RUBRICA “BENI COMUNI”, 65. L’ARCHITETTURA WIENNESE NON È SOLO WAGNERIANA
di FRANCESCO CORRENTI ♦
Ci sono stati alcuni anni in cui le nostre vacanze estive ci hanno visto percorrere in lungo e in largo le strade dell’Austria, con l’aggiunta di qualche sconfinamento nella Baviera, in Alsazia, in Svizzera e nell’Alta Savoia. Seguendo itinerari e programmi studiati precedentemente a tavolino dalla carissima Zia Dina (Fernandina), che i lettori più fedeli certamente rammentano, avendone parlato diverse volte. In genere, le nostre mosse iniziavano il primo di agosto che era il giorno del suo compleanno (nata a Roma nel 1909, era nel periodo dei suoi 80, poi fino al 2006 la vacanza annuale è stata più stanziale) ed andavamo a prelevarla a Castell’Arquato, dove si trovava da alcuni giorni ospite d’una cugina e iniziavamo questo viaggio, ripercorrendo itinerari che aveva compiuto felicemente nel corso di tanti anni di matrimonio con Zio Dino, il fratello minore di mio padre, medico con molte specializzazioni e noto antropologo. Dopo la sua scomparsa nel 1991, la nostra compagnia subentrava ai giorni arquatesi che a loro volta seguivano quelli dell’attività “di servizio” alla mensa degli “Scartati” di don Pietro Sigurani (periodo di via Gallia, prima di Sant’Eustachio), a volte sostituiti da quindici giorni in Tunisia, a Nefta e a Douz, a sostegno delle opere di laggiù, dove una maison de prière (e de dialogue) era appunto intitolata a Zio.
Caratteristica di questi viaggi – affiancati per i dati storico-artistici dai rossi tascabili Baedeker o dalle Guides bleus Hachette, secondo i casi – erano le numerose tappe, la sequenza quotidiana di accurate visite a siti monumentali, con preferenza per i grandi monasteri barocchi dalle imponenti biblioteche, o storici, dal lager di Mauthausen a Salisburgo, con l’obbligo di cenare e pernottare in alberghi di montagna sopra i 2000 metri di quota. Con l’unica eccezione per una sosta a Ulm, dove la recentissima Stadthaus di Richard Meier reclamava perentoriamente il nostro sopralluogo, gli itinerari di zia Dina escludevano in modo tassativo le città che superavano 10.000 abitanti. Per questo, con zia Dina, non siamo mai stati a Vienna, che lei del resto conosceva perfettamente per esserci stata tantissime volte con zio.
I nostri soggiorni a Vienna, quindi, sono stati in altri momenti. Una volta, a lungo, per le feste 2002-2003 con gli amici di molti progetti e di molti viaggi, un’altra volta nel 2010, per assistere nella Sala Dorata del Musikverein (quella della Marcia di Radetzki ritmata dagli applausi a Capodanno) a un bel concerto diretto da un maestro italiano nostro amico e ancora, subito dopo, per un simpatico giro delle capitali mitteleuropee. In tutte queste occasioni, il pellegrinaggio a edifici celebri o la scoperta di opere d’architettura contemporanea sono stati il motivo conduttore. Perché Vienna è una città in cui l’architettura ha sempre avuto un ruolo fondamentale. La Vindobona sede della legione romana era formata dal forte militare e da un abitato civile, con edifici in pietra, mura e porte. Ripetutamente assediata e saccheggiata dai Marcomanni, durante una nuova guerra resa difficile anche dall’infierire della peste, vi morì nel 180 Marco Aurelio, vittima del contagio, mentre contrastava l’insurrezione dei barbari che s’erano spinti fino ad Aquileia e Verona. Abbandonata agli Unni con l’intera regione, riprese la sua crescita in età carolingia come Wenia, ampliandosi con espansioni fortificate concentriche, per poi allungarsi lungo le maggiori direttrici radiali e assumere tra XI e XII secolo una importante funzione di porto fluviale sul Danubio e divenendo capitale nel 1142 del ducato d’Austria, feudo imperiale e via via centro di un potere assai esteso.


