RUBRICA “BENI COMUNI”, 69. MAGARI… (parte 1^)

a cura di FRANCESCO CORRENTI

Attenzione! Prego la gentile Lettrice ed il cortese Lettore di accingersi alla lettura di questa puntata avendo presente che, una volta tanto, si troverà a sentirsi raccontare fatti, abitudini e credenze piuttosto diverse dalle mie solite consuete divagazioni storico-urbanistico-architettonico-portuali ambientate intorno al cosiddetto “Porto di Roma” nonché alla cosiddetta “Porta dell’Etruria Meridionale”, come da qualche tempo vengono nominati i luoghi oggetto frequente di questa rubrica.

Anche il linguaggio sarà alquanto diverso da quello così dottamente presentato e rappresentato (oltre che “corretto”) nei propri libri da Carlo De Paolis o utilizzato per la sua poesia quotidiana da Gigi De Angelis “Veleno”. Un linguaggio – lingua, dialetto, vernacolo? – del resto, che in poco meno di sessant’anni di frequentazione non sono riuscito, non dico a padroneggiare, ma neppure ad articolare embrionalmente, limitandomi a qualche citazione verbale, influenzata fortemente dalla cadenza romanesca mia propria, forse dovuta all’equidistanza spirituale tra torinese e paturnisi. Anche se Andrea Barbaranelli definisce il civitavecchiese appunto una variante del romanesco (nota 1).

Mi è venuto, infatti, il desiderio di raccontare agli amici di SpazioLiberoBlog cose apprese nei miei anni molto giovanili, anzi nei miei mesi e nei miei giorni trascorsi – sempre beatamente in vacanza, perché quello era il tempo, per le vacanze di Pasqua, quelle estive e quelle di Natale dei soggiorni dai nonni paterni – in quella terra avita (per metà del mio genoma) che è la Sicilia, ovvero la Trinacria, in particolare i luoghi alle pendici dell’Etna.

Nuovamente attenzione! In questa puntata, fin dal titolo, traggo in errore i cari Lettori continentali e più specificatamente centro-italiani e ancor più specificatamente laziali, dando a credere che la parola «magari» sia un avverbio e che voglia dire qualcosa tipo «magari fosse vero» o «magari ci sentiamo presto», cioè un’espressione di desiderio, d’auspicio, di rimpianto, mentre in realtà lì, per me, è un sostantivo maschile plurale in una forma grafica lievemente adattata rispetto alla forma dialettale da cui ho tratto la parola. E qui devo aggiungere che in tal senso, nella lingua dei miei antenati paterni, per enunciare quel concetto di “cosa auspicata”, si dovrebbe scrivere con la “c” al posto della “g”: «macari», che poi oltre al significato che ha nella lingua italiana avrebbe il significato di «anche», come nella frase «perché non vieni macari tu, alla nostra passeggiata?»

Voglio peraltro precisare che quello di cui parlo, con cui parlo e qui sto descrivendo, è un dialetto, non saprei se lingua, che ha forse qualche diversità dalla vera parlata scientificamente normata dagli specialisti della materia, anche per le tante varianti della stessa fino all’interno di ogni provincia, pure in relazione alla categoria ed all’età delle persone. È quella parlata, col suo accento, colla sua cadenza e la sua terminologia, che io ho conservato nella memoria fin dall’infanzia, avendola udita pronunciare dai miei nonni, da mio padre e da altri parenti di “laggiù”, mai da mio zio, a volte da mia mamma (nella sua particolare interpretazione franco-torinese), e che ho parlato e continuo a parlare con i miei amici di quei tempi quando ci ritroviamo, in una rielaborazione che senza dubbio ha arrangiamenti fonetici, correzioni acustiche, trascrizioni grafiche e invenzioni lessicali assolutamente personali, anche distanti dalla realtà oggettiva della parlata originale (non amo, in genere, il rotacismo della preposizione “di” in “ri”). Per cui poi, a maggior ragione, è diversa da come la leggo in Verga o in Sciascia, per non dire nel “montalbanese” TV di Camilleri.

