RUBRICA “BENI COMUNI”, 58. LA FORMA CIVITATIS. STUDI PER UN ATLANTE URBANISTICO.
di FRANCESCO CORRENTI ♦
In questa staffetta tra le puntate della rubrica, in cui trasmetto da una all’altra l’illustrazione di alcune fonti delle ricerche svolte sulla storia urbanistica del territorio della Tuscia, con una attenzione particolare a Civita Vecchia (avendo adottato questo nome per rendere esplicito il periodo a cui ci riferiamo), abbiamo iniziato con i documenti esaminati nel 1975, con la guida di padre Giovanni De Mattia, in quello che era allora il nuovo convento “fuori sito” (come fu detto) dei Padri Domenicani. Il Lettore che non fosse a conoscenza dei fatti e volesse comprendere le vicende di quegli anni, può avere un primo ragguaglio dall’articolo “Quell’isolato troppo vicino”, uscito qui su SpazioLiberoBlog il 21 settembre 2018. L’odierna immagine di copertina mostra, visto dal cortile del Palazzo Apostolico – ossia da quella che oggi è la terrazza sopra i resti della Rocca al termine della Calata omonima – proprio quell’isolato, da Porta Livorno sino alla fine del Muraglione Barberini (cioè di Urbano VIII), insomma il “fronte del porto” o se preferite il “Waterfront”, con la lunga cortina seicentesca, che vede al centro la Fontana di Luigi Vanvitelli, figlio dell’artista olandese Caspar van Wittel, in onore di papa Benedetto XIV Lambertini, la “Mostra dell’acqua” del 1743 (ne parlo, con testo e disegni, nell’articolo “Il Vanvitelli e il bazar de’ Turchi schiavi” del 1° luglio 2021).
Si sa che lo stemma papalino, divelto a mazzate e picconate dalla soldataglia francese nel 1796 e recuperato il 15 marzo del 1981 nel laboratorio dei marmisti Romiti, accolto, studiato e coccolato al Casale dell’Urbanistica fino al 2007, pronto per la gloriosa “rentrée”, è stato invece fatto sparire da ignoti mentecatti (insieme al calco in gesso del modello ricostruito, rubato e sparito, quello), ridotto a far da portacicche in terra ai fumatori di Villa Albani, per essere ancora una volta ritrovato e monitorato tra 2009 e 2011 – dopo un’estenuante serie di lettere, segnalazioni, preghiere, solleciti, ultimatum, conclusasi il giorno 22 novembre 2022 con il ricovero temporaneo dal prato al magazzino (trasferimento con mezzo meccanico di 100 metri esatti che ha richiesto una gara di evidenza pubblica per l’affidamento del servizio ed uno sforzo d’impegno e coraggio di una collega funzionaria comunale, P.C., meritevole di lode) – aspetta da allora di tornare con un certo decoro giù alla Calata e non ci riesce, malgrado i progetti approvati, i nulla osta ottenuti e l’entusiasmo ancora recentemente espresso in contemporanea dal Sindaco, dal Presidente* e dalla Presidente**.

E qui mi riallaccio a quanto detto nell’articolo del 2018. Se, nel 1945 e negli anni seguenti, si fossero lasciate le cose come erano, mantenendo l’assetto e l’aspetto formatosi nel corso tanti secoli, anche con le parziali distruzioni belliche da risarcire con intelligenza, naturalmente con i pro e i contro e soprattutto le difficoltà pratiche di un’idea, la città avrebbe avuto un’altra storia. Certamente, non possiamo sapere quali reazioni, all’epoca, avrebbe suscitato una proposta del genere. Lo possiamo immaginare. Ma un vincolo statale sui resti archeologici ed un’opera mirabile – forse troppo, per i tempi – di cristallizzazione dei resti e dei ruderi, di quell’eccezionale stratificazione di città distrutte, anzi della stessa città ripetutamente distrutta, avrebbe potuto portare ad un luogo veramente straordinario. Dal 1939 era in vigore l’ottima legge 1089 per la tutela delle cose di interesse artistico e storico che, insieme alla 1497 dello stesso anno per la tutela delle bellezze paesistiche, segnò una tappa in ogni senso memorabile nella legislazione italiana sia nello specifico settore al quale ciascuna delle due leggi era rivolta (v. qui su SLB la puntata n° 8 del 24 marzo 2022 rubrica).