Capitale dell’impero austro-ungarico ed oggi della Repubblica Federale Austriaca, riferimento culturale di tante nazionalità che erano contemporaneamente soggette a oppressivi controlli polizieschi ma anche culla di nuove idee nell’arte e nella scienza, di felici esperimenti musicali, di studi e ricerche innovative, Vienna ha sempre rinnovato la propria architettura, curando la sua immagine architettonica con realizzazioni di elevata qualità. Certo, come tante altre città, ha raso al suolo l’intera cerchia difensiva delle mura antiche ma, contrariamente a quanto fatto stupidamente altrove, non ha usato quei suoli per affollare i dintorni con banale edilizia abitativa a vantaggiò della speculazione senza qualità, ma ha utilizzato l’ampio perimetro anulare per un grande viale alberato, la Ringstrasse (1858-65), affiancato dai palazzi monumentali dell’Hofburg (vasto complesso di edifici sede della Presidenza della Repubblica), dell’Opera di Stato, del Parlamento, del Municipio, dell’Università, del Teatro e di tre Musei, con un parco, ampi giardini e spazi viari efficienti e moderni, come la sua rete metropolitana, estesa, perfettamente funzionante, ottimamente arredata.
In questo, Vienna è anche la città dei contrasti e degli accostamenti audaci. A riflettere le decorazioni e le guglie gotiche della cattedrale di Santo Stefano, è sorta sulla stessa piazza una composizione di volumi cilindrici, la Haas-Haus di Hans Hollein del 1985-90. Come dalla periferia dei quartieri meridionali, le superfici levigate e la pianta geometrica dei quadrati e dei triangoli fanno da contraltare all’impianto ellittico, con cappelle, sacrestie e presbiterio ispirati alla Roma del Bernini e del Borromini della Karlskirche dei due Fischer von Erlach (1716-1737), consacrata a San Calo Borromeo, con un’aggiunta fantasiosa che sorprende e diverte. Quasi che entrambe le due colonne imperiali di Roma, la Traiana e l’Antonina, fossero state trasferite lì a fare da immani candelieri ai lati della cupola, a sua volta molto “romanesca” della chiesa. Cupola, ai cui affreschi in restauro, nella nostra visita del 2003, un veloce ascensore portava turisti e cultori d’arte ad ammirar da vicino gli angeli e i santi ad un’altezza di circa trenta metri, più o meno una casa di dieci piani.
Per i Lettori di questa puntata, penso sia giunto il momento delle mie doverose spiegazioni, riguardanti, nell’ordine, la scelta del tema con riferimento alle finalità della rubrica, il significato della copertina e le singole immagini delle due figure o tavole, dando ragione degli accostamenti e del loro intento narrativo, dato che, come ho detto più volte, le metto insieme prima di scrivere il testo, proprio per avere una specie di “scaletta” visuale da seguire, così da non disperdermi o scantonare, dando un filo logico al discorso. Avevo esordito, nella prima puntata della rubrica, due anni fa (14 dicembre 2021), dicendo che volevo dedicarla «a tutte quelle “cose” che appartengono alla comunità, alla generalità dei cittadini, e che devono interessarci proprio per questa loro essenza». Aggiungevo, a scanso di equivoci, che le definizioni di “beni comuni” o di “bene comune” sono innumerevoli, ma qui ci riferiamo al dettato della nostra Legge fondamentale, la Costituzione della Repubblica Italiana. I nostri Beni sono compresi nella materia dell’Articolo 9 della Costituzione, che dichiara: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»
Esprimevo anche alcune esplicitazioni del concetto: «Sono i beni “nostri”, di tutti. Nel senso di “Italia nostra” e non di “cosa nostra”. Di tutti ma non di ciascuno come singolo, privato. Quindi da rispettare perché anche degli altri.» E ancora: i beni comuni sono «a titolarità diffusa», appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere a essi e nessuno può vantare pretese esclusive. Che erano parole di Stefano Rodotà. Ma che io integravo con una mia convinzione di fondo che ha sempre e molto guidato le mie scelte lavorative, di “architetto condotto”, come dicevamo in quegli Anni Sessanta in cui la tendenza era verso una “libera professione” più facile (contrariamente alla credenza diffusa sullo “stipendio fisso e sicuro”) e più appagante, da ogni punto di vista, materiale, economico, sociale e di soddisfazione professionale. Avendo invece ben salda la volontà di svolgere un servizio che, proprio nella sua utilità collettiva e pubblica, trovava ragione di essere e mezzo di crescita culturale. Per finire, concludevo con un preciso indirizzo: «Siamo europei e, quindi, la rubrica – per trarne utili suggerimenti metodologici e per opportuni confronti con la nostra legislazione e le nostre prassi – terrà e darà conto di come il tema è affrontato negli altri Paesi della Comunità, a cominciare dalla Francia, dove l’interesse per il valore patrimoniale dei monumenti, degli oggetti d’arte, dei beni culturali, nato dalla Rivoluzione, ha suscitato nel XIX secolo la creazione d’una amministrazione incaricata di catalogare, proteggere, restaurare e offrire al pubblico un patrimonio divenuto, appunto, bene comune.
