RUBRICA “BENI COMUNI”, 69. MAGARI… (parte 2^)
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
(2 – continua dalla puntata precedente)
Tra i libri che ho riportato nella bibliografia (nota 3), mi ha particolarmente colpito e stupito quello di Giordani e Locatelli, per la grande diversità concettuale che vi ho riscontrato rispetto al nostro (mio?) atteggiamento di oggi su quei temi. Alcune affermazioni e il modo stesso di porsi nell’indagine sulle diverse forme di approccio alla “magia” nel mondo, mette in evidenza i mutamenti psicologici, culturali e sociali avvenuti in quest’ultimo cinquantennio. Anche se la vastità di fenomeni di segno opposto danno da pensare. Ma su questo aspetto, non sono del tutto certo che si sia raggiunto oggi un diffuso progresso della razionalità. Certo, come io la intendo, senza pretese di verità assoluta, per cui considero illogiche le reazioni alla vaccinazione anti Covid, le quotidiane notizie di comportamenti negazionisti di fatti storicamente provati, l’adesione a ideologie antidemocratiche e illiberali, allo stesso modo che, su altro tipo di questioni, mi parve irrazionale, nel 1968, il viaggio “ascetico” dei Beatles in India. Pur apprezzando tutte le forme di meditazione e riflessione tese ad approfondire non il senso inconoscibile della presenza umana nell’universo ma quello che si vuol dare a se stessi come regola di vita. Come, d’altra parte, a maggio 1960, dopo dodici anni di rinvii, avevo considerata una barbarie l’esecuzione nella camera a gas del criminale (divenuto scrittore) Caryl Chessman, di cui avevo letto i quattro libri scritti nel braccio della morte del penitenziario di San Quintino nello Stato della California. Abbiamo avuto modo ultimamente di conoscere anche le più recenti modalità di “giustiziare” negli Stati Uniti, mentre continuano ad accadere tutte le altre nefande pratiche e procedure di punizione e vendetta statale nelle altre parti del mondo.
Tornando al tema “magico”, personalmente, classifico come “superstizione”, alla pari dei racconti siciliani dei miei anni etnei (ed “etnici”), tutte le manifestazioni esteriori di credenze in rituali, fedi e culti privi di razionalità scientifica o la credulità per fenomeni “miracolosi” e quindi impossibili, previsioni del futuro, cartomanzie, pianti lacrimosi di bruttissimi simulacri in gesso o altro materiale scadente (mai uno che rida o sorrida, rassicuri e incoraggi, di questi!) e tutta la casistica di invenzioni fantastiche e fantasiose, fermo restando il più assoluto rispetto per le convinzioni religiose non settarie e in sintonia con la Dichiarazione universale dei diritti umani. Si parla di un «ingegnere pellerossa» che torna alla tribù per partecipare a danze e cerimonie tradizionali. Non vedo alcuna differenza tra la danza sacra del “nativo americano” e la processione del Venerdì Santo di Civitavecchia o di qualche altra località italiana, spagnola o d’altri lidi, in cui l’avvocato o il geometra di etnia latina percorre le strade in sampietrini del borgo a piedi scalzi, trascinando lunghe e pesanti catene, flagellandosi e recitando cantilene. O anche il cosiddetto “facchino” viterbese, curvo con altri cento o giù di lì, sotto la “Macchina di Santa Rosa”, dopo il grido “Sollevate e fermi”, che si accinge a partire di corsa verso il lungo percorso tra due ali di folla festante. E qui cerco di chiarire anche a me stesso quale credo debba essere l’atteggiamento più coerente da assumere al riguardo. Sono convinto del valore sociale, morale e culturale di ogni forma di adesione individuale o collettiva a rituali e cerimonie, se riflettono autentiche espressioni di antiche tradizioni, tramandano la commemorazione di eventi storici e mantengono in modi sinceri e rispettosi la memoria collettiva ed il ricordo di fatti e persone, per contribuire alla comprensione consapevole e corretta del passato, fondamento di qualunque premessa per tentare – nonostante le continue delusioni – di migliorare almeno qualche aspetto del futuro.

Ma per le posizioni prese nel libro dagli autori, preferisco fornire ai Lettori una sorta di abstract del volume, per dar loro modo di cogliere autonomamente quelle diversità. Ho mantenuto nelle forme verbali l’attualità del libro, ponendo tra parentesi [quadre] qualche spiegazione o riassunto e l’indicazione dei brani omessi (nota 4).
