Ma quale patriarcato! La violenza di genere è una cosa diversa (e peggiore)
di NICOLA R. PORRO ♦
La piaga della violenza sulle donne, che interessa l’Italia e altri ”civilissimi” Paesi europei ed extraeuropei, è di tale gravità da invocare interventi urgenti più che dispute lessicali. È anche vero, tuttavia, che spesso definizioni improprie rischiano di generare confusione e persino di orientare (o dis-orientare) l’opinione pubblica. Mi riferisco al continuo ricorso, da parte di opinionisti e commentatori, tutti sicuramente animati dalle migliori intenzioni, alla categoria di patriarcato. Si tratta infatti di una formula impropria, che rischia involontariamente di sminuire la gravità del reato confondendolo come il residuo di un passato che non vuole passare e che alberga negli anfratti della memoria collettiva. Perciò bene hanno fatto, per citare solo alcuni fra i nomi di maggior prestigio, storici come Luciano Canfora (intervista a Repubblica del 7 dicembre 2023), sociologi come Franco FerrarottI (La Critica Sociologica n. 229), filosofi come Massimo Cacciari (“Addio famiglia, conta solo l’app”, La Stampa del 23 novembre us), politologi come Alessandro Campi (intervista concessa il 27 novembre us a Huffington Post) e psichiatri come Massimo Ammaniti (“Il patriarcato non c’entra”, in Repubblica del 22 novembre us) a contestare la disinvoltura con cui gran parte dei commentatori ha associato alla categoria di patriarcato la tragica vicenda di cui è stata vittima Giulia Cecchettin. Il maschilismo violento, ci hanno spiegato, non ha niente a che fare con il patriarcato classico. Questo rappresentava un sistema sociale e culturale fortemente gerarchico e intrinsecamente autoritario, fondato su un assoluto predominio maschile. Ne discendeva la subordinazione al capo-patriarca, ma anche quella dovuta al fratello maggiore, al più anziano, al più alto in grado, al più “autorevole” ecc. ecc. Si trattava di un ordine quanto mai rigido, consolidato dalla tradizione e dal diritto consuetudinario, legittimato dal timore dell’anarchia sociale e perciò intrinsecamente e profondamente conservatore. Di quel sistema, che affonda radici nell’antichità classica e che la modernità avrebbe spazzato via via in un arco di tempo sorprendentemente breve, rimane poco o nulla. Né c’è nulla da rimpiangere: ha ispirato semmai gustose rivisitazioni in omaggio alla teoria per cui ogni tragedia finirà prima o poi per ritornarci come parodia.

Un brillante esempio di rivisitazione cinematografica del patriarcato, ad esempio, ce l’ha offerto Paola Cortellesi con il film C’è ancora domani. Una storia ambientata nella Roma popolare di quasi ottant’anni fa e che, già all’epoca, sarebbe stato difficile ambientare a Milano o a Torino. Almeno in Europa occidentale, nel nostro angolo di mondo, quel sistema, infatti, è morto e sepolto da quasi un secolo. Esso era un veicolo di conformismo e un incubatore di nepotismo, alimentava il culto delle gerarchie e il familismo più regressivo, legittimava l’autoritarismo formativo e praticava la censura intellettuale. Di certo, però, non gli apparteneva il ricorso all’omicidio all’interno del gruppo di appartenenza. La famiglia, il gruppo dei pari, ma anche le reti sociali limitrofe (gli amici, i colleghi, i compagni di lavoro) nelle società tradizionali si ribellavano raramente all’ordine patriarcale. E ciò non solo per paura o per conformismo ma perché lo avvertivano (anche e non paradossalmente) come una forma di protezione. I giovani maschi prima o poi sarebbero diventati i patriarchi di domani. E le donne, loro, subivano da millenni… Quel sistema, via via confinato nelle comunità periferiche e nelle società contadine, ha cominciato da noi a disintegrarsi fra le due guerre del Novecento. A seppellirlo senza onori, senza omelie funebri e senza rimpianti sarebbero stati l’industrializzazione, l’istruzione obbligatoria, l’urbanizzazione, il suffragio universale, l’inedita pervasività che avrebbe conquistato il sistema dei media. Le insorgenze studentesche e giovanili fra i Sessanta e i Settanta ne avrebbero spazzato via gli ammuffiti residui. Già nel 1975, quando si consumò il cosiddetto “massacro del Circeo”, fu a tutti chiaro come le vittime fossero state oggetto di una violenza a sfondo chiaramente classista: giovani benestanti che si arrogavano il diritto di disporre con la forza di ragazze di estrazione popolare. Si aprì un processo a quella che fu facile e legittimo etichettare come una manifestazione ripugnante della “violenza di classe”. A nessun commentatore venne però in mente di ricorrere alla categoria di patriarcato, forse temendo che fosse scambiata per un’attenuante generica, come se a delinquere non fosse un giovanotto pervertito dei nostri giorni, ma il millenario patriarca che sonnecchierebbe in lui e in tutti noi.

