DA GRANDE VOGLIO FARE L’INFLUENCER
di NICOLA R. PORRO ♦
I numeri parlano da soli. Un’antemarcia (absit iniuria verbis) dell’uso politico del web come Giorgia Meloni può vantare un consenso elettorale di sette milioni e trecentomila voti. Un bel bottino, costruito miscelando vecchia politica – più vecchia di così si muore – e uso dei media di ultima generazione. Dopo aver dilagato su Facebook, su Instagram, su Twitter (pardon: su X) e su tutte le possibili piattaforme digitali, la nostra Presidente del Consiglio annuncia adesso solennemente lo sbarco su Threads, ultimo parto della rivoluzione telematica.
Dove però a menare le danze non sono i leader politici, ma i cosiddetti influencer. Professione dal profilo indefinito ma sicuramente resistente al vaccino antinfluenzale o ad altre contromisure. Un super-influencer, ad esempio, è il tycoon multimediale Elon Musk – acclamato ospite alla kermesse meloniana di Atreju – che vanta duecentoventicinque milioni di utenti giornalieri sulla piattaforma X.

Anche in Italia però non si scherza. Nel nostro piccolo, per dire, Chiara Ferragni vanta poco meno di trenta milioni di follower certificati. Questa regina del clic e il suo compagno Fedez, due giovanotti impegnati a tempo pieno a twittare banalità, guadagnano forse in un giorno quanto in un mese il Presidente della Corte Costituzionale. Sembra sia l’effetto di una popolarità prodottasi per partenogenesi, in assenza di genitori accertabili. Di portata paragonabile, tuttavia, a quella di cui godono gli altri profeti della rivoluzione digitale, a qualunque latitudine bivacchino. Musk, un sudafricano con cittadinanza canadese e residenza negli Usa, icona esemplare del cosmopolitismo neocapitalista, è stato acclamato come un novello profeta dai seguaci ultranazionalisti della Sorella d’Italia. Di certo l’incursione ha ringalluzzito la povera Giorgia, alle prese col Mes, con i ricatti di Salvini, con la diserzione di Elly Schlein. Però è in circostanze simili che si vedono i veri leader, quando devi gettare il cuore oltre l’ostacolo. Di qui l’attacco alla coppia Ferragnez, accusata di trafficare in pandoro: polemica di alto profilo che non sarà sfuggita alle cancellerie europee e che potrebbe allarmare i mercati.
Antonio Polito, sul Corriere della sera del 24 dicembre, ha preferito rinunciare all’ironia prendendo spunto dalla tragicommedia del pandoro per sollevare qualche domanda tutt’altro che banale. Si è chiesto, molto seriamente, cosa stia accadendo in quella sfera pubblica che Jürgen Habermas aveva definito come il luogo naturale e obbligato in cui possono incontrarsi società civile e sistema politico. Questione che probabilmente suonerà noiosa alle orecchie di molti follower dei Ferragnez, più interessati alle prestazioni di Sfera Ebbastache ai destini della sfera pubblica.
Il fatto è che in Italia, e non solo, la democrazia rappresentativa sta conoscendo un’involuzione silenziosa ma costante. Gli stessi Parlamenti, preposti in ogni democrazia al confronto delle idee, vedono la propria funzione erosa non da dichiarate minacce autoritarie ma da una sotterranea cessione di autorità. Minaccia tanto più insidiosa perché non proviene da avversari più capaci, più spregiudicati o più intraprendenti. Non si tratta, infatti, di competere con riconosciute e riconoscibili controparti politiche. Quello cui stiamo assistendo e subendo è il golpe incruento e silenzioso – ma dalle ricadute politiche micidiali – che ha consegnato al web l’egemonia nella cultura di massa e nell’opinione pubblica. La subcultura dei social, che ne rappresenta la gemmazione più importante, conferisce legittimazione a poteri opachi, privi di qualunque responsabilità e talvolta neppure identificabili. Poteri, insomma, che possono essere definiti alla lettera irresponsabili, essendo sottratti (giudizio elettorale compreso) alle regole e ai controlli ideati per difendere la democrazia, quasi questa appartenesse a un altro tempo e un altro pianeta. Strumenti, dunque, infinitamente più subdoli e più pervasivi delle forme tradizionali di controllo sociale. Capaci di trasmetterci un’illusione di onnipotenza che fa in realtà di noi degli imbelli “sovrani in catene”. Liberi da ogni vincolo ed esonerati da ogni responsabilità, i sedicenti influencer possono condizionare e distorcere le decisioni cui sono chiamati tanto l’opinione pubblica quanto le stesse istituzioni. Né c’è alle viste un Marx redivivo, pronto ad aggiornare la teoria della falsa coscienza al formato della postmodernità digitale. Lo stesso immaginario politico deperisce, divenendo ogni giorno più povero ed incline all’invettiva più che al confronto. Gli influencer rappresentano insomma l’avamposto, la punta visibile dell’iceberg di una falsa rivoluzione (una rivoluzione regressiva) dagli esiti potenzialmente devastanti. Come ogni rivoluzione ha i suoi leader, i suoi profeti., le sue figure simbolo. Fra questi figura il trapper Baby Gang, (alias di Zaccaria Mohuib), condannato a cinque anni e due mesi per una rissa in cui furono gambizzati e rapinati due ragazzi di origine senegalese. Un autentico leader è anche il già ricordato Fedez, compagno di vita e di affari della prima richiamata Chiara Ferragni, in costante ricerca di qualche tribuna da cui declamare qualche estemporaneo proclama politico.