Superando la sua dimensione monumentale e artistica, il campo dei «Monumenti storici» si è poi considerevolmente allargato dall’archeologia all’etnologia, dalla fotografia ai luoghi della memoria, fino a comprendere ogni aspetto ed espressione della creatività, ponendo l’accento sulla necessità e sulla difficoltà delle scelte che permettono di conservare e far vivere un’eredità di cui tutti noi siamo responsabili davanti all’avvenire. Cercando, senza presunzione e senza preconcetti, di offrire un contributo alla individuazione di buone strategie e di buone pratiche».
Per una coincidenza che mi sorprende, proprio in questo momento in cui ho terminato di “incollare” il brano qui sopra, mi è giunta dalla Regione Lazio, Direzione Regionale Cultura e Lazio Creativo, Area Informazione, Immagine e Portale della Cultura, la e-mail in cui mi viene comunicato – insieme ad altri 14 “soggetti proponenti” – «che è stato adottato il provvedimento con gli esiti della valutazione della Commissione per il riconoscimento delle Buone Pratiche Culturali (terza edizione, avviso del 2022). Il provvedimento (Determinazione n. G16269 del 4/12/2023) è stato pubblicato sul Bollettino Ufficiale della Regione Lazio n. 98 (ordinario) del 7/12/2023, p. 802 (indice del BURL, riga 51)». L’Allegato A “Elenco delle Buone Pratiche Culturali e delle Buone Pratiche Culturali di eccellenza, edizione 3” riporta appunto che l’Ufficio Consortile Interregionale della Tuscia da me diretto dal 1999 ad oggi, con le circa 200 persone che hanno collaborato con noi e malgrado tutti gli ostacoli e contrattempi che abbiamo avuto, è stato inserito positivamente tra le “Buone Pratiche Culturali” della stessa Regione, per gli ambiti della valorizzazione e della comunicazione. Un riconoscimento che si colloca esattamente nel contesto di quanto ho scritto prima sulla soddisfazione per i risultati positivi raggiunti in molti anni di lavoro, con oltre un centinaio di amministrazioni di varia collocazione politica, numerosissimi soggetti privati e un numero elevatissimo di opere pubbliche per la valorizzazione del patrimonio storico e culturale realizzate.
Venendo alla copertina della puntata, devo precisare che ho voluto subito mettere in evidenza l’affermazione del titolo (dove le W sono una sottolineatura visiva), attraverso un mio schizzo di un ormai celebre edificio residenziale viennese, dall’aspetto tanto insolito e “strano” quanto accattivante e inconfondibile. L’ho disegnato dal vero nella mattinata del 27 luglio 2010, prima di recarmi con gli altri del gruppo, dopo un cambio d’abito in hotel, al Musikverein per il concerto del giovane direttore d’orchestra Alfredo Sorichetti, l’occasione per cui eravamo lì in Austria, al seguito degli amici marchigiani (conterranei del maestro e, alcuni, parenti di mia moglie Paola). Durante il concerto della Bohuslav Martinu Philharmonie Orchestra e l’esecuzione di arie d’opera di Verdi, Puccini e Gershwin, del Triplo Concerto di Beethoven e dell’Oiseau de feu (vers. 1919) di Stravinskij, ho anche disegnato sull’album Moleskine di quell’anno una sintesi a matita dell’evento, prima di unirmi alla standing ovation tributata dal pubblico al maestro. Un album di belle avventure turistiche e altre esperienze, quello, di un periodo vivace, con l’esperienza emozionante di una nascita in famiglia.