Con ciò, ho esaurito le mie cognizioni sulla formula e sui modi necessari per tagliare la coda delle trombe d’aria e quindi chiudo l’argomento, ma confido nella riconoscenza dei Lettori, che potranno così affrontare tranquillamente l’eventualità di imbattersi in qualcuna di esse. Sento però il dovere di non fermarmi a questi primi insegnamenti esoterici, che a ben vedere sono solo un aspetto insolito delle tante informazioni comprese tra le finalità culturali (e pratiche) della rubrica, e allargare la rievocazione dei miei ricordi dei miei soggiorni siciliani a qualche altra esperienza non dimenticata.
Ho già parlato in questa rubrica (puntata 59, La festa dei Più, del 2 novembre 2023) della “Commemorazione dei Defunti”. Ho scritto, allora: «La data “significativa” mi ha indotto ad un titolo dal significato evidente (i “Più” sono pure la maggioranza), che tiene anche conto delle mie esperienze siciliane, cioè dell’insolita “festa”, quando da Roma andavamo a trovare i nonni di “laggiù” in quei giorni di Ognissanti e dei Morti, con la sveglia tra suoni di trombette e grida infantili allegre dal vicinato e i regali per me, tra cui le curiose “Ossa ‘i Motti” (come le sentivo pronunciare in dialetto), piuttosto dure ma certo non spaventevoli. Naturalmente – scusate, per me è così – ho associato l’argomento alle altre mie esperienze, quelle di lavoro e di studio, con la lunghissima e travagliatissima “procedura” (evito denominazioni auliche o autoreferenziali) per giungere, dal rilievo del 9 febbraio 1975, ai lavori di messa in sicurezza e restauro del 2005 [del Tempietto di San Lorenzo al Cimitero monumentale di Civitavecchia]. Tre decenni e anche più, per finire, ma c’è stato un momento in cui quel monumento (sorvolando sulle consuete attribuzioni sballate) è “tornato a splendere”. Oggi, a quasi vent’anni da allora, temo non si possa più dire.»
Per quanto posso costatare sfogliando le pagine dei miei ricordi, rileggendo qualche scritto o documento o riguardando qualche disegno e qualche fotografia, tutte le persone, i luoghi, gli avvenimenti delle mie esperienze siciliane in ogni fase della mia vita hanno rappresentato qualcosa di inconsueto, hanno mostrato aspetti extra-ordinari, hanno messo in scena situazioni che mi vien da definire “teatrali” – dalla farsa esilarante al dramma più commovente, passando da episodi dell’Opera dei Pupi – tanto da apparire sempre, in un modo o nell’altro, personaggi, maschere, scenografie, quinte e fondali, trame, sviluppi e finali di qualche novella, racconto, romanzo, opera buffa, commedia o tragedia d’uno dei tanti autori isolani, dai più antichi ai contemporanei, con una indubbia frequenza di Luigi Pirandello.
Nella figura 2 ho inserito due miei “disegnini” fatti a 12 e 15 anni, tanto per illustrare cose accennate nel racconto: il cacciatore etneo armato di tutto punto e alcuni Pellirosse, come immaginavo i Cheyenne (allora leggevo gli albi di “Pecos Bill” della Mondadori, cowboy a sua volta alle prese con tornadi e trombe d’aria, che “domava” prendendone la coda con il lazo). Il “cacciatore” era uno dei tanti che giravano armati di fucile da caccia e cartuccere perché vivevano in campagna e poteva capitare di impallinare qualche povera bestiola, ma in quella tenuta giravano ovunque, portati in auto vecchiotte da qualche loro famiglio-autista; questo, rappresentato in modo decisamente grottesco, era un parente di mia Nonna, pericoloso per sé e per gli altri (mal visto da Nonno Francesco, direttore d’un importante ufficio comunale, figlio di un farmacista e con il nonno patriota antiborbonico e poi assessore postunitario), che di tanto in tanto “saliva” a trovarci – casa nostra era a 800 metri s.l.m. – dalla sua contrada con masseria e chiesa privata a quota 500 circa ed era una vastissima proprietà di molte salme, unità di misura di superficie equivalente a circa 1 ettaro e 3/4 che era composta di 16 tumuli, nomi questi molto adatti ai temi un poco macabri della puntata). Ho poi messo una veduta dell’Etna vista da Ragalna, come l’ho dipinta nel pannello in ceramica “Efesto, Teti, i Ciclopi e l’armatura di Achille”, del 1957, dono fatto ai miei genitori per i trentaquattro anni di matrimonio. A fianco, per dare risalto alla formula magica che annulla il malocchio, ho ripreso una mia composizione con ampolline e oliere in vetro e rame stagnato con la famosa finestrella “SGdD” (ve ne ho parlato e riparlerò presto), fatta per l’amica Yuko Chiba, nel 2005, quando pensava di importare con grande successo in Giappone l’«Olio Barocco». In basso, accanto ad una scena d’uno “scacco” (o “masciddara”) d’un carretto con i Paladini di Francia oppure i Vespri siciliani, una mia fotografia scattata da mio padre, nel cortile della casa avita di Paternò, nel 1948 (avevo nove anni).