Cedendo allo sconforto, rischio di trascurare l’altra faccia della Luna e faccio ammenda. Esistono infatti, fortunatamente, anche influencer dediti ad attività realmente meritorie. Penso alle organizzazioni non governative (Ong) che in alcuni Paesi, come la Germania, sono già considerate operatori a pieno titolo dello Stato. Anche in Italia operano organizzazioni non lucrative in prima linea contro le politiche migratorie del governo e perciò da questo attentamente vigilati. A “produrre opinione” e quindi a influenzare – non sono d’altronde soltanto i media sopravvissuti al terremoto digitale ma anche tutta la gamma dei new media che di quel terremoto rappresentano la filiazione virtuosa. Milita, ad esempio, nelle fila degli influencer proprio quella Selvaggia Lucarelli che, ricorrendo alla tradizionale carta stampata, ha denunciato e portato alla luce la singolare attività di beneficenza attivata dal sistema Ferragnez. Anche i più tradizionali poteri democratici, d’altronde, devono di necessità vestire i panni degli influencer, sottoposti come sono ogni giorno al tribunale dei sondaggi e perciò incessantemente costretti a inseguire il consenso obbedendo alle regole del web e mutuandone (non sempre con efficacia) i linguaggi. Un panorama che è radicalmente mutato nell’arco di pochi decenni. Da quando, cioè, il monopolio esercitato da Berlusconi sull’emittenza televisiva aveva colonizzato i gangli vitali della comunicazione di massa. Un assalto alla democrazia senza precedenti al mondo che fu spacciato per «democrazia del pubblico».

L’offerta politica si consumava in una sola arena, formalmente pubblica ma privatisticamente gestita. A presidiarla un tycoon brianzolo che in pochi decenni avrebbe sfidato la rappresentazione weberiana del capitalismo, ridicolizzato l’etica calvinistica e dato vita alla figura inedita dell’imprenditore-imbonitore. I meno giovani ricordano le sue improvvise comparsate dagli schermi televisivi per smerciare idee ispirate alle proprie convenienze del momento o per strizzare l’occhio ai target più elettoralmente remunerativi. Una pratica comunicativa ben collaudata, acquisita vendendo sogni in formato Postalmarket e per tutte le taglie. A distanza di qualche decennio è però intellettualmente onesto (e tutto sommato consolante) ricordare come nemmeno quel gaudente totalitarismo mediatico e quell’insidioso tentativo di trasformare la politica in marketing fossero riusciti a colonizzare del tutto l’opinione pubblica. Hanno certamente contribuito a degradarne la qualità ma hanno conosciuto anche pesanti rovesci: due elezioni generali perse malgrado il sistema Berlusconi – caso senza precedenti in una democrazia contemporanea – controllasse insieme emittenza pubblica e privata.
Quell’arena televisiva, trasformata in uno sconfinato stadio virtuale sin dalle fatidiche elezioni presidenziali Usa del 1960 – quando il confronto fra Kennedy e Nixon avrebbe deciso, secondo molti osservatori, l’esito della contesa – non c’è più. Alla cosiddetta sfera pubblica, che faceva capo ala politica, si è sostituito un sistema composito, frammentato in tribù di follower mediatici spesso prive di riconoscibili appartenenze politico-culturali. Agli elettori o ai militanti si sono sostituiti i fan e non è raro imbattersi in follower di leader politici freneticamente attivi su altri circuiti anti-qualcosa, si tratti dei vaccini imposti dalla dittatura sanitaria (campagna che solo in Italia ha avuto a disposizione un quotidiano a tiratura nazionale come La Verità di Maurizio Belpietro) o dell’euro impostoci dalle perfide oligarchie europee. Le più strampalate divagazioni sul tema trovano così calorosa accoglienza: quel che conta è disporre di slogan di pronto impiego da urlare e qualche spauracchio da agitare. Il guaio è che questo stile comunicativo sta contagiando la classe politica. Una personalità del rango di Maurizio Gasparri, capogruppo parlamentare di Forza Italia, che si esprime in aula a microfoni accesi con linguaggio di desolante trivialità, ne ha fornito un esempio. Anche i leader politici, insomma, tendono a riprodurre i codici comunicativi dei peggiori influence. La propaganda prevale su tutto: la classe politica sembra impegnata a rinfacciarsi quasi esclusivamente forme di «pubblicità ingannevole», fra intemerate e appelli ai gran giurì, più che a sostenere le proprie idee. Giocando con le parole si può sostenere che si tratti di una guerra di propaganda che ha per oggetto la propaganda. Nela quale, come in un circolo vizioso, conta solo denunciare le incoerenze dell’avversario rispetto alla propaganda precedente. Esercizio evidentemente remunerativo essendo noi governati da forze che si sono distinte per le più teatrali contestazioni ai governi di cui non facevano parte. Purtroppo non è il trionfo della trasparenza. Non è la «glasnost» negata dai regimi autoritari di ogni colore. Rappresenta solo la logica della sopravvivenza imposta dalla casa di vetro digitale generando l’effetto perverso di consegnare il processo politico alla domanda anziché all’offerta. Il candidato a qualche carica pubblica non ha più bisogno di elaborare ed enunciare soluzioni: basta che sappia intercettare in tempo le richieste più elettoralmente remunerative.