Argomenti di chi non conosce la criminalità giovanile e confonde il vecchio patriarcato con il maschilismo aggressivo, ben descritto dalla letteratura criminologica e radiografato da dati recenti. Essi descrivono bambinoni viziati, trasformati in despoti familiari da genitori deboli e permissivi. Fotografano giovani maschi figli di padri latitanti ma pronti a rompere il naso al professore che osasse assegnare un’insufficienza all’intoccabile rampollo. Il loro immaginario femminile ha un formato digitale, fatto di solitudine, nostalgie materne e fantasie porno. Premeditare e pianificare l’assassinio della compagna che non corrisponde, o rifiuta di corrispondere, a queste fantasie non riflette per nulla l’antico ordine patriarcale. In esso poteva scappare il ceffone (peraltro quasi sempre diretto ai figli maschi), ma certo non si preordinavano omicidi domestici con la minuziosa preparazione rivelata dal caso di Giulia Cecchettin. Quell’assassinio, come tanti altri che l’hanno preceduto, non è per nulla ascrivibile al patriarcato. È l’espressione di una postmodernità tossica di cui stentiamo a rintracciare e descrivere le coordinate. Le trasformazioni dell’ordine familiare sono state profonde e radicali. Hanno prodotto emancipazione, dato espressione a nuovi diritti, modificato le relazioni fra i sessi e le generazioni. Però capire i cambiamenti può essere faticoso, può incrinare vecchie certezze e minacciare antichi privilegi. Timorosi di guardare in faccia la realtà e di approntare risposte adeguate a cambiamenti rapidi ma profondi, ci rifugiamo nelle formulette passe-partout, come appunto il non meglio precisato patriarcato. Nessuno scandalo, ovviamente, se di un termine improprio viene fatto un uso giornalistico, metaforico e indebitamente estensivo. Attenzione però a non farne una specie di attenuante generica. Il vero patriarcato non ha niente a che fare con i bamboccioni assassini dei nostri giorni. Bisogna individuare i bersagli giusti e non rincorrere slogan fuorvianti se vogliamo aiutare le donne a vincere una battaglia di civiltà che può e deve impegnare anche gli uomini.
NICOLA R. PORRO

Condivido in pieno questa analisi; io il patriarcato non l’ho conosciuto; mia madre con le 4 sorelle e mia nonna,tutte laureate, in quella Sicilia che viene raccontata come arretrata e maschilista, predominavano sui maschi di casa.Come la mia famiglia ne conosco tante altre.Si rischia di quasi costituire un attenuante a crimini che sono il frutto di una educazione sbagliata che rende gli uomini fragili e incapaci di accettate un rifiuto e di chissà quale deformazione dei nostri tempi che andrebbe meglio capita
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Certamente, caro Nicola, il termine risulta improprio. Come risultò improprio allora il termine di Bachofen matriarcato. La storia ha avuto momenti di patriarcato ora superati in Occidente. Lo spazio ha momenti patriarcali nei paesi islamici.
Permane la traccia della “paterlinearità”nella discendenza del cognome ed in altro.
Giusto non nobilitare con termini antropologici la delinquenza e l’efferatezza bestiale.