Per riprendere il discorso ed a voler essere precisi, infatti, avrei dovuto inserire tra le due vocali “a”, al posto della “g”, la consonante “h” (acca), con un suono tipicamente aspirato ed avremmo avuto così la parola con cui si designano le persone che formano l’oggetto del mio primo racconto, un racconto che ho accompagnato necessariamente con alcuni disegni esplicativi, perché l’ho tratto da suggestive narrazioni, ascoltate appunto in quelle pendici vulcaniche, da una persona sicuramente degna di fede, che era il più anziano dei pirriaturi (cioè dei tagliapietre) della cava di pietra lavica, il basalto, che stava scolpendo, a colpi di mazza e scalpello (ve li traduco alla prossima) un tavolino rotondo da mettere nel passiaturi intorno a casa nostra, davanti a due sedili d’angolo in pietra bianca di Siracusa, per poggiare oggetti, bibite o altro quando si stava lì in conversazione. Il personaggio, all’incirca “sessantinu” – per dirla alla Peppino Fazio –, muscoloso, asciutto, con grandi mustacchi (ho provato a ricostruirne l’aspetto nel disegno qui sopra, del 5 luglio 2014, ma i fatti risalgono ad una estate verso il 1960), evocava vicende a cui aveva direttamente assistito da testimone – o forse proprio da protagonista – e che riversava nelle nostre giovani orecchie, ansiose di apprendere, fatti arcani, pieni di mistero, incredibili eppure creduti e penso sinceramente.

In proposito, devo spiegare ai Lettori che quella parola, «magari», in questa mia narrazione significa il plurale di «magaro», mago – maghi, ma con il senso quasi di «stregone» o comunque di persona che conosce i riti e le formule per rompere gli incantesimi o allontanare il male. Va anche aggiunto che quella nostra casa, rimasta molto a lungo non frequentata dai miei nonni, veniva chiamata, per via di certi fenomeni “innaturali” o “soprannaturali” che vi si erano manifestati, «‘a casa ddi spirti», nientemeno che la Casa degli Spiriti. E che qualche bello spirito ci si recasse nottetempo, “magari” per incontrare qualche altra persona parimenti spiritosa e con sembianze non spettrali, a mio parere, è un fatto evidente. Quanto ai fenomeni che ci venivano riferiti come accaduti più volte e visti personalmente, coi loro propri occhi, da quegli osservatori nostri confidenti, si trattava di apparizioni improvvise, notturne e sempre in nottate illuni, quando il malcapitato si trovava a dover passare lungo la strada provinciale in forte pendenza che costeggiava per lungo tratto, a valle, la recinzione del fondo e il tratto terrazzato prospiciente la casa, coi suoi due cancelli. Lì davanti, la strada è soprelevata rispetto al terreno, anch’esso sistemato a ripiani sostenuti da muri a secco in cui son ricavati stretti scalini, e quei gradoni proseguono, secondo l’andamento del pendio (le famose pendici della Montagna!), senza interruzione, scendendo fino a valle, fino alla pianura, la Piana di Catania, dove scorre e giunge al mare il Simeto, dopo aver formato, attraversando le colate laviche (le sciare), splendide gole. Ebbene, avvicinandosi alla casa, il viandante scorgeva, immancabilmente, un carretto, uno di quei carretti dalle sponde dipinte e istoriate, posto di traverso sulla via, come per caricare dal retro grosse balle o forse grandi giare e bauli. Ma davanti, alle stanghe non c’era uno dei soliti muli o cavalli oppure somari, ma un enorme, spaventoso cirneco, altissimo sulle zampe tanto da far inclinare il carretto, con le lunghe orecchie diritte sul capo. Il manto fulvo aveva nell’oscurità una evidenza irreale, quasi avesse una luce propria, e tuttavia erano gli occhi – ai lati d’una linea mediana di pelo bianco –  a turbare fin da lontano. A guardarli, fissi, che ti guatavano a loro volta, li vedevi infuocati come carboni accesi nella concolina, due braci incandescenti che in quel loro aspetto bruciante ti raggelavano e t’incutevano terrore. Ed era allora che il bestione, il mostro terribile, emetteva un ringhio pauroso e balzava in avanti, come se non vi fossero quei salti del terreno, volando a precipizio verso valle, superando oliveti e vigneti, frastuchi e fichidindia, e continuando sulle colate, su lapilli e ceneri e rocce contorte, così, sciara-sciara, come si dice qui, a perdersi oltre Catania, oltre la Plaja, verso Augusta e Siracusa, all’orizzonte (nota 2)

