era la personificazione dell’insegnante scrupoloso e dalle capacità didattiche superiori, con esperienze scolastiche che l’avevano visto anche per qualche tempo a Milano e, se ben ricordo, in Trentino. Lo dico pure come fortunato fruitore – ma questo lo penso oggi, allora avrei preferito il gioco e altri svaghi – del paio d’ore di “ripetizioni” mattutine che il Professore dedicava quotidianamente a “tenere in esercizio” suo figlio, e me con lui, durante l’estate (l’altra figliola, Maria, era troppo piccola, ma avrà tempo di seguire le tradizioni famigliari, come insegnante di lettere ed altro).
Tra il Professore e mio padre – più giovane di sei anni, ma pur sempre nato nell’Ottocento – vi era una notevole affinità di idee e di convinzioni sul corretto sentire, la rettitudine, la giustizia, il senso del dovere e il servizio allo Stato. Il loro atteggiamento verso il mondo era di coraggioso esercizio dei doveri e di integerrima adesione alla causa del bene. In questo, esplicando una religiosità (lo vedremo più avanti) che non era cieca accettazione di dogmi, ma coerente fiducia nella lotta per il bene comune e laica fedeltà ai principi fondamentali, anche contro tutti. La loro amicizia, quando mio padre era in ferie e ci raggiungeva da Roma, si manifestava in lunghissime conversazioni, ora da loro, ora da noi (come altrettanto avveniva tra le consorti, madri di noi due Franceschi). Le nostre case, il loro villino semplice ed elegante e la nostra “Casa degli spiriti” accresciuta da papà con una torretta che spaziava su 360° di panorama, dall’Etna a Centuripe, alla Piana e al mare, fino a Siracusa (e Malta?!), in quella località di case disperse lungo chilometri di strada, tra uliveti, alberi di pistacchi (i “frastuchi” della prima puntata), vigneti e fichi d’India sui confini (ricorderò sempre una mia dolorosa, assai pungente, caduta su una pianta, scavalcando un muretto di confine) e poi colate laviche, distavano meno di 30 metri.
Nati nel XIX secolo (!) e però di mentalità molto aperta, di idee avanzate, “moderne”, si diceva, laiche per capirci, di persone che avevano vissuto in un periodo funestato da due guerre mondiali, tra le quali il ventennio della dittatura aveva condizionato fortemente ogni aspetto dell’esistenza. Parlare di loro, oggi, come di tutte le persone per bene di quelle generazioni, alle quali dobbiamo la rinascita dell’Italia, la costruzione della democrazia e della libertà, della pari dignità sociale e la totale uguaglianza «davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», mi crea un certo imbarazzo. Mentre loro sono riusciti a creare dal nulla un Paese proiettato – con le difficoltà, gli ostacoli, i lutti, gli anni di piombo e tutto il resto che sappiamo – verso un ragionevole progresso, vedo con preoccupazione la nostra incapacità di mantenere quei livelli di civiltà, umanità e parità che erano stati raggiunti.
Per questo aggiungo una nota molto personale, che riguarda l’amicizia e la lunga consuetudine tra le due famiglie (e le altre collegate, per li rami o per altro) e mette in evidenza la stima, il rispetto sincero, che intercorreva attraverso le generazioni diverse, quella di padri e madri (e pure nonni e nonne) e quella nostra, che contribuiva non poco a mantenere un clima di grande deferenza da una parte, ma unita a misurata confidenza, e la seria considerazione dall’altra.
Non può stupire che, con costanza – forse monotonia e scarsa fantasia – i nostri doni erano quasi sempre uno scambio di libri. Che oggi sono libri scritti da noi stessi e una volta da autori diversi, come tutta la produzione di sir Arthur Conan Doyle (nota 7), con l’amicizia tra Sherlock Holmes e il dottor John H. Watson, Baker Street, the cabs e la Londra vittoriana che conoscevamo a menadito, salutando con la massima felicità quella vaga malinconia delle giornate settembrine, quando la nebbia e il suo “odore” avvolgevano le cime degli alberi, salendo in folate verso l’irta Etna, facendoci intravvedere Piccadilly Circus e Hyde Park. Con il correttivo dei doveri di buon vicinato che imponevano: «Se vuoi che l’amicizia si mantenga, un panierino vada ed uno venga». E infatti venivano fichidindia o fichi-fichi e andavano marmellate, entravano caponatine e partivano biscotti di “pasta reale”, portavano mostarde o cotognate e s’incrociavano con crostate di more, giungevano cestini di ciliegie o gelsi e uscivano sacchetti di pistacchi, mandorle e noci.
Questa, la lettera che accompagnava per un mio onomastico, il dono di un libro in una materia da me amatissima. Non ha bisogno di commenti. I tempi di Giacomo Leopardi, con tutta evidenza, quanto a serietà e passione per lo studio, erano ancora decisamente vicini.
Caro Francesco,
nel giorno del tuo onomastico, gradisci assieme ai nostri auguri di lieto e felice avvenire, un libro che io ho letto con tanto piacere e che mi ha fatto tanto bene. Non è un’opera che si adatti a giovani di mediocre intelligenza, superficiali e non amanti della natura: ma tu non sei fra questi.