Tuttavia, a livello archetipale la traccia storica permane. La rimozione di una egemonia antica non è argomento risolvibile con normative immediate. L’esempio che sempre avanzo è il concetto di impurità nel caso della transustansazione. Esempio minimale, settoriale, accidentale? No! E’ indicativo specie se si osserva la causa che lo sostiene.
La nostra società ha fatto passi enormi verso il livello egualitario, permangono lacune importanti. Il termine patriarcato inteso nel suo senso storico è termine ridicolo perchè non appropriato. Le violenze maschili non sono il risultato del sistema sociale bensì sono la reazione “marginale”all’instaurarsi di una società più giusta. Più la società tende alla parità più la reazione sembra prender slancio. Dunque, un sintomo della validità del sistema.
Che fare?
Agire con forza contro il crimine reprimendo ed anticipando. Troppe volte il “guardiano” è stato disattento ed inefficace.
Ammaestrare diffondendo una cultura diversa. Troppe comunicazioni distorte.
Educare i minori inculcando sistemi valoriali .
Un percorso lungo ma essenziale.
Carlo Alberto
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Quindi non sarebbe un problema che riguarda il maschile della nostra società?
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Ridurre il femminicidio all’azione di bamboccio i viziati é secondo me improprio come l’uso del termine patriarcato. Ad uccidere non sono solo od in maggioranza giovani maschi, perdi più viziati dalle famiglie. Sono maschi che considerano la loro donna una proprietà Comunque Nicola, é significativo che a supporto della tua tesi sul patriarcato, citi soltanto intellettuali uomini. Comunque la materia è complessa e trattasi di FEMMINICIDI.
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Nicola, ma questo è un colpaccio prenatalizio, un strenna inaspettata. Forse una tenerezza. Provare a scagionarsi come genere e come generazione in una volta sola! Ora vado a svolgere tutte le azioni che il patriarcato che non esiste mi impone e poi ti rispondo con calma. Grazie!
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Mi confronto volentieri, spero solo di non essere stato frainteso. Anche nozioni come genere e generazione perdono validità esplicativa se non le collochiamo nel tempo storico, nelle sue dinamiche (e anche nelle sue contraddizioni).
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A
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Io penso che il contenuto semantico attuale di patriarcato non contenga più i riferimenti oggettivi di un passato remoto sul piano economico perché inaddattabili alla societa dell’ipercapitalismo, mentre non è stata superata-come tu stesso rilevi- la cultura patriarcale che persevera, affliggendo e deprivando il genere femminile del proprio diritto a totalmente “vindicarsi” sia nel privato che nel pubblico. Un proposito permanente che DEVE sostenere le donne e che appare insostenibile per certi maschi. Anche se a maschi illuminati come te, caro Nicola, sembra uno “sproposito”! Per il resto la tua riflessione mi affascina come sempre insieme alla tua scrittura!!
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Credo che innanzitutto dovremmo fare chiarezza sull’uso del termine patriarcato. Nel lessico e nell’accezione corrente, per patriarcato non si intende l’insieme delle leggi, delle norme, delle tradizioni, soprattutto nell’ambito del diritto familiare per cui si passava dallo Ius paterno a quello del marito. In cui le donne non possedevano beni materiali, non lavoravano, figliavano, mandavano avanti la casa e non amministravano danaro.
Nel significato internazionale attuale non si può parlare di patriarcato senza il suo nesso inestricabile con il corpo delle donne, la necessità di questi sistemi di normarlo. La naturalezza con cui uomini, maschi, cresciuti nella piena libertà di disporre del proprio e di non avere la paura di vederlo violato, vivono indisturbati. Il termine attuale viene usato per definire un sistema di disvalori completo in cui il corpo della donna rimane bersaglio, campo di battaglia, motivo di discriminazione: in ruoli apicali nella politica, nel lavoro, nella gestione del sé.
Le parole sono manifestazione reale di ciò che pensiamo: mettere in discussione la realtà che ci appartiene e guardarla attraverso le lenti della consapevolezza è un punto sostanziale, “perché il modo in cui nominiamo la realtà è anche quello in cui finiamo di abitarla”.
