RUBRICA “BENI COMUNI”, 67. APPREZZABILI EQUILIBRI…
a cura di FRANCESCO CORRENTI ♦
Ho accennato, nella puntata precedente, al nostro rapido viaggio «con tappa a Matera ed ai suoi Sassi, all’epoca apprezzati da pochi», con la «doverosa visita al villaggio della Martella progettato dal mio relatore alla tesi prof. Ludovico Quaroni». Conoscevo già Matera, grazie ad una vacanza itinerante d’una decina di anni prima, compiuta con i miei genitori, in cui avevamo toccato i più noti luoghi d’interesse storico-artistico sia della Puglia sia della Basilicata e della Calabria: Barletta, Trani, Andria, Castel del Monte, Bari, Brindisi, Lecce, Taranto, Martina Franca, Locorotondo, Alberobello, Castellana Grotte e così via… A Castellana avevamo avuto il cordiale incontro con il professor Franco Anelli, scopritore e direttore di quel grande sito speleologico, che mio padre aveva conosciuto come direttore delle Grotte di Postumia (poi passate alla Slovenia) e che mi fece dono – appreso il mio interesse per le scienze naturali e l’archeologia – di molte sue pubblicazioni, scrivendo poi una simpatica lettera di presentazione al professor Antonio Radmilli, paleontologo della Sapienza e peraltro amico di mio zio antropologo nella stessa università.
Ne scaturirono molte mie nuove visite al Museo Preistorico ed Etnografico Luigi Pigorini – già frequentato intensamente dagli anni delle medie – ed una lettera di invito (24 luglio 1956) del professor Radmilli «ad andare ad aiutarlo» nella campagna di scavi appena iniziata ad Avezzano, che sarebbe durata fino all’8 agosto. Per un diciassettenne appassionato di cose preistoriche e di antiche civiltà era una soddisfazione immensa e ne parlo, come metto nella prima figura di questa puntata qualche esempio dei miei “scritti e disegni” di quegli anni – una precisazione fatta altre volte – senza alcuna presunzione ed autoreferenzialità. Non ero un bambino prodigio e non ottenevo a scuola risultati straordinari, preferendo alle materie scolastiche, appunto, quelle che mi appassionavano spontaneamente ed in cui mi sentivo più libero e capace, sicuramente anche per l’influenza dei genitori e il tipo di valori che mi avevano indicato. Un callo ben visibile sulla prima falange del dito medio della mano destra, vicino all’unghia, dove appoggiavo le matite, testimoniava la continua attività di disegnare, fin da molto piccolo, riempiendo decine di fogli, ogni giorno, per rappresentare di tutto, famigliari, avvenimenti, fantasie. Disegni elementari, privi di tecnica, senza qualità artistiche sorprendenti, però tanti, con mille soggetti, forse a compensare con una folla di segni, di pupazzi e di paesaggi, i miei pensieri di figlio unico. E tra questi soggetti, copie di illustrazioni da libri che mi affascinavano: animali, piante, vulcani in eruzione (l’Etna era ben presente durante le vacanze estive), uomini preistorici, pellirosse, guerrieri di varie epoche, scene di battaglie. Poi, crescendo, immagini più precise, su argomenti più scientifici, forme di costruzioni antiche – dolmen e menhir, nuraghi, sesi di Pantelleria, tumuli e trulli, templi, castelli – che riproducevo in piccoli plastichetti con le pietre fatte di plastilina e il terreno con le cortecce di sughero del presepio, tutti bene allineati sul ripiano in cristallo della vetrina del mio museo personale, nella mia cameretta, vicino agli scaffali dove avevo i libri di scuola, quelli della Scala d’oro (la collana di classici della UTET) e i dodici volumi dell’Enciclopedia dei Ragazzi Mondadori. Con alcune belle edizioni di opere particolari, avute in dono nelle ricorrenze, come il “Libro-teatro” Hoepli Alì Babà e i 40 Ladroni, la cui prima di copertina si agganciava alla quarta per formare una “giostra” a ventaglio con sei scenografie prospettiche a rilievo, ricche di quinte, dalla caverna dell’«Apriti Sesamo» alle viuzze di Baghdad.