L’album, infatti, iniziava con una mia ricostruzione del Palazzo di Asaad Pacha Al-Azem di Damasco (25 maggio 2010) e si sarebbe chiuso con gli appunti presi nella Sala consiliare del Municipio di Fiano Romano (29 luglio 2011) durante una riunione tecnica, accogliendo in mezzo annotazioni e vedute dell’affascinante Aleppo e di altri luoghi poi devastati della Siria, del Seminario di Loppiano “Il Viaggio, il Dialogo, il Frammento” (11 giugno, con Raffa*), della Commissione d’esame per il Master UrbAm alla Sapienza (18-19 giugno) di cui ero docente, della presentazione del terzo volume del Manuale di Urbanistica nel parlamentino del MIT (21 giugno), a seguire, appunto, i giorni viennesi e tante altre cose, come il tour a Bratislava, Hrad Dévin, Buda e Pest, una mia rapida caricatura dell’architetto spagnolo Carlos Ferrater, fattagli controfirmare con l’autografo il 9 settembre all’Acquario Romano e, ancora, l’amico e collega Nicola Afan de Rivera Costaguti nelle sue terre a Roccalvecce, e ritratti in una bislacca cena notturna a Ponticelli (PG), note progettuali, promemoria su mostre al MAXXI (Progettare per non essere progettati, su Argan e Zevi, 28 settembre), premiazioni al Castello Ruspoli di Vignanello, riunioni famigliari, caricature di Karrer, Monardo, Manuela Ricci, Sabino Cassese e mio figlio Antonio in diversi convegni/giornate di studi qua e là, come pure quelle dei “trevignanesi” (tra cui il caro Claudio Bondì – regista del “De reditu – Il ritorno” (Rutilio) – che ci avrebbe lasciato troppo presto) in un dibattito al Cinema Palma (12 dicembre). Il nuovo anno 2011, dopo varie pagine di scrittura fitta e minuta (una conferenza di servizi in Regione e un incontro tra colleghi al Palazzetto dello Sport per ricordare l’opera di Nervi), inizia con il ritratto – il primo di tanti – del mio nipotino Federico e quello della neo-mamma Francesca, appena usciti dalla sala parto nella romanissima Isola Tiberina, in una di quelle giornate in cui senti davvero, e davvero forte, il battito del cuore, il tuo…
Segue, tanto per tornar da basso, una veduta di un’aula del Tribunale di Civitavecchia, con tanto di giudice e cancelliera in attesa dell’udienza (2 marzo); le annotazioni sulla tavola rotonda sul rapporto tra società e trasformazioni urbane in Sala “Pucci” a Civitavecchia, con varie presenze istituzionali e i nomi di amici che oggi piangiamo; altri appunti su un incontro per parlare di edicole sacre o “altarini” di alcuni centri storici. C’è quindi una pagina del mio studio di quel periodo sulla pigna – cono, pina, strobilo femminile – con disegni a inchiostro seppia (pseudoleonardeschi…) di rachidi e squame, schemi di andamento e crescita, caratteristiche geometriche e spirale logaritmica, successione di Fibonacci e sezione aurea, da cui deriverà, dopo la scarpinata alla statua di Vercingetorige ad Alesia con gli amici Gran-Aymerich, il mio articolo del 2011 “Divagando tra pigne ed assedi, Michelangelo e Tschumi” con quella mia “pignoleria” sull’ipotetica ispirazione del pavimento capitolino, pubblicata dapprima sul periodico del mio Ordine (AR 94/03-04.2011) e poi, anni dopo, su questo stesso Blog (SLB 25 luglio 2016).
