La guerra vista in presa diretta. Intervista al Generale Daniele Di Giulio

di PATRIZIO PAOLINELLI ♦

Dopo essere uscita distrutta dal Secondo conflitto mondiale l’Europa ha conosciuto quasi ottanta anni di pace relativa. Non si può parlare di pace assoluta perché anche il Vecchio continente è stato pienamente investito dalla Guerra fredda. Ma da noi non ha provocato milioni di morti come è invece avvenuto in Asia, Africa e America Latina. Tuttavia, la pace relativa, o meglio la Pax Americana che ha regnato in Europa dal 1945 fino all’altro ieri è stata interrotta dal conflitto russo-ucraino iniziato di fatto nel 2014, all’indomani del colpo di stato di Maidan, e trasformato in scontro aperto nel febbraio del 2022. A questo conflitto si aggiunge la ripresa di quello israelo-palestinese a ottobre di quest’anno. Insomma, la ricca e sonnacchiosa Europa sente sempre più avvicinarsi i venti di guerra. Al di là delle implicazioni politiche abbiamo cercato di capire cos’è una guerra guerreggiata attraverso la testimonianza di chi è stato al fronte. Abbiamo perciò intervistato il Generale di Brigata Daniele Di Giulio, oggi in pensione. Classe 1960, Di Giulio è stato un ufficiale in missione in Iraq tra il 2006 e il 2007 e in Afghanistan nel 2014. Ha visto morire tante persone, soldati e civili, e ha rischiato la vita. Con lui abbiamo parlato soprattutto di come le guerre vengono narrate al grande pubblico e della sua esperienza di occidentale catapultato in Paesi così differenti dai nostri per cultura, religione, sistema economico.

Si sente spesso dire che durante una guerra la prima vittima è la verità. In base alla sua esperienza sul campo conferma o smentisce questa affermazione?

Determinate notizie a conoscenza di noi militari e determinati fatti che si verificavano durante l’attività operativa all’estero non venivano resi noti al grande pubblico. Le faccio due esempi. Primo esempio. A Baghdad un kamikaze con un camion-bomba doveva attaccare la base dove operavo io. All’ultimo momento si rese conto che non sarebbe riuscito ad entrare. Allora dirottò verso un mercato e ci furono 150 morti. Siccome tra quei morti non c’erano occidentali il fatto non si trasformò in notizia e nei Paesi dell’Alleanza non si seppe niente. Secondo esempio. Sentivo spesso dire che i soldati dell’esercito afghano non combattevano contro i talebani. Ma le posso assicurare che non era così. Nel periodo in cui ero in Afghanistan non passava giorno che non registrassimo tra i dieci e i venti soldati afghani uccisi negli scontri con i talebani. Ma, che io sappia, in Italia questa notizia non è mai uscita e comunque si è sempre pensato che a combattere fossero solo i soldati della Nato.

Come spiega questa trascuratezza dei giornalisti presenti sui teatri di guerra?

È semplice: non erano presenti sui teatri di guerra. Guardi, io riporto la mia esperienza personale e non ho pretese di generalizzare quello che dico. Però, per quel che mi riguarda, non ho visto giornalisti uscire dalla green zone o dalle aree superprotette di Bagdad. Tant’è che prendevano cantonate persino su questioni minime. Non le faccio nomi, ma nel febbraio del 2007 un noto corrispondente all’estero di un importante giornale italiano in occasione di una gara podistica che si teneva all’interno di una base militare a Bagdad scambiò il personale della Nato per quello dell’ONU, che a quell’evento non era presente. Ma la notizia arrivò così deformata in Italia. Si tratta di un episodio banale. Ma se lo si unisce a tutto il resto dà molto da pensare.

 Lo storico Marc Bloch scrisse che le false notizie in circolazione durante una guerra sono un fatto complesso che non riguarda solo la propaganda bellica. Per esempio, i reporter di guerra possono raccogliere testimonianze fondate su percezioni sbagliate e divulgarle in buona fede. A lei è capitato un caso del genere? 

È complicato rispondere a questa domanda perché nel corso di una guerra gli eventi possono essere tanti e molto differenti tra loro. Per esempio, nel caso di un attentato il fattore sorpresa è decisivo. Perciò il reporter non può essere presente se non per puro caso e dunque giunge dopo sul luogo dell’evento. Sta alla sua competenza professionale giudicare se quanto dicono i testimoni è vero o meno, sia che si sbaglino sia per cattiva fede. Ma se prendiamo un’altra situazione, ovvero una situazione di combattimento, il reporter deve essere presente durante lo svolgimento dell’azione. Non può giungere sul luogo dopo gli avvenimenti perché gli può essere raccontata qualsiasi cosa. Per avere informazioni certe il giornalista deve stare attaccato alle costole di chi combatte. Altrimenti se qualcuno vuole travisare i fatti può farlo, e far credere che sia accaduta una cosa anziché un’altra.  Ora, lei comprenderà che per tanti motivi non posso riportarle dei casi precisi, però posso dirle che queste situazioni purtroppo capitano e non sono infrequenti. Dunque è vero: le testimonianze di un evento bellico sono fatti complessi. Bisogna però anche aggiungere che purtroppo alcuni giornalisti non si muovono dagli accampamenti, ascoltano le notizie da Al Jazeera, le riscrivono e poi mandano l’articolo in Italia o in un altro Paese a seconda della nazionalità.