Abbiamo detto che per capire l’accezione contemporanea del patriarcato occorre non scinderla dalla nozione di “genere”. Chi appartiene al genere femminile? solo le donne nate biologicamente tali? o anche chi appartenente alla comunità LGBTQ+A si identifica dentro quei confini di “genere”.
Patriarcato, corpo femminile, genere.
Ancora due riflessioni,.
La prima, Sui fatti del Circeo, sono d’accordo, da femminista intersezionale, che ci sia stata una declinazione anche di classe, ma non possiamo non evidenziare come quei fatti siano stati la pietra miliare del femminismo italiano. Dal famoso “processo per stupro” in poi, quando per la prima volta si è parlato di violenza sessuale in Italia, in un’aula di tribunale, è cambiata l’immagine dei corpi delle donne in Italia. Le arringhe degli avvocati difensori che cercavano di salvare la pelle al giovane virgulto Izzo, parlavano di ragazze che sapevano che andavano a fare festa al Circeo, che sono salite nella macchina, che avrebbero dovuto leggere meglio i cartelli stradali, che si dilungavano su come fossero ste possibili le penetrazioni senza consenso, se avessero o meno provato piacere.
La seconda riflessione è generazionale, sui bamboccioni.
I “bamboccioni” vengono ora chiamati a rispondere di femminicidio, solamente perché schiere di movimenti di donne hanno lottato affinché delitti che prima venivano derubricati a raptus, a follia, a delitti passionali, ora si chiamano con il loro nome, non che prima non ci fossero.
Troppo facile scagionarsi come maschi dalle responsabilità di un intero genere e di una generazione.
Il patriarcato ci attraversa tutti e tutte. E tutti quanti siamo chiamati, costretti, a prendere una posizione. Davanti ad un’ingiustizia che ha alla base una differenza biologico/identitaria che genera una differenza sociale, come mi pongo?
Non posso dire ‘ma io che c’entro?’, perché davanti a un’ingiustizia non esiste neutralità.
O la combatti, oppure la sostieni.
Quando sento uomini parlare di come il patriarcato non esista più, mi verrebbe da chiedergli. “ma scusa sei una donna? Da quale punto vista femminile stai decidendo la mia emancipazione?’.
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Comprendo e rispetto le tue opinioni, ma mi ostino a non condividerle perché corrono il rischio di una rappresentazione impropria e datata della questione. Il patriarcato, come tutte le fenomenologie sociali, non è qualcosa di perenne e immutabile. La sua pericolosità consiste anche nella capacità di mimetizzarsi. La divergenza sta nel fatto elementare che anche il lessico debba adattarsi ai cambiamenti a evitare equivoci e confusioni. Se tutto è patriarcato, da Noé in poi, nulla è più patriarcato. E non capisco le ragioni di quello che può apparire un feticismo della parola, non paradossalmente praticato soprattutto dalle ideologie conservatrici. Non è casuale, del resto, che la levata di scudi contro una formula impropria sia venuta da studiosi di tutti i settori e dei più diversi orientamenti politico-culturali. Non è imponendo un dizionario del politicamente corretto che aiuteremo a sconfiggere un fenomeno vergognoso ma purtroppo ancora diffuso come la violenza contro le donne. I cui dati statistici, per inciso, segnalano una fenomenologia niente affatto costante nel tempo. Perché rinunciare a darne una definizione più aggiornata e precisa proprio per combatterla meglio? Nicola Porro
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Al di là delle ragioni e delle argomentazioni, debbo congratularmi con i protagonisti di questo dibattito profondo, franco, talora aspro, ma sincero e appassionato. Ho ricavato spunti di approfondimento difficili da trovare altrove su una materia così sensibile e suscettibile di essere manipolata. Ancora una volta il blog si manifesta uno strumento di crescita culturale e politica individuale e collettiva da esportare in una società “civile” che civile non è, una società violenta, rancorosa, egotista, di cui il femminicidio è l’espressione drammaticamente esemplare.
Enrico Iengo
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Grazie Enrico
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Caro Nicola, ti ringrazio. Tu Porti saggezza (e verità) laddove c’è solo mainstream e preconcetto.
Mario Michele Pascale
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