Poi qualche album di francobolli e le guide di entomologia (Coleotteri e Lepidotteri) che ordinavo alle Éditions N. Boubée di Parigi. Ma spesso, presi in prestito dalla biblioteca paterna o dalla libreria di mamma, tenevo pubblicazioni che mi affascinavano e divertivano per le illustrazioni e l’umorismo dei testi. I Quattro Moschettieri e 2 Anni Dopo di Nizza e Morbelli con disegni di Angelo Bioletto (editori, nel 1936 e nel 1937, la Perugina di Perugia e la Buitoni di Sansepolcro) erano tratti dalle trasmissioni radiofoniche di due anni prima, con annesso concorso ed emissione di figurine, tra cui quella rarissima del “Feroce Saladino”. Il Signore di buona famiglia e Cosa dirà la gente, usciti nel 1942 per Mondadori, ognuno con 100 disegni di “Beppo” Novello, mettevano in evidenza gli aspetti ridicoli, le abitudini ipocrite, i piccoli vizi e le debolezze dell’italiano medio: dopo, l’autore conobbe i rigori della ritirata di Russia e della prigionia nei lager nazisti, accentuando l’autoironia; conservo in uno dei due volumi la pagina de “la Repubblica” del 3 febbraio 1988 con l’articolo di Guido Vergani che ne annuncia la morte a 91 anni: «L’umorismo del 900 se ne va».
Un’altra coppia di libri, pubblicati a Torino ad aprile e ad agosto del 1945, raccolgono in forma antologica – e la data è significativa: son caduti i tabù ed è tornata la voglia di sorridere, dopo tante tragedie – circa 250 e circa 300 pagine, uno su Vittorio Emanuele, Il piccolo re, e l’altro su Mussolini, Il Cesare di cartapesta, “nella caricatura mondiale”. Ne è autore Gec, Enrico Gianeri, un antifascista perseguitato e incarcerato, che chiude la sua prefazione scrivendo: «Un nome solo ci affiora alle labbra in questo momento: Büchenwald. Senza Mussolini, non sarebbe stato possibile Büchenwald» e dedica il primo libro «Alla mia piccola Tatao, perché non dimentichi / che migliaia di bambini sono stati massacrati / migliaia di bambini hanno pianto / a causa delle sei guerre del piccolo re» ed il secondo «A Clara, compagna di vita / di carcere / di speranze / di delusioni». Considerazioni, ricordi, speranze e delusioni che ci stiamo portando ancora sulle spalle, immutate nei secoli e nei millenni.
Fatte queste premesse sulle mie predilezioni giovanili, devo ammettere di averle mantenute con assoluta monotonia, facendole diventare il più possibile, oltre che i divertimenti del tempo libero, anche le finalità ed i mezzi delle attività professionali e lavorative. Gli argomenti di questa stessa rubrica, di fatto, riflettono ancora quelle preferenze. Posso quindi passare al tema di questa puntata, ossia un volume che mi è caro, perché riguarda entrambi gli aspetti che ho descritto. Devo aggiungere che si tratta di argomenti dei quali, oltre ai curatori del volume, si sono occupati molti altri “colleghi” architetti, dove le virgolette vogliono esprimere il rispetto e la stima che ho per essi e per l’altissimo valore delle loro idee e delle loro opere, tanto nella teoria delle nostre discipline, quanto nella pratica del fare architettura viva e vera. Ho avuto la fortunata occasione di conoscerli personalmente e di averli in alcuni casi come docenti o comunque come esempi da seguire. In molti casi, sono stato gratificato della loro cordiale amicizia. Per non appesantire eccessivamente la lettura della puntata per gli Amici Lettori di SpazioLiberoBlog, limiterò al minimo le informazioni biografiche e le notazioni specialistiche che sarebbero doverose in uno scritto di carattere tecnico-scientifico.
Il volume “L’architettura per la riqualificazione della città esistente. Il contributo dei Premi Gubbio”, curato da Tommaso Giura Longo e Maurizio Petrangeli ed edito da Gangemi nel 2001, tratta in modo esauriente e piena conoscenza della vicenda del Premio istituito nel 1990 dall’Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici ANCSA, riservato alle amministrazioni che svolgono un’azione significativa nella tutela e nella salvaguardia dei centri urbani di antica formazione in cui si conservino testimonianze culturali di pregio dei secoli passati.