Beni comuni 69.1 figura 1

Ho così confessato questo segreto di famiglia. Aver posseduto ed aver trascorso tanti giorni e tante notti, anche illuni, dall’infanzia fino alla maggiore età, in una casa “infestata” dagli Spiriti, peraltro senza mai riscontrare tangibilmente presenze occulte e invece in qualche caso fornendo sadicamente motivi per alimentar la credenza con scherzi fatti ai rari passanti, è stato divertente, proprio per i racconti e le rivelazioni che abbiamo avuto. Ragion per cui è opportuno ch’io ritorni alla figura e traduca, con qualche aggiunta a maggiore erudizione di chi legge, le parole che vi ho scritto, ricordando quel lontano racconto del Mastro scalpellino sul modo di tagliare la «Cuda du Dragu». Codesta Coda del Drago o del Dragone è il nome dato al fenomeno atmosferico della tromba d’aria, detto anche tornado, che se avviene sul mare diventa logicamente tromba marina o tromba d’acqua. Vale sempre il discorso che nella pronuncia che sentivo mi suonava moto simile a “Drahu”. Giuseppe Pitré (Palermo 1841-1916), massimo studioso dei costumi siciliani, la dice «specie di procella che formasi da un turbine a foggia di colonna dal mare fino alle nuvole» ed anche «nuvola nera in forma di coda». Ed ecco la traduzione promessa:

Il mago, lo stregone, tiene il coltello nella mano (secondo alcuni deve essere la sinistra) poggiata con le nocche dietro, contro la schiena, e si avvicina camminando all’indietro alla Coda del Drago. Quando arriva a sfiorarla, vibra un gran colpo con la lama e taglia la Coda. Appena l’ha tagliata, tutto finisce ed accadono cose assai strane, come quella volta in cui, tra tanto pruvulazzu, tanta polvere, e vasi, sedie, libri, tutto per aria, si videro il padre parroco e la perpetua finire nudi nudi sul tetto della canonica.

Nel mio ricordo, questa descrizione della pratica del “Taglio” non era accompagnata dalla rivelazione di giaculatorie, scongiuri, preghiere e segni di croce. Non escludo che l’aura di mistero propria del rito, comportasse un forte riserbo verso i profani, tale da non rivelare la parte più segreta e iniziatica della liturgia. Mentre la chiamata in causa del “parrinu”, il prete, o del padre parroco non stupisce. Perché una delle caratteristiche di questi racconti è sempre un po’ di quella maldicenza e di un pizzico d’anticlericalismo che serpeggiano nei discorsi del popolino, ancorché devoto. Ma altre sono le superstizioni tipicamente etnee – in realtà estese ad ambiti geografici ben più vasti – che mi stupivano nei miei soggiorni siciliani. In particolare, una delle fissazioni diffuse era il timore della iettatura, la jella o l’occhiatura, ovvero quell’insieme di sfortuna e malasorte, gravida di disgrazie, disavventure ed appunto iatture incombenti, sempre in agguato se si incappava nello sguardo, nel malocchio, di quegli occhi tremendi, capaci di portare tanto male, di alcuni malvagi. Rappresentati nei disegni di Jacovitti e nei film di Totò coperti da occhiali nerissimi, impenetrabili eppure micidiali. Ed erano tante le circostanze, i modi improvvidi, i gesti avventati, le mosse false che scatenavano le avversità. “Luvru” era detta la persona afflitta da quella nomea. Il suo apparire in un luogo raggelava le combriccole di amici, provocava sguardi d’intesa, toccate di gomito e, palesi, rapide introduzioni di mani nelle saccocce dei calzoni, in ansiosa ricerca di contatti neutralizzatori. Era un fatto ambivalente: a chi era ritenuto menagramo, si attribuiva un potere sopranormale, malvagio anche quando non intenzionale, tale da incutere timore e senso d’inferiorità; ma quella persona colpita dal pregiudizio superstizioso, a sua volta, nell’ambiente sociale, pur fortemente temuta, era però disprezzata, sfuggita, evitata nei contatti fisici e addirittura nei discorsi e nei pensieri, e quindi ingiustamente offesa, vittima di altrettanta sfiga, come pure lo erano gli oggetti e le cose appartenutele o da lei toccate. Fatto su cui potrei citare diversi incredibili aneddoti con protagonisti ben noti, per giunta in località assai lontane dalla Sicilia e senza rapporti con l’isola.