Il resto, sono schizzi di Tuscania, di Sutri, dell’Eremo agostiniano di Allumiere, una “istantanea” (sempre a matita) d’un’altra conferenza di servizi con tutti i presenti, il sintetico “diario di viaggio” da Roma a Lecce, zeppo di vedutine, piantine e di dettagli – masserie, comignoli, epigrafi di lapidi – con due strane intromissioni ognuna in un cerchietto: il 29 aprile, la figura d’una coppia di sposi, lui in divisa con giubba rossa, e la scritta «Intanto a Westminster» e, il 2 maggio, un ritattino del presidente Obama che annuncia: «Osama Bin Laden DEAD», sotto alla pianta del “Castellum de Monte Gargano” con gli “interventi di Francesco di Giorgio Martini”. Ancora piccoli disegni di chiese, palazzi e schiere di Monte Sant’Angelo, della chiesa di San Pio a San Giovanni Rotondo (architetto Renzo Piano), gli appunti del seminario del 6 maggio a Civitavecchia, Sala Calamatta, sul tema “Paesaggio, tutela e trasformazioni” con molte illustri colleghe dei Beni Culturali (e alcuni colleghi), e qualche altra cosa del mese di luglio. Ma tutto questo, è chiaro, è solo per ritornare ancora col pensiero a quel periodo molto intenso. Di Vienna, di Wien, e della sua architettura parleremo adesso.
Una parentesi: da bambino e ragazzo, ho visto in casa l’elmetto ammaccato da una scheggia di granata e altri cimeli di mio padre, combattente pluridecorato della Grande Guerra, e ne ho ascoltato i racconti in cui mi parlava di quegli anni dal ’15 al ’19, delle trincee del Carso e del Trentino, del Piave, dei soldati bosniaci, di Trento e Trieste, mostrandomi anche le divertenti illustrazioni di Antonio Rubino e di Enrico Sacchetti sulla “Tradotta”. Anzi, ero alle medie, mi portò in un ampio giro di quelle zone, al Castello del Buon Consiglio dell’impiccagione di Cesare Battisti, a San Giusto, sul Grappa e a Redipuglia. A scuola studiavo il Sant’Ambrogio di Giuseppe Giusti e al saggio ginnico urlavamo la Canzone del Piave. Indubbiamente, l’Austria di Cecco Beppe era «il nemico». Quando in casa arrivò la tv, sentivo a ogni Capodanno la Marcia di Radetzky – legata alla sconfitta di Custoza del 1848 – con il piacere della musica allegra, vitale e coinvolgente di Johann Strauss sr. ma anche con quell’antipatia che sentivo espressa nei nostri confronti dagli applausi al Musicverein e ricambiavo cordialmente. Avevo presente un altro cimelio famigliare: la lettera datata 25 giugno 1866, ricevuta dal mio bisnonno Antonino, patriota come il padre Francesco, dal cugino Salvatore Cutore, che era in contatto a Firenze, capitale del Regno, con il governo Ricasoli 2 (in cui l’anno dopo subentrerà come ministro della Pubblica Istruzione Cesare Correnti). La lettera dava il resoconto angosciato della prima sconfitta dell’esercito italiano, avvenuta nuovamente a Custoza il 24, tra Peschiera e Verona. Ma questi sentimenti del periodo molto giovanile sono stati spazzati via dalla conoscenza della cultura e del carattere del Paese acquisita nei viaggi estivi con Zia Dina e dal piacere che, da architetto, ho provato nelle mie esplorazioni storiche e artistiche a Vienna. Ne do testimonianza in questa puntata.
In copertina, dunque, mostro il disegno d’un tratto della facciata su Löwengasse del complesso di 50 appartamenti progettato nel 1983 per la municipalità da Friedensreich Hundertwasser (1928-2000), un artista fuori da ogni schema, e accanto il logo del vicino Kunst Haus Wien, la sua casa d’arte e centro espositivo internazionale. Ho ripetuto nella copertina i colori del logo. Nella foto in alto si vede la mia immagine riflessa sul vetro della grande lente… anche per dire che il “fattore neve” è un elemento – tenuto ben presente dagli architetti viennesi – che concorre in modo sostanziale al fascino delle architetture, mentre la Venere nuda del VER SACRUN (nome della rivista fondata nel gennaio 1898 da Gustav Klimt e Max Kurzweil) suggerisce la potenza espressiva – con una forte componente erotica, trasgressiva e dissacrante della Secessione viennese.