L’ANCSA fu appunto fondata nel 1960 con lo scopo di promuovere iniziative culturali operative a sostegno dell’azione delle amministrazioni pubbliche per la salvaguardia e la riqualificazione delle strutture insediative esistenti. Sono soci dell’associazione Regioni, Province e Comuni italiani, enti pubblici e privati, singoli cultori. Data la mia formazione e la frequentazione assidua di Vittoria Calzolari Ghio, di Mario Ghio e del loro studio, ma anche per l’interesse che nel corso di Ludovico Quaroni e dei suoi assistenti (tra cui Manfredo Tafuri) si aveva per quel settore dell’urbanistica, come pure nel suo studio di cui ero collaboratore come disegnatore dei progetti tunisini, in stretti rapporti con Gabriella Esposito, Roberto Maestro e, tempo dopo, Lucio Barbera, l’attività e le iniziative dell’ANCSA furono oggetto di attenzione e di applicazione operativa. Tanto più, questo, dal momento in cui sono stato incaricato, nel 1969, di organizzare “dal nulla” (anzi, da una situazione definibile “sotto zero”) la Ripartizione Urbanistica del Comune di Civitavecchia. Negli anni precedenti, inoltre, con Paola e con il Gruppo Nuova Città, avevamo formulato alcune ipotesi di approccio sistematico alla progettazione dei nuclei insediativi (“Tubolite/Residenza Strada Rossa Casilina”), all’analisi degli abitati di origine storica e dell’architettura spontanea (San Severino Marche, Architettura dei Paesi Etnei, Massafra, Cerveteri, Civitavecchia/Centro e porto storici, Civitavecchia/Città-giardino Aurelia) ed al riuso a fini socio-culturali o museali di monumenti (Teatri comunali dello Stato Pontificio, Castello dell’Abadia a Vulci).
La nostra fonte di ispirazione erano gli studi tipologici di Gianfranco Caniggia, l’esperienza bolognese di Pier Luigi Cervellati, gli esempi molto avanzati rispetto all’Italia di “villes nouvelles” e “news tows” in Francia e Gran Bretagna, con il loro “arredo urbano” e i loro “parchi pubblici”, ai quali mi sono riferito in diverse relazioni a piani e progetti di quei primi anni a Civitavecchia e, in particolare, nel “Documento di studio sul Settore dei Servizi Urbanistici Comunali per l’adeguamento dell’organizzazione comunale all’accordo A.N.C.I. del 5 marzo 1974” presentato simbolicamente il Primo Maggio 1974. La nostra partecipazione al dibattito per una urbanistica innovativa, per una legislazione finalmente “avanzata” rispetto alla legislazione del 1939 e del 1942, si à svolta nelle serate all’IN/Arch con Bruno Zevi, alle rassegne urbanistiche dell’INU, ai convegni all’Orto Botanico di Roma organizzati da Mario Ghio con la mia assistenza, alla consulenza fornita all’ANCI e alla Lega delle Autonomie e dei Poteri Locali con articoli e commenti sulla legislazione in divenire. Non poteva essene escluso il dibattito su Matera e sui criteri del recupero di quei centri storici che non molto tempo prima erano stati definiti «una vergogna dell’Italia». Qui potrei rifarmi ad un recente post di Angelo Simone Cannatà sul suo profilo Facebook (13 gennaio u.s.), in cui racconta che, nell’apprendere la notizia di una bocciatura scolastica di Mogol (allo stesso modo di altri divenuti poi personaggi famosi, celebri scienziati e simili), ha immediatamente provato un forte senso di risentimento nei confronti della sua vecchia maestra, perché lo ha sempre promosso, impedendogli di assurgere alle vette della gloria e della genialità. Posso dire, infatti, che io e tutto il Gruppo Nuova Città siamo stati letteralmente stroncati da Manfredo Tafuri, assistente del professor Quaroni, all’esame di Composizione architettonica IV, per il nostro progetto, da lui definito «un Bakema». Jacob Berend Bakema detto Jaap (Groningen, 8 marzo 1914 – Rotterdam, 20 febbraio 1981) era un architetto olandese che noi, effettivamente, ritenevamo interessante, anche se i suoi progetti di nuclei abitativi avevano una planivolumetria piuttosto schematica, con corpi di fabbrica lineari posti in parallelo ed a 90 gradi tra loro, con una rigida gerarchia a grappolo nei collegamenti tra la viabilità locale, quella interquartiere e quella cittadina.