Ci ho sovrapposto il foglietto del calendario del 28, il giorno di Pasqua, ma la foto è del 27, Sabato Santo, perché era in quel giorno, allora, che a mezzogiorno, l’“ora sesta” d’una volta, si “scioglievano le campane”. Ho tuttora un ricordo vivido di quella prima volta della Pasqua in Sicilia, quando l’ora stava avvicinandosi ed eravamo tutti in attesa nel cortiletto, un vero e proprio patio con un albero di limoni e l’altissima palma piantata da papà nel ’15 quandò partì soldato, intorno al quale erano disposte le stanze e i locali di servizio. Ed ecco il colpo di cannone esploso dal Castello normanno sulla collina che sovrasta il paese insieme alla Chiesa Matrice di Santa Maria dell’Alto (in cima alla lunghissima scalinata che parte dal paese), al Convento francescano ed al Cimitero. Immediatamente, è seguito lo scampanio a festa di tutte le chiese, essendo stati sciolti i batacchi legati, per non suonare se mossi dal vento, il Giovedi Santo dopo la Missa in Coena Domini, e così terminavano la Veglia e il digiuno. Credo di non sbagliare, dicendo che ai rintocchi a distesa delle campane si era unito lo scoppiettio prolungato dei mortaretti, dato che spari e fuochi d’artificio erano una rumorosissima caratteristica delle feste religiose di Paternò, la cui Patrona è Santa Barbara vergine e martire, festeggiata il 4 dicembre, che lo è anche della Marina Militare, oltre ad essere protettrice dei Vigili del Fuoco. Tanto che “la Santabarbara” è nei forti e sulle navi il deposito delle munizioni e a Civitavecchia era il bastione in Darsena con quella funzione.
La gioia per la Resurrezione si è quindi espressa in abbracci e scambi di auguri tra i famigliari, ma poi si è usciti per strada ad estendere gli auguri al vicinato, affacciatosi a sua volta dai portoni. Così, almeno, mi pare…Ma ci fu un seguito e torno alla foto, dove, mi vedete, sono in posa mentre mio padre è pronto con la sua Contax a immortalare (?) questi miei primi contatti con le tradizioni e il mondo della sua gioventù, quel mondo da cui si era staccato appunto più di trent’anni prima, partendo per la Grande Guerra, e dove, di fatto, non era più ritornato stabilmente, vivendo e lavorando dopo la guerra a Torino (il matrimonio con mamma nella Basilica di Superga), con frequenti soggiorni in Francia (Savoia e Alta Savoia) e poi dal 1930 trasferito definitivamente a Roma, dove sono nato io nel ’39. Le fotografie scattate da papà nel cortile sono molte, ancora conservate in uno dei tanti album di un’intera vita, con date, titoli e didascalie a matita bianca, per cui non ci si può sbagliare.
Tra la sciolta delle campane e il momento della foto, però, ci fu un episodio anch’esso rituale nelle case, non documentato su pellicola ma che ho impresso invece nella mente, perché mia Nonna me ne fece “primo attore”, anzi – trattandosi quasi di un rito – “officiante”. Peraltro, Nonna Maria Grazia era una delle sorelle minori (cinque sorelle e cinque fratelli, in famiglia) di monsignor Mariano Raciti (uno “Zio Prete”, in quei tempi, c’era in numerose famiglie), persona di gusti raffinati, sacerdote coltissimo, predicatore rinomato, con la “Dignità” di Ciantro e Tesoriere del Capitolo dell’Insigne Collegiata di Santa Maria dell’Alto (nota 5).