Era questa, d’altronde, l’essenza del tradizionale voto di scambio. Una pratica clientelare rivisitata dal primo Movimento cinquestelle con l’«uno-vale-uno» e il «mandato imperativo» che Grillo pretendeva di inserire in Costituzione. O meglio: di essere argomento di un’inedita Costituzione, essendo il principio del mandato imperativo per definizione incompatibile con qualsiasi democrazia. Invece di mobilitare le masse, l’«autoritarismo populista» preferisce narcotizzare il popolo, coltivarne la diffidenza qualunquistica verso l’impegno politico e la sua obiettiva complessità. I confini della post-democrazia, del resto, sono quanto mai labili e incerti. Dalle lingue classiche abbiamo ereditato Demos e Populus: sono gli etimi tanto di «democrazia» quanto di «populismo» o di «demagogia». Esemplare della declinazione demagogico-populistica è, ad esempio, la convergenza di destra radicale e Movimento cinquestelle nel rifiutarsi di ratificare, all’insegna dell’opportunismo, un Trattato europeo già firmato. Un episodio che abbatte la credibilità dell’Italia e segnala una sospetta convergenza di pezzi di maggioranza e di opposizione. Non si tratta, insomma, dell’esito di un confronto critico bensì, scrive ancora Polito, «di un’ansia da “pubblicità ingannevole” che la politica ha fatto propria, pur rimproverandola alle star del web». Non si potrebbe dir meglio, ma domande inquietanti rimangono inevase: come potrà difendersi la democrazia da questa forma di pubblicità ingannevole, ben più pericolosa di quella commerciale? Dobbiamo rassegnarci a considerare la manipolazione consapevole delle coscienze il fondamento della politica? Ci aspetta una Repubblica governata dal «populus» degli influencer senza il contrappeso del «demos» dei cittadini?
NICOLA R. PORRO

Mi vien da ridere!
Nell’ultimo commento di ieri sera a “Paola de noantri…” di Caterina Valchera, stremata… ho citato(sic) l’ ideologia come falsa coscienza.. tentativo non riuscito, non sono influencer.
"Mi piace""Mi piace"
Innanzitutto trovo la foto dei Cro- Magnon meravigliosa specie se confrontata con quella precedente.
Tutto questo mi fa pensare alla sofistica ateniese ma con una enorme differenza: il relativismo di Protagora e Gorgia era zeppo di cultura ed elitario. Ora è solo becero.
Una democrazia è un metodo valido perchè “migliore di ciò che è peggiore”. Ma funziona solo se esiste un livello soddisfacente di medietà culturale. Quando il “giusto mezzo”è dissolto e la comunità appare sbilanciata verso gli estremi il metodo democratico inizia a vacillare. L’influenzamento potenziato enormemente dalla tecnica ci fa pensare alla logica del “Grande Fratello”. Il classico esempio è l’America con la possibile elezione di Trump grande venditore. L ‘esempio della nostra “influencer” commerciale indica una pericolosa deriva. Può funzionare ancora la democrazia?
"Mi piace""Mi piace"
Che la democrazia funzioni, purtroppo, é più un auspicio che una certezza. Mala tempora currunt… però al pessimismo della ragione continuiamo testardamente a opporre l’ottimismo della volontà.
"Mi piace""Mi piace"
Condivido l’analisi di Nicola, soprattutto la parte c+è riguarda lo spazio di incontro tra politica e società civile ed il ruolo delle/degli influencer. I nuovi strumenti di comunicazione non possono essere ignorati o sperare nella loro scomparsa ma ci si può sforzare di far sì che emergano i loro lati positivi. La scuola dovrebbe attrezzare le nuove generazioni ad un approccio positivo.
"Mi piace""Mi piace"
Questo è il capitalismo e a me scandalizza di più un talentuoso cretino che guadagna centinaia di milioni inseguendo una palla che la Ferragni che nel caso specifico del pandoro era pagata per sostenere con la sua immagine la vendita e permettere l’acquisto di un macchinario per l’Ospedale regolarmente acquistato.io l’anno scorso comprai il pandoro con la convinzione che parte del ricavato andava all’acquisto del prodotto e parte a pagare il cachet della Ferragni; altri invece hanno in questo ravvisato un inganno, ma accreditare la Lucarelli tra le influencer positive assolutamente no
"Mi piace""Mi piace"