In realtà, nulla di molto diverso dal nostro quartiere 167 di “Campo dell’Oro”, di Luigi Piccinato, Renato Amaturo e Nico Di Cagno. Fatto sta che mi sono ritrovato, così, in quell’esame, con un miserabile 21/30, che mi ha abbassato la media piuttosto alta, e con quella “accusa”. E non sono ugualmente divenuto un’archistar!
Per farla breve, i successivi studi di Manfredo Tafuri sui Sassi di Matera – sia pure con la sua particolarissima visione generale dell’architettura – hanno contribuito alla soluzione positiva del problema (con mia sincera soddisfazione), che tuttavia si deve, soprattutto, proprio a Tommaso Giura Longo, che a Matera era nato nel 1932. Laureato in architettura a Roma nel 1959, professore ordinario alla facoltà di Roma Tre e poi a Firenze, Venezia, Palermo, Catania e Roma “La Sapienza” è stato quello a cui la Città dei Sassi deve tutto. La sua biografia lo dimostra: «negli anni ’70, Matera è divisa in due parti: i nuovi borghi nati sotto la legge speciale per il risanamento dei Sassi, che prendono sempre più vita e forma, e i Sassi abbandonati all’incuria. Su questi rioni ci sono due correnti di pensiero: chi vuole farli morire e chi vuole invece farli rivivere. Giura Longo appartiene al secondo filone di pensiero e sarà lui a vincere nel 1971 il concorso internazionale di idee, attraverso cui darà il via alla riqualificazione dei Sassi. La sua forte motivazione è racchiusa tutta nello slogan che egli stesso ha coniato: “Una città viva, abitata ed usata è il miglior museo di se stessa”. Così, spinto da una grande forza di volontà, avvia la sua attività di assistenza al Comune per la riqualificazione, insieme a un team di architetti e con il fratello Raffaele come consulente storico. Prima che i lavori comincino e siano portati a termine passeranno diversi anni ma alla fine quello che conta davvero è che il progetto sia stato concluso dando lustro alla città ricalcandone semplicemente la sua secolare storia».
Una azione non molto diversa da quella che abbiamo tentato, ancora da qualche anno prima, a Civitavecchia. Ho scritto nel documento sull’Accordo A.N.C.I. citato poc’anzi: «Tralasciando ulteriori argomentazioni che potranno essere sviluppate in altra sede, l’esperienza vissuta a Civitavecchia ci porta a concludere che un nuovo modo di amministrare l’urbanistica oggi è possibile solo nella misura in cui gli urbanisti da una parte e i politici dall’altra sapranno rinunciare a posizioni preconcette per “scendere” insieme nella “città umana”. Il politico dovrà comprendere e far comprendere (è il suo ruolo di “delegato”) quei valori, fino ad oggi ignorati, perché siamo abituati, assuefatti a vivere in un “non-ambiente”, quale è la città di oggi; l’urbanista dovrà essere capace di tradurre il “divenire della città” e le istanze della realtà espresse da quel “cliente” che fino ad ora ha interpretato, ma non interpellato, la collettività: il che significa uscire dai propri studi professionali ed entrare negli uffici comunali; da quanti, senza secondi fini, avranno il coraggio, la modestia, la coscienza e la consapevolezza di farlo, dipende oggi in Italia la realizzazione del “diritto alla città” di tutti noi.»A Perugia, nel grande convegno internazionale sul “Rilievo tra storia e scienza” del marzo 1989, ho presentato la relazione “Ricerche sulla storia urbana di Civitavecchia: un metodo di anastilosi grafica dei centri storici scomparsi”, che dava conto dei risultati ottenuti e della nuova pianificazione riguardante il centro storico ed il porto monumentale”, cioè il progetto presentato l’anno successivo al Premio Gubbio 1990.