Analoga (mala)sorte toccava, in alcune circostanze, anche a persone qualunque, senza connotazioni negative, non sfiorate da nessuna nefasta reputazione. Questo accadeva se dei conoscenti, anche persone in rapporti amichevoli, le udivano esprimere parole in apparenza innocenti o venivano colte a guardare altri, soprattutto bambini o bambine, pur senza alcuna estrinsecazione, e tuttavia tali da destare sospetti. Qui il mio racconto, naturalmente, si riferisce a modeste, antiquate realtà di ambienti paesani ristretti, in tempi lontani, almeno del secolo scorso, tal quale la leggenda del drago e degli spiriti.

Si parlava, in quelle serate invernali, nella casa dei Nonni a Paternò (Ragalna era impraticabile in quella stagione, a volte anche ammantata di neve), seduti intorno al braciere, infreddoliti, i piedi poggiati sulla pedana circolare rialzata in cui la concolina di rame era inserita. Erano venuti in visita alcuni vicini e altri conoscenti ed amici, donne e uomini, tutti di età matura, cinque o sei persone. La conversazione spaziava dalle immancabili questioni generali della politica o di fatti recentemente accaduti a scambi di impressioni sulle vicende climatiche e metereologiche, per poi toccare immancabilmente le questioni economiche, ossia la situazione del mercato di arance, mandarini e limoni, quando le piante nei giardini erano ancora cariche e invendute, malgrado la stagione avanzata. Scene simili si svolgevano ovviamente in tante altre case ed in quelle che erano chiamate le “putie”, che sarebbero le botteghe e altri ambienti a piano terra affacciati su strada, come il salone di barberia, la farmacia, lo studio notarile, il Casino dei Civili (il circolo riservato esclusivamente ai rappresentanti maschi della borghesia paesana).

Orbene, poniamo che al termine di una di queste riunioni in una abitazione di famiglia, quando l’approssimarsi dell’ora di cena aveva indotto un famigliare “addetto” – o la giovane servetta – a far sentire dalla vicina sala da pranzo rumore di stoviglie, dando così il segnale per i saluti, i convenevoli di commiato, tra i padroni di casa vi fosse uno sguardo di intesa. Questi sguardi silenziosi, fissi e sui volti immobili, dove a comunicare era uno scintillio della pupilla o un impercettibile (ma percepito) aggrottare dei sopraccigli, erano una dote caratteristica nelle coppie di coniugi o di amici molto affiatati di una certa età. E quindi termino il racconto col suo epilogo naturale che è appunto la soluzione del problema insorto, consistente – l’avrete capito – nella sospetta presenza, nell’aria, di malocchio in azione.