Nel libro troverai meravigliosamente fuse scienza, poesia e fede; e l’Autore in effetti, è stato uno scienziato, un poeta e un uomo profondamente religioso. Con nuovo anno scolastico incomincerai lo studio delle scienze naturali, che già tanto ti appassionano: ma ti accorgerai che, purtroppo, l’insegnamento scolastico viene impartito in modo tale che le scienze naturali “si perdono in un cumulo di notizie frammentarie, escludendo ogni traccia di soprannaturale e si indugiano in una serie di schemi rigidi, arbitrari che nulla hanno a che vedere con quanto si svolge sotto i nostri occhi. La realtà al contrario è sintetica, o meglio, sinfonica. Non esiste un fatto che non sia fine a sé stesso e non concordi in largo giro con gli altri. Legami invisibili in onde di radiazioni, congiungono il granello di sabbia al tumulto atomico che ferve nei cieli.” (dalla prefazione al libro). Ora, l’Anile è riuscito con la sua opera a farci notare le insospettate relazioni che esistono tra il mondo organico ed il mondo inorganico e la meravigliosa armonia che regna nell’Universo.
Ma una cosa ti raccomando, caro Francesco: di voler leggere il libro con attenzione, poco per volta, magari per ora, se non ne avrai la possibilità, non leggerlo affatto e rimanda la lettura al periodo delle vacanze, quando sarai a Ragalna, perché è in campagna che possiamo osservare il filo d’erba, l’albero, il volo della farfalla, il cielo stellato insomma tutta l’opera del Creatore.
Ora non ci resta che augurarti un felice anno scolastico: ché se sarà felice per te, sarà, credimi, felicissimo per i tuoi Cari Genitori.
Ragalna, 4 ottobre 1954
Pasquale Cutore e famiglia.
NOTE
nota 5 – Philippus Aureolus Theophrastus Bombastus von Hohenheim (Einsiedeln 1493-Salisburgo 1541) amava farsi chiamare Paracelsus (Paracelso), a indicare che lui era vicino ad Aulo Cornelio Celso (in greco parà sta per presso, accanto), romano naturalista ed esperto in arti mediche vissuto nella prima metà del I secolo. Sua era la teoria secondo la quale «Omnia venenum sunt: nec sine veneno quicquam existit. Dosis sola facit, ut venenum non fit». Cioè: “Tutto è veleno, e nulla esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto”.
nota 6 – Dall’Introduzione di Francesco Cutore: «Pasquale Cutore, mio padre, era nato a Paternò il 16 gennaio 1890. Apparteneva a una delle famiglie più benestanti e in vista del paese che tuttavia aveva avuto problemi di cattiva amministrazione dei beni per l’eccessiva prodigalità del nonno Emanuele e dovette attraversare un periodo di ristrettezze economiche che condusse i figli di questi, tra cui mio nonno Francesco e il fratello Gaetano a una vita più modesta. Ciò nonostante Gaetano ebbe poi l’opportunità d’affermarsi quale illustre anatomista dell’Università di Catania. D’altra parte, tutta la famiglia si trasferì in città e questo diede l’opportunità a mio padre e a sua sorella, zia Maria, di frequentare il liceo classico e poi di laurearsi l’uno in Matematica nel 1915 e l’altra in Lettere classiche nel 1919 [con la tesi premiata col massimo dei voti e la pubblicazione]. Il fatto che entrambi i nipoti si fossero laureati, secondo i criteri dell’epoca indispettì il nonno materno, anche lui un componente della famiglia Cutore (era cugino e cognato del consuocero Emanuele), che li diseredò. Dovettero adire i metodi legali per veder rispettati i loro diritti».
nota 7 – Il primo fu Uno studio in rosso, A study in scarlet, edito da Rizzoli editore a Milano, prima edizione a novembre1949, quella da me acquistata 20 dicembre 1952 (Lire 250), tratto «dai ricordi del Dottor John H. Watson ex-ufficiale medico dell’esercito britannico», che come i miei generosi lettori ben sanno ha continuato a rappresentare per me una comoda fonte di ispirazione e di imitazione nei miei racconti “gialli” delle avventure del provicario Labat, tratte dai ricordi del dottor John H. Watteau detto Gianvattò.
FRANCESCO CORRENTI (4 – continua)
Ho sseguito le avventure del provicario Labat, tratte dai ricordi di Gianvatto’, e credo che sia proprio l’entusiasmo e lo spirito di ricerca la leva Archimedea che ci ha permesso di vagliare il mondo. Mi sembra di poter dire, come insegnante, che il metodo galileiano sia la traduzione delle nostre”invenzioni” metafisiche, ossia le ssensate esperienze e le certe dimostrazioni.
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Da apprezzare l’impegno profuso nell’ancorare alla memoria del quotidiano la nostra Storia (quella collettiva, quella con la esse maiuscola). Anche nella produzione sociologica sta emergendo con forza negli ultimi decenni l’attenzione al “passato narrato” che rende possibile non solo descrivere ma anche comprendere le nostre radici. N. R. Porro.
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Ho constatato che questi ricordi ripescati aprendo uno spiraglio sulla superficie ghiacciata del lago del passato ed estraendoli con l’arpione della memoria, suscitano – come è pure ovvio – una varietà di reazioni, molte di nostalgia, alcune di rimpianto o forse di rammarico, in un paio di casi di rimorso (devo dire meglio, di dispiacere per l’immaturità di miei comportamenti verso persone pure amate). Sempre, mi sorprende la quantità di dettagli, di fatti connessi e di antefatti che riemergono dal profondo. E anche la condivisione che quei ricordi hanno suscitato da parte di altri testimoni e coprotagonisti, che me ne hanno informato, insieme alla dolorosissima rievocazione di tutte le persone care e le amicizie che non ci sono più. Con la tranquilla consapevolezza della nostra prossimità temporale a questa categoria. Un grazie a Paola ed a Nicola per aver compreso i motivi di questi miei ricordi molto, forse troppo, personali. Ho voluto condividere le reminiscenze per un modo di vivere, di affrontare certe esperienze e di interpretare la realtà, da ultimo di imparare e di insegnare, che credo di qualche interesse e valore.
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