Gli obiettivi dell’associazione ANCSA sono:
- promuovere studi e ricerche di carattere storico, urbanistico, socio-economico, gestionale e legislativo per la salvaguardia e il risanamento dei centri italiani di antica origine;
- raccogliere e coordinare gli studi e le ricerche compiute dai comuni, dagli enti, da studiosi ed esperti nelle discipline coinvolte;
- promuovere iniziative di diffusione, di informazione e di coinvolgimento degli enti e delle persone interessate all’opera di risanamento e di salvaguardia;
- promuovere interventi da parte dei comuni e cooperare alla loro attuazione prestando consulenza critica e assistenza tecnica sia in fase di progettazione che di realizzazione degli interventi;
- promuovere provvedimenti legislativi e amministrativi per l’attuazione degli interventi di riqualificazione e di salvaguardia;
- promuovere e svolgere ogni altra attività ritenuta attinente ai fini sociali.
Fin dalla sua istituzione l’ANCSA è stata presente nel dibattito culturale, internazionale e nazionale e locale riguardante i centri storici la città esistente, avanzando proposte anche in campo legislazione e legislativo e gestionale, organizzando Convegni, seminari di studio, premi, mostre e ricerche nonché promuovendo incontri con operatori pubblici e privati. Nel 1990 istituito il Premio Gubbio con cadenza triennale riservato alle amministrazioni che svolgono un’azione significativa nella tutela e nella salvaguardia dei centri storico-artistici. La serie dei Premi Gubbio ha inizio appunto con quello del 1990 bandito dell’Associazione e dal Comune di Gubbio. Il premio Gubbio 1990 comprendeva la sola sezione nazionale ed era destinato agli interventi realizzati nel territorio italiano. La Commissione Giudicatrice era formata dal Presidente dell’ANCSA, dal Sindaco di Gubbio, dal Segretario Tecnico e dai componenti del Consiglio Direttivo dell’Associazione che non rappresentavano amministrazioni o enti pubblici. In varie sedute tra giugno e luglio di quell’anno, la Commissione ha preso in esame i ventisei elaborati pervenuti, provvedendo ad una prima selezione sulla base della rispondenza dei progetti al tema del concorso e tenendo conto delle finalità culturali e operative della Associazione.
Sono risultati selezionati gli elaborati inviati da undici enti committenti, ovvero i Comuni di Città di Castello (Perugia), Civitavecchia (Roma), Ferrara, Genova, Lastra a Signa (Firenze), Parma, Porto San Giorgio (Ascoli Piceno), Schio (Vicenza), Siracusa, Trento, Vertemate con Minoprio (Como) e il Delegato CIPE per la Città di Napoli. Considerati gli eccezionali risultati del Programma Straordinario di Edilizia Residenziale realizzato concretamente nel Comune di Napoli dopo il terremoto del 1980, la Commissione ha ritenuto di assegnare a questo progetto la Targa d’onore del Premio Gubbio, corrispondendo l’assegno all’Ufficio Tecnico commissariale diretto dall’architetto Vezio De Lucia. Per analoghi motivi, la Commissione ha poi ritenuto all’unanimità di segnalare con una scheda motivata le qualità e le caratteristiche degli altri progetti selezionati, per dare il giusto conto del notevole grado di dignità progettuale dei progetti comunali meritevoli della segnalazione.
Tra questi, il progetto da me presentato, come ho detto, per il Comune di Civitavecchia, essendo Sindaco Fabrizio Barbaranelli e Assessore all’Urbanistica Ezio Calderai, ha ricevuto la segnalazione con la motivazione che ho piacere di trascrivere qui.
«Comune di Civitavecchia. Studi preliminari per il recupero del centro storico e Piano particolareggiato del porto monumentale. Progettista: arch. Francesco Correnti, Capo settore urbanistico del Comune di Civitavecchia.