Simile sospetto poteva essere determinato, tanto per fare un caso possibile, se era presente nel gruppo, ad esempio, il Nipotino dell’anziana coppia dei padroni di casa, nipotino non conosciuto in precedenza dai visitatori e salutato con esclamazioni ammirate, rivolte ad esaltare la sua bellezza, intelligenza, altezza, prontezza di spirito, bravura in campo scolastico o sportivo, insomma qualunque altra dote fosse venuta alla luce nei discorsi. In tal caso, la conclusione della serata vedeva l’annuncio di una cerimonia rituale e poi la preparazione di una scodella piena d’acqua e di una oliera o d’una ciotola con dell’olio. Mentre gli altri famigliari si disponevano a cerchio intorno, il Nipotino in questione, divertito e però irrequieto, veniva fatto stare fermo, in posizione diritta. Nel caso fosse ormai troppo cresciuto rispetto alla Nonna, veniva fatto sedere, schiena diritta, su una delle seggiole del salotto, esili e fragilissime, col sedile in paglia di Vienna. Ai fini dell’indagine le due posizioni sono indifferenti. La Nonna gli si poneva dietro le spalle, tenendo con la mano sinistra il piatto orizzontale, portato poi leggermente al di sopra della testa del giovane virgulto. A quel punto, la Nonna, intingeva il dito mignolo della mano destra nell’olio, di cui faceva cadere alcune gocce nell’acqua del piatto. Dopo qualche attimo, la constatazione ed il responso. Se le gocce restavano intatte, galleggiando in superficie e ben visibili, con il loro colore giallo, non vi era stata alcuna occhiatura malevola, tornava il sereno e si pronunciavano parole di compiacimento e di affetto per l’innocente visitatore scagionato. Se, al contrario, appena cadute nel piatto o dopo pochi secondi le gocce si disfacevano nell’acqua e si scioglievano dissolvendosi senza lasciar traccia di sé, il malocchio c’era, come una fattura malvagia da cancellare. I volti di tutti si rabbuiavano, le teste annuivano a confermar l’evidenza, tra parole di sconforto e violenti improperi verso l’indegno traditore dell’amicizia e dell’ospitalità. Poi, rapidamente, la Nonna procedeva nel rituale salvifico. Ridisponendo con la mano sinistra lo stesso piatto sul capo al Nipotino “contagiato”, tracciava sull’acqua, con le dita della destra nel gesto della benedizione, vari segni di croce, esclamando più volte la formula: «Occhiatura, scarpisatura, nun fari mali a’ criatura! In nnomine Patri, Figghiu e Spiritu Ssantu!» Il Nipotino era liberato, il diavolo (c’era sempre lui dietro ogni forma di male) sconfitto e scornato.

NOTE

Nota 1

Riprendo dall’articolo di Carlo Alberto Falzetti “Ner tempo” del 30 gennaio u.s. sul libro di Andrea Barbaranelli dallo stesso titolo, alcune annotazioni illuminanti:

«Ma che cosa è il “civitavecchiese”?

«Di certo appartiene alla famiglia del romanesco incluso a sua volta nella famiglia dei dialetti dell’area mediana. Ma sono evidenti le differenze. Il romanesco appare co quer tono sfottitore e bbonario come cianno li romani de Roma, ch’è diverso un po’ dar nostro, perché noi nun semo de città granne, ma d’un paesotto qui sur mare, e puro si ce damo arie da cittadini, in reartà stamo ancora rinchiusi in quelle mura che oramai da tempo so sparite. (Er dialetto).

«Come accadde per il romanesco un tempo l’influenza del napoletano ebbe, anche qui, il sopravvento. Nella Capitale la “smeridionalizzazione” fu l’effetto di vari fattori legati alla corte pontificia e alla veloce espansione demografica. Nel caso di Civitavecchia l’immigrazione di pescatori di Pozzuoli, Ischia, Torre del Greco influenzò la lingua creando il “ghettarolo”. Ma l’incomprensibilità dell’idioma presto condusse ad una sorta di “diglossia” tra centro storico e Ghetto fino a che il ghettarolo scomparve del tutto. Il problema che si pone oggi è quello di evitare la banalizzazione del dialetto appiattendolo sul romanesco o la sua lenta scomparsa attraverso quel “pancivitavecchiese” (definizione di Carlo De Paolis) appena velato di inflessione dialettale. Il compito della poesia è proprio quello di far sopravvivere il vero idioma.»