Ho parlato dell’ascensore nella chiesa di San Carlo e già il fatto di questo tempio intitolato a un santo italiano (senza dire di San Francesco d’Assisi o di Sant’Antonio da Padova) fa in qualche modo piacere, come mi ha fatto molto piacere poter salire su quell’ascensore e vedere da molto vicino gli affreschi nella cupola, interloquendo con l’equipe del restauro al lavoro per informazioni e chiarimenti. Il Lettore può vedere nelle immagini in alto della prima tavola, appunto, l’interno della chiesa e anche la sua pianta, più sotto, che ricorda tante nostre chiese a pianta centrale di forma ellittica, con cappelle laterali, presbiterio e coro. L’ho voluta mettere a confronto con la pianta d’un’altra chiesa, assai diversa, quella di Donaucity, 22° distretto di Vienna, costruita nel 2000 e dedicata a “Christus, Hoffnung der Welt” (Cristo Speranza del Mondo), dell’architetto Heinz Tesar (1939-, un coetaneo). La semplicità apparente del quadrato di base e del volume a sua volta squadrato, con la molteplicità di piccoli oblò (in fondo, diversi solo per forma dalle aperture di Ronchamp), mi trova in assoluta sintonia, anche se evito accostamenti a nostri progetti (di Paola e miei), storpiati da realizzazioni infedeli. Aggiungo per inciso che Tesar, in collaborazione con Studiomas Architetti, ha curato due anni fa (2021) a Treviso la magnifica ristrutturazione del Muso Civico Luigi Bailo. Con questo primo esempio, penso di aver mostrato la straordinaria varietà di forme e di “stili” che convive a Vienna, ricca proprio di questi straordinari contrasti.
Nelle altre foto della prima tavola, sono rappresentati gli aspetti di cui ho parlato, la disinvoltura della vicinanza tra superfici e volumetrie tra loro diversissime, la simbiosi tra materiali scabri e ruvidi e altri lucidi e metallici, il ruolo che ha la neve – quando c’è – accostata alle architetture di vari secoli, la funzionalità intelligente ed elegante del Ring, con i suoi ampi spazi e le sue maestose alberature. Anche la “bravura” di trasformare e recuperare – ma nel vero senso delle parole – strutture nate per altre funzioni ad usi diversi, innovativi, spesso stupefacenti. Che da noi son impediti da mentalità, disposizioni e mancanza di fondi. Nella seconda tavola ho tradotto in immagini quella espressione (“un po’ così”) del titolo, con l’affermazione che «l’architettura wiennese non è solo wagneriana». In effetti, con non poca presunzione, mi sono messo “nei panni di Otto Wagner”, veramente. Perché di lui si tratta (architetto e urbanista, 1841-1918) e non del musicista, compositore e saggista Richard (1813-1883). Ho fotomontato la mia faccia sulla sua, in un ritratto di grande eleganza che rende palese la distanza incommensurabile, da ogni punto di vista, tra gli architetti di allora e noi poveri contemporanei (forse, archistar comprese). Bruno Zevi (Storia e controstoria dell’architettura in Italia, Roma 1997, p. 680) ne traccia una sintesi da par suo:
«Il glorioso epilogo dell’Art Nouveau fu scritto, in Austria, dalla Secessione viennese. Sin dal 1894 Otto Wagner aveva esortato ad una svolta linguistica e ne fornì esempi nelle fragranti stazioni della metropolitana e in numerose altre opere tra cui va ricordata, malgrado l’impianto tradizionale, la chiesa di Steinhof. Nel 1897, per iniziativa del pittore Gustav Klimt, un gruppo di artisti si riuni allo scopo di aggiornare la cultura figurativa del paese e metterla al passo dei fiorenti movimenti inglese e belga. Wagner aderì: aveva cinquantasei anni, ma non era fossilizzato, anzi seguiva con trepidazione il germogliare dei suoi allievi migliori: Olbrich trentenne e Hoffman appena ventisettenne. Sul terreno architettonico sono questi i protagonisti della secessione.»