«Il Comune di Civitavecchia, nella gestione degli strumenti urbanistici attuativi e nella progettazione di alcune opere pubbliche, può fare ricorso alle preziose acquisizioni, sulla formazione e sulle trasformazioni del tessuto urbano, di uno studio sistematico e approfondito condotto dall’architetto Correnti nel corso di quasi venti anni. Un campione significativo, non solo delle ricerche rigorose e analitiche ma anche delle conseguenti proposte sia di intervento che di raccordo tra le differenti competenze da coinvolgere nell’attuazione, è offerto dagli studi per il Piano particolareggiato del porto monumentale della città. Questo ultimo appare oggi devastato dalla guerra e cancellato in molte sue parti essenziali dalle disorganiche e vistose superfetazioni post-belliche. Gli studi condotti spaziano dalle trasformazioni di scala territoriale e ambientale, legate alla fondazione del porto traianeo e ai suoi successivi ampliamenti, fino alle previsioni di recupero, tanto approfondite da dare definizione anche agli elementi architettonici e costruttivi dello scomparso passato.
«Inserita nel Piano di Recupero del Centro Storico del marzo 1990, l’opera di riqualificazione generale del porto monumentale potrà articolarsi in una successione di fasi precisamente determinate e correlate ai tempi, purtroppo lunghi, di attuazione delle previsioni connesse con le attività del porto.
«Obiettivo finale di tale ardua operazione sembra essere quello di realizzare, alla fine, una vera e propria “restituzione” ambientale, in loco e al vero, delle differenti componenti storiche delle strutture portuali di Civitavecchia. Tale intervento di restituzione intende spingersi fino alla ricostruzione del tessuto edilizio prospiciente il porto, sulla base di documentate ricerche riguardo alla conformazione delle principali quinte architettoniche andate distrutte. Il lavoro condotto dal settore urbanistico del Comune, sotto la guida dell’architetto Francesco Correnti, presenta un apprezzabile equilibrio tra il rigoroso e puntiglioso metodo di indagine e la freschezza delle immagini che suggerisce. Suggestiva è, ad esempio, la proposta ricomposizione della darsena interna, completamente circondata da edifici.»
FRANCESCO CORRENTI

Tommaso Giura Longo ha insegnato a Palermo e mi sembra di ricordare che il corso di composizione verteva proprio su Matera. Quanto al modo di approcciarsi al recupero delle città sono da sempre una sostenitrice, e i miei articoli sul Blog lo dimostrano, di una urbanistica partecipata
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Ciao Francesco, mi permetto di aggiungere, da umile profana, alcune considerazioni che ho anche esplicitato durante il lavoro di programmazione del Partito Democratico al quale sono stata invitata a partecipare riguardo l’urbanistica.
Il diritto ad una qualità della vita e un diritto allo spazio comune e un diritto alla città come un bene.
La città è umana, perchè è un bene comune, sancisce cioè dei diritti.
1) il diritto al luogo: scegliere il luogo dove vivere
2) il diritto allo spazio pubblico: anche alla monumentalità vivere in un luogo inconoscibile e dire con orgoglio dove si vive
3) il diritto alla bellezza: che non abdichi alla funzionalità
4) Il diritto all’identità collettiva: dentro la città quindi alla coesione socioculturale della comunità all’interno della città e attraverso gli spazi comuni della città
5) il diritto alla città: anche come rifugio dove anche coloro i quali vengono ad abitare in questa città la trovi in una città accogliente.
Settant’anni fa Lefebrve diceva “la rivoluzione della nostra epoca sarà urbana o non sarà”: le nostre relazioni, la nostra vita quotidiana, la nostra mobilità urbana, la nostra capacità di incontro, la nostra capacità di rivendicare l’incontro nello spazio pubblico è ormai strettamente collegata al tessuto urbanistico inteso in senso stretto. La conformazione della città è strettamente correlata alla sua capacità di connettersi alla sua capacità di accogliere. La crisi dello spazio pubblico è parte, se non concausa, della partecipazione pubblica. Da questo punto di vista quindi nel nostro territorio è evidente la mancanza di una reale pianificazione urbanistica attenta al consumo del territorio al consumo del suolo, alla viabilità, alla fruizione dei servizi e la qualità della vita. Una città è funzionale quando è una città bella in cui si vive bene, in cui gli abitanti riescono a vivere a muoversi e a lavorare in maniera sostenibile. E’ una città sicura: la città sicura è la città in cui c’è giustizia sociale non è la città dove dove vengono armati gli agenti di polizia locale o la città in cui il sindaco caccia da una panchina un senzatetto.