Mi viene da chiamarlo «Pulizie di Pasqua», questo rito, che univa la serietà della pia pratica, come genuina espressione di religiosità popolare, al tono allegro e divertito, proprio per il senso di liberazione dalla mestizia della Quaresima e per la letizia portata dall’immagine di Gesù Risorto, vittorioso sulla morte e sul male, e anticipava la Benedizione delle case che avrebbe fatto il parroco della parrocchia nei giorni successivi. In effetti, si trattava di ripulire l’abitazione da presenze malefiche, anzi proprio dalla peggiore di esse, il Diavolo in persona, Demonio, Satana, Belzebù, uno o tanti che fossero, nascosti negli angoli nascosti e bui della casa, negli armadi, dietro i mobili. Per documentarmi sull’argomento degli esorcismi e simili, ho trovato una infinità di siti, link, pagine di ogni genere, tra cui formule, invettive, preghiere, come una lunghissima, molto formale e devozionale, tradotta dallo spagnolo (“di padre Vagner Baia su «Aleteia»”) proprio per allontanare il Maligno. Nel mio caso, in quella circostanza della vigilia di Pasqua, dopo il suono a distesa di tutte le campane di tutte le chiese di Paternò, all’unisono con tutte le altre campane del mondo cattolico, tra mezzogiorno e l’una, mi fu dato in mano un fascio di verghe di vimini, di quelle che si usavano per fare cesti e cestini, dicendomi di percorrere tutte le stanze, battendo forte le verghe contro le pareti, in tutti gli angoli nascosti e bui della casa, negli armadi, dietro e sotto i mobili, guardando e battendo dietro alle tende, gridando ogni volta, a gran voce: «Nèsci fôra, brutta bestia, ca ‘u Signuri vinni!» Fu così che, ridendo divertito, ma anche compreso del compito, ho ripulito la casa dei Nonni da tutte le presenze malefiche, pronto a scoprire cosa aveva messo Nonna Grazia nel grande forno a legna della cucina, dopo aver trafficato in dispensa dall’alba.
E voi adesso mi direte: sì, ma cosa facevi, lì nella foto, davanti a vari oggetti che sembrano dolciumi, reggendo in mano quella stana cosa con manico, pare una borsa, ma si vede che è di pasta di pane, con cinque uova intere inserite nell’impasto? Ah, no! Non ora! questo ve lo dirò nella prossima puntata!
Qui, ora, preferisco trascrivere la risposta che volevo dare a Rosamaria Sorge (ma i meccanismi del Blog me lo hanno impedito, chiedendomi password, parole d’ordine e segni di riconoscimento che ha respinto sistematicamente come errati), a proposito del suo commento alla precedente puntata della rubrica. Le volevo dire il mio piacere di leggere il suo commento per le varie coincidenze e i comuni sentimenti che esprimeva, aggiungendo una mia riflessione buona anche adesso, a questo punto della puntata di oggi. Sicuramente, i ricordi della gioventù sono belli per tutti, ovunque vissuti, ma quella Terra, così straordinaria in ogni senso e così contraddittoria anche per le caratteristiche e il carattere dei suoi abitanti, per me ragazzino romano, in quegli anni lontani, nel villaggio (“rahal”) delle mie vacanze, aveva un fascino davvero speciale. Tra l’altro, anche il fascino di essere, nonostante le località celeberrime dei dintorni dove erano fiorite le maggiori civiltà del Mediterraneo, un luogo a contatto immediato – e quasi una sintonia – con l’Etna e le sue grandiose e a volte paurose manifestazioni e, per vari anni, nella situazione dell’Ottocento (quasi identica a quella dei secoli precedenti) per tutti gli aspetti del “moderno progresso tecnologico” (corrente elettrica, acquedotto, mezzi di comunicazione ecc.). Esperienze irripetibili pi’ daveru!
Un avvertimento finale di questa puntata. In copertina, vedete quella strana immagine d’un personaggio a cavallo d’un animale dall’aspetto chiaramente medievale, visto che assomiglia ai mostri, draghi o lucertoloni, basilischi, via, ma di pietra, detti anche da noi, con termine francese, gargouille (meno usati gli adattamenti italici garguglia e gargolla, ed a me piace dire “gorgoglione” perché ha un suono onomatopeico), che sono i doccioni aggettanti delle cattedrali gotiche. Di fianco, la scritta «Osez pousser la porte…». Era il poster, che trovai molto divertente e spiritoso, accogliendone immediatamente l’invito (ma avrei spinto quella porta ugualmente), della libreria sul lungosenna dell’Isola di San Luigi a Parigi, a dicembre 2007. Collocato da gennaio in pensione, potevamo goderci quel soggiorno senza troppa fretta di rientrare come era avvenuto nelle volte precedenti, sempre incalzato dalle esigenze del servizio. Ho replicato l’immagine nella figura 3, insieme alla bella processione disegnata da Gastone Vuiller e ad una scena dei “Beati Paoli” (vedi la bibliografia della nota 3). Ebbene, questa sarà l’immagine che accompagnerà scherzosamente le prossime puntate della rubrica “Beni comuni” in cui «oseremo spingere la porta» per entrare in qualche argomento insolito, curioso, eventualmente spigoloso o semplicemente controverso, come è questo di oggi. Per quel diffuso atteggiamento esemplificato dal titolo della commedia di Peppino De Filippo del 1943 “Non è vero… ma ci credo”.

Un aarchivio che è un tesoro.
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