Ritroviamo quella fragranza nella splendente facciata della “Majolikahaus” (1898), ma pure in tutti i progetti di Hundertwasser, tra i quali l’Inceneritore o termovalorizzatore di Spittelau (del 1971, senza dire altro), nel solco di quella tradizione che non teme le tinte forti. Né dimentichiamo Adolf Loos, con la sua architettura lineare ed anche divertente e spiritosa, con la faccia, gli occhietti e la bocca che convivono, appunto, con la varietà infinita di finestre, balconi, travi e le tante belle architetture in cui l’antico si accosta al moderno e il contemporaneo si appoggia sul classico, come la famosa “libellula celeste”, lo studio appoggiato sul tetto di un vecchio edificio della Coop Himmelb(l)au.
Concludo questa carrellata con una foto che svela un fatto, questa voltoa, spiacevole. In una villa anch’essa wagneriana nella periferia della città insieme a una collezione molto hot di sculture, pitture e immagini di ogni genere all’insegna di un erotismo raffinato ma anche esplicito, ho visto nel giardino una pietra che mi ha fatto immediatamente trasalire. Infatti, era di sicura provenienza italica, anzi laziale e precisamente della nostra Tuscia. Con certezza, un contrassegno illegalmente esportato (o trafugato in tempo di guerra) – e tuttavia sappiamo bene che per troppe “cose” del nostro patrimonio non esistono vincoli e tutele – da qualche casa d’uno dei nostri borghi, io credo della provincia di Viterbo. Azzardo, ma la data del 1700, il monogramma (Cristogramma) di appartenenza ad una istituzione cristiana, le lettere CV che non si riferiscono a Civita Vecchia ma è il numero d’ordine, 105, dei beni inventariati e contrassegnati, come appunto nella “Casa di Santa Ferma” in Quarta Strada, mi fanno pensare ad una operazione catastale di una località del Patrimonio in rapporti con la Civitavecchia domenicana, addirittura proprio con il “nostro” padre Giuseppe Fati.
FRANCESCO CORRENTI

Anche io sono andata spesso a Vienna; c’è stato un periodo della mia vita che io chiamo”mitteleuropeo” in cui dell’Austria mi affascinava tutto, con una menzione speciale per Salisburgo; il ricordo più vivido di Vienna è la famosa casa di Adolf Loos che mi lasció piuttosto perplessa; mio marito esclamó: sembra fatta da ……. E qui evito di scrivere il nome del noto geometra civitavecchiese per paura di rappresaglie😂😂😂😂😂😂😂😂😂
"Mi piace""Mi piace"
In quella città, ci sono alcuni esemplari di edilizia dalle geometrie loosiane e una o due – molto datate – sono anche piacevoli, nella loro essenzialità purista. Poi c’è stato un gran fiorire di “villae pulcherrimae” (tutt’altro che traianee) e su questo si potrebbe parlare a lungo. Ma al momento, c’è quasi da rimpiangere le une e le altre, nell’assenza di novità che – certo da lontano – mi sembra di notare. Come pure, a parte noi che ci sentiamo con frequenza (e ne sono grato a te e ai pochi altri), noto un silenzio generale che mi preoccupa. Meno male che almeno Alfiero ha ancora voglia di parlare di progetti. E dire che il recente volume del nostro Ordine per i 50 anni di professione di noi decani (un termine a sua volta preoccupante! che poi per me e Paola gli anni sono 56!) con tante opere di tanti, anche molto illustri, realizzate a Civitavecchia e dintorni, potrebbe essere una bella occasione di una tavola… rotonda o quadrata o come si vuole, con un confronto con i colleghi giovani, se ci sono. Il premio Scalfari è una bellissima cosa, riuscita e molto importante per la cultura, il giornalismo, la poesia, ma il tema “Città” merita attenzione a sua volta. Proverò a organizzare una giornata “Punti di fuga”, ne parliamo e provo a parlarne in giro. Intanto, a te, a Nereo e famiglia tutta, Buone Feste!
"Mi piace""Mi piace"
Grazie Francesco buone feste anche a te e Paola
"Mi piace""Mi piace"