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Con Rosamaria, qui nel Blog, ci siamo ritrovati più volte a condividere posizioni che sono forse apparse eccessive ed in contrasto con la stessa natura e gli scopi del “luogo aperto in cui confrontare le idee”. Questo, per esserci sentiti d’accordo nel ritenere improprio certo modo di operare nella città di tutti, proprio da parte di chi aveva precisi doveri, e che invece rappresentava una concezione decisamente antiquata, cioè quella di manipolare platealmente le regole, in contrasto con interessi generali della città sanciti da leggi, per poterne disporre a proprio piacimento e interesse.
Del resto, questo non ha impedito in precedenza la dialettica tra persone e anche tra colleghi di professione che rivestivano ruoli diversi (la prima illustrazione mostra uno di quei momenti di confronto), perché sicuramente necessaria, se ci vuole assicurare una vera ed effettiva pluralità di pensiero che si manifesta nelle forme rappresentative della democrazia come noi la concepiamo.
Il principio di sussidiarietà, più volte riaffermato nei programmi urbanistici del comune che ho avuto l’incarico di redigere e ancor più in quelli “di sviluppo sostenibile del territorio della Tuscia”, ossia del centinaio di comuni in quattro province di tre regioni, che è stato alla base di una convivenza e di una cooperazione ultra ventennale. Pur essendo enti pubblici tra loro piuttosto diversi per molteplici fattori e tuttavia uniti nel raggiungere un risultato comune di miglioramento e di sviluppo socio-economico, ambientale e culturale, attraverso innumerevoli risultati conseguiti localmente.
A Valentina, nel ringraziarla per il quadro coerente che dà di quelli che sono i diritti dei cittadini, che saranno esplicitati nella programmazione del Partito Democratico (per la quale avevo predisposto alcuni punti che avrei suggerito se consultato, senza presunzione ma solo come base di discussione), voglio esprimere qualche mia considerazione. In primo luogo la prego di non definirsi “umile profana” nell’esprimersi in una materia che è la sostanza stessa della cittadinanza. La sostanza, oltretutto, di quel principio di sussidiarietà di cui ho parlato nella risposta a Rosamaria.
Valentina lamenta una crisi dello spazio pubblico della nostra città, una crisi della partecipazione pubblica e quindi in sostanza la mancanza di una reale pianificazione urbanistica attenta al consumo del territorio e del suolo, all’efficienza della viabilità, alla fruizione dei servizi e alla qualità della vita.
Anche in questo caso ritorna il discorso della manipolazione avvenuta di regole e di piani. Certamente dovuta ad amministrazioni disattente o consapevolmente contrarie all’osservanza di quelle regole e di quei piani. Ma ciò non toglie che quelle regole e quei piani siano stati studiati e adottati dal Consiglio comunale, in piena legittimità e con riconoscimenti molto autorevoli. Per cui io vorrei dare a Valentina quest’altro suggerimento: data la sua giovane età, con gli altri giovani che sono il presente e il futuro della Città, di farsi promotrice e promotori di una iniziativa, quella di andare a rivedere quelle vecchie cose di un’epoca dimenticata, rapportandosi finché è possibile con quanti possano spiegarne l’origine ed il contesto storico. Perché non ha senso ricominciare ogni volta da capo, senza tener conto di quello che c’è stato in precedenza. Per questo insisto a riproporre in questa rubrica dei Beni Comuni anche quelle vecchie vicende e quelle vecchie formulazioni o elaborazioni urbanistiche che sono state ritenute, all’epoca, degne di attenzione, dando luogo a buone pratiche, buoni risultati, esempi positivi di buon governo. E che, a mio parere, andrebbero conosciute da chi non ha avuto modo di conoscerle, per essere confrontate in qualche giornata di studio, in qualche seminario, in una di quelle riunioni “Punti di fuga” che avevano proprio lo scopo di proseguire un discorso iniziato secoli fa, proseguito nel tempo con coerenza, allo stesso modo con cui sono stati ripresi i progetti validi e le buone idee precedenti, analizzandone le conseguenze, proprio utilizzando quanto ancora c’è di valido e di attuale ed evitando di ripetere quelli che sono stati clamorosi errori oppure – e ne abbiamo avute fin troppe – occasioni mancate.
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Questa volta il meccanismo del blog ha preso di contropiede anche me. Poco male. Mi firmo qui
Francesco Correnti
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