Gli strateghi militari della Nato chiamarono la guerra in Afghanistan “Libertà duratura”. L’invasione dell’Iraq invece venne battezzata “Libertà irachena”. E in entrambi i casi l’Alleanza atlantica si fece carico di ”esportare la democrazia”. Quanto funziona questo linguaggio? 

Se pensiamo all’Afghanistan, e in buona misura anche all’Iraq, non funziona per niente. In quelle nazioni persistono tabù culturali che sono praticamente impossibili da sradicare. La libertà è ad appannaggio degli uomini e le donne sono sottoposte a un pesante patriarcato. Afghani e irakeni potevano accettare di parlare di democrazia e libertà perché, insieme ai soldati della Nato arrivano molti soldi dal governo degli Stati Uniti e dalle organizzazioni non governative. Ma si trattava di opportunismo e al di là delle parole la realtà era un’altra. Alle soldatesse afghane non arrivava il materiale perché l’esercito afghano in cuor suo non ammetteva la presenza di donne-soldato. Io in Afghanistan ho collaborato alla gestione di alcuni ospedali e le donne, ferite in combattimento o semplicemente malate, non venivano curate se non c’era personale medico femminile o se non era presente il marito. Alcune di queste donne le ho viste morire. Ricordo anche un’altra donna che ogni giorno mendicava davanti a una base americana di Kabul perché le era morto il marito e lei si era rifiutata di sposare il cognato. Perciò era ridotta alla fame. Dinanzi a situazioni come queste uno si chiede: che libertà abbiamo portato?

Il conflitto russo-ucraino e quello palestinese fanno sentire agli europei l’avvicinarsi dei tamburi di guerra. Lei che la guerra l’ha vista da vicino cosa ha da dire a chi ritiene possibile l’estensione di questi due conflitti e il coinvolgimento diretto delle nazioni europee? 

Credo che tutti gli attori in campo siano perfettamente consapevoli di cosa potrebbe accadere se il conflitto russo-ucraino dovesse allargarsi. Quindi gli Stati Uniti, la Cina e la Russia cercheranno un accordo. È inevitabile perché tutti possiedono la bomba atomica.  Dunque, vige il principio di deterrenza: io non ti attacco perché tu puoi fare altrettanto e ci distruggeremmo a vicenda. La deterrenza è un principio che se vede coinvolte, anche indirettamente, le grandi potenze nucleari in conflitti locali permette prima poi di trovare una soluzione.

“Guerra senza limiti” è il titolo di un libro scritto da due colonnelli dell’aviazione militare cinese, Qiao Liang e Wang Xiangsui, diventato un classico. In tale libro si ipotizza che le guerre non sono più solo tra eserciti ma tra società. Perciò esiste una lunga fila di “soldati non combattenti” (così sono definiti) che lavorano nel mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, della finanza e della tecnologia per sostenere le guerre combattute dal proprio Paese. Ritiene questo quadro realistico?

Sì, nella guerra globale sono tutti un po’ combattenti. Una volta si combatteva nelle trincee, poi si è passati agli aeri, successivamente ai missili e adesso all’informazione. In quest’ultimo campo troviamo specialisti che non sono militari. Le faccio un esempio. L’esercito italiano ha specialisti in operazioni psicologiche. Specialisti che non combattono sul campo ma danno il loro contributo facendo molte cose. Per esempio, in Iraq noi italiani abbiamo costruito un ottimo rapporto con gruppi della popolazione civile che poi ci avrebbero appoggiato nella ricostruzione. Lo stesso vale per l’Afghanistan. Andavamo in villaggi dove non c’era né l’acqua né l’elettricità e cercavamo di risolvere questi problemi per accattivarci le simpatie dei locali. Se si riesce in queste operazioni una parte della società finisce per lavorare per te e crea un movimento interno contrario al nemico che stai combattendo. Tutto questo ovviamente vale nei teatri di guerra. Laddove non c’è scontro diretto, ma una guerra non guerreggiata, le cose sono molto più complicate.

Il grande scrittore francese Louis-Ferdinand Céline combatté nella Prima guerra mondiale rimanendone profondamente sconvolto. Nel suo romanzo più celebre, Viaggio al termine della notte, (dove la notte era appunto la metafora della guerra) scrisse: “La guerra è tutto ciò che non si capisce.” Può commentare questa frase?

Guardi, il soldato spesso non conosce le vere motivazioni di un conflitto. Sa che in quel momento gli è stato ordinato di combattere e allora combatte perché ne va della sua patria e della sua famiglia. Oppure si adegua anche se non capisce. Naturalmente in un esercito c’è anche chi comprende le cause vere di una guerra. Ma che sia d’accordo o meno gli ordini sono ordini e vanno eseguiti. Anche a me è capitato di adeguarmi a ordini che mi erano stati impartiti anche se lì per lì non capivo. Insomma, per farla breve, noi andiamo dove il Parlamento decide di inviarci e rispettiamo il giuramento che come soldati abbiamo fatto. E il nostro primo dovere è l’ubbidienza. Chiaramente senza sconfinare in atti che costituiscano reati militari.

PATRIZIO PAOLINELLI

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