Nota 2

Il cirneco, più propriamente cirneco dell’Etna, è una razza canina tipica dell’area etnea, di taglia media e di aspetto generale simile al levriero, con grandi orecchie appuntite e diritte, che lo fanno assomigliare al dio egizio Anubi. Il colore del pelo è definito fulvo, però io ricordo certi esemplari di colore più chiaro, quasi senape. Portato per la caccia, accompagnava sempre i cacciatori della zona, che ancora negli anni del dopoguerra, direi fino a metà dei Sessanta, si aggiravano nei paesi in abbigliamento venatorio – cartuccera a mo’ di cintura o a tracolla e doppietta sulla spalla – anche quando non erano in procinto d’impegnarsi in battute di caccia al coniglio selvatico. Al tempo, il cirneco benché oggetto di una rivalutazione da parte di appassionati estimatori fin dal 1932, era poco considerato, poi se ne riconobbero l’eleganza, l’intelligenza e la nobiltà delle origini della razza, tanto da essere ritenuta la più antica tra le sedici riconosciute in Italia.

 

Nota 3

Per le Amiche Lettrici e gli Amici Lettori in vena di approfondimenti, una breve bibliografia delle opere che ho consultato trovandovi qualche spunto di cui tener conto:

Alajmo, Roberto, Abbecedario siciliano, Sellerio editore (Il divano 339), Palermo 2023 (€ 14,00).

Battaglia, Carlo Felice, Dee! Demoni! Dei! In Sicilia. Periplo umoristico, Azione Letteraria Italiana, Roma 1943-XXI (L. 20).

Bufalino, Gesualdo, Il tempo in posa, Sellerio editore (La memoria illustrata 4), Palermo 1992, 2000 (L.25.000).

Correnti, Nino & Francesco, I problemi della tutela e valorizzazione del patrimonio naturalistico e culturale del Mongibello e dei paesi etnei. Proposta per l’istituzione del Parco Nazionale dell’Etna, in “Il Tempo”, anno XXV, nn. 66 – 73 – 80 – 88 – 95 – 103 – 109 – 118, marzo-aprile 1968.

Cutore, Francesco, Ricordi di un’antica gioventù, Francesco Cutore, Catania (€ 15,00).

Giordani, Sergio – Locatelli, Luigi, L’uomo e la magia, Società Editrice Internazionale (I fatti e la vita), Torino 1974 (L. 3.000).

Grasso, Mario, Lingua delle madri. Voce e pensiero dei siciliani nel tempo, Prova d’Autore (Metòpe 6), Catania 1994 (L. 15.000).

L’Italia fisica, Touring Club Italiano (Conosci l’Italia, Volume I), Milano 1957 (s.i.p.).

Pitré, Giuseppe (a cura di Giuseppe Lisi), Usi e costumi del popolo siciliano (1889), Cappelli (Universale Cappelli 61), Bologna 1961 (L. 350).

Pitré, Giuseppe (Introduzione di Alberto Vàrvaro), Grammatica siciliana (1875), Sellerio editore (Prisma), Palermo 1979 (L. 2.500).

Pratesi, Fulco e Tassi, Franco (con la collaborazione del WWF), Guida alla natura della Sicilia, Arnoòdo Mondadori Editore, (L. 7.000).

Sabattini, Gino, Quello che dice la mano, Giuseppe Oberosler editore, Milano 1927 (L. 18 legato).

Sciascia, Leonardo, Gli zii di Sicilia, Adelphi Edizioni (Fabula 60), Milano 1992 (L.22.000).

Traina, Antonino, Nuovo vocabolario siciliano-italiano, Giuseppe Pedone Lauriel, editore, Palermo 1868 (s.i.p.).

Van Damme, Eliane, Rhapsodie sicilienne (Couverture et Illustrations de Germaine Hagemans), L’Eglantine, Paris-Bruxelles 1933 (s.i.p.).

FRANCESCO CORRENTI                                                                                     (1 – segue alla prossima puntata)

https://spazioliberoblog.com/

SPAZIO CLICK