Indubbiamente, erano necessarie personalità altrettanto straordinarie, almeno un Heinrich Schliemann, capace di sognare – come, per la mitica città di Priamo, i luoghi cantati da Omero – così da noi, le sale traianee descritte da Plinio agli inizi del II secolo e le Chamere imperiali disegnate da Leonardo da Vinci intorno al 1513, mantenendole insieme ai muri diroccati intorno a Camp’Orsino, ai resti imponenti e appena slabbrati delle sei navate berniniane volute da papa Chigi, agli horrea portuali, alle terme severiane e, soprattutto, alla cappella di Santa Ferma, all’elegante prospetto progettato da padre Labat (con le pietre del fontanone bifronte di piazza d’arme, purtroppo a coprire la precedente facciata gotica della chiesa templare) ed al «monumentale storico campanile romanico». Le emergenze, queste ultime, rimaste incredibilmente intatte e mantenutesi in piedi a lungo, a dispetto di tutti, fino ai primi anni Cinquanta. L’importanza eccezionale dei reperti, che avrebbero potuto costituire il “cuore” della città resuscitata, a ridosso del porto ed al centro del nucleo storico, non fu sufficiente ad evitare la soluzione peggiore. Oggi, quei resti sono sepolti negli scantinati dei fabbricati “ricostruiti”, tra plinti in cemento che ne sconvolgono il disegno originario, in completo abbandono e del tutto ignorati dai civitavecchiesi, dai turisti e dai crocieristi che vagano annoiati tra i tristissimi portici.
Infatti, l’aspetto più grave di quegli interventi, oltre all’insensato aumento del numero di piani degli edifici, in deroga allo strumento urbanistico, a soli fini speculativi, è stata la demolizione dei maggiori e più significativi monumenti cittadini, venendo così a compiersi un duplice assurdo storico, con la scomparsa totale dei due simboli più rappresentativi di Civitavecchia, nel disprezzo assoluto degli affetti familiari, dei sentimenti religiosi, dei valori civici, della memoria collettiva e del patrimonio storico-artistico comune. Furono proprio le figure istituzionali – il rappresentante dello Stato con le funzioni del governo comunale ed il presule con l’autorità morale ma senza la pietas della fede, della speranza e della carità – che avrebbero dovuto difendere con ogni mezzo quei valori e quei monumenti, a concertare una brutale operazione economica di compravendita di aree e di permute a tutto svantaggio degli enti pubblici coinvolti o, a dirla giusta, vittime della manovra.
Senza che nessuno, va detto con chiarezza, nessun cittadino, nessun ufficio, nessun’altra istituzione, alzasse la propria voce, prendesse in mano la penna, scendesse in piazza, per impedire in modo serio e concreto lo scempio. Il motivo – la scusa incredibile – con la quale il vescovo giustificò la sua decisione di procedere alla demolizione del complesso di Santa Maria – chiesa e convento, divenuto dopo il 1870 sede del Museo Civico, quindi proprietà comunale – e impose la ricostruzione della chiesa e del convento “fuori sito”, cioè dov’era l’antica Rocca, sorta negli anni intorno al 1000, sede del governo e proprietà demaniale divenuta nel 1930 palazzo municipale, fu che la chiesa e cioè la parrocchia più antica e venerata, era troppo vicina alla cattedrale, la chiesa dei francescani costruita secoli dopo e soggetta alla matrice da sempre. Quell’isolato troppo vicino fu quindi cancellato, come si è detto, con la demolizione dei resti medioevali e dei secoli seguenti e con il tombamento della parte romana, da Traiano a Settimio Severo, poi schiacciata da otto, nove piani di lucrosa edilizia residenziale “vista mare”.
Tornando ai documenti religiosamente presi dall’armadio, poggiati sul tavolo e sfogliati con dita leggere – oggi avremmo avuto ben altri accorgimenti! – insieme a padre Giovanni in quei giorni di aprile del 1975, penso che qualche Lettore abbia notato, nelle copertine e nelle figure delle puntate precedenti (la 56, 57.1 e 57.2), la riproduzione e la trascrizione del frontespizio e di alcune pagine del cabreo “Campione” di padre Giuseppe M. Fazi iniziato nel 1710, nello stato di fatto e nella ricostruzione grafica fatta a mano, con molta cura e altrettanta pazienza, ma anche con curiosità, entusiasmo e passione (lascio la parola “amore” ad altre forme di espressione dei sentimenti).
Nella scarna agenda di quell’anno leggo anche che il 3 aprile mi occupo della riproduzione delle emozionanti, anzi commoventi fotografie, avute sempre da padre Giovanni, degli interni della chiesa di Santa Maria, con gli altari e le cappelle. Tutto materiale, come la trascrizione di brani del manoscritto, subito portato a conoscenza degli studiosi e pubblicato appena possibile, nel 1985, nella prima edizione di “Chome lo papa uole…” e poi, nel 1990, nella mostra “Civitavecchia del Settecento”, con la ricostruzione scenografica al vero della facciata di padre Labat, in quella piazzetta Santa Maria che è una parte del chiostro scomparso, come la chiesa e il convento, sepolto da quei sacrileghi fabbricati costruiti sopra le reliquie del passato di cui ho parlato e, materialmente, sopra gli ossari (svuotati e demoliti) che avevano accolto le spoglie mortali di generazioni di civitavecchiesi.
Tra i tanti incontri e consulti sulla storia locale di quel periodo, oltre alle numerose riunioni con Fabrizio Pirani, presidente della Associazione archeologica Centumcellae, di cui sono socio dai primi giorni della mia assunzione in Comune, ed ai sopralluoghi nel territorio con Gianni Amicizia, vedo annotate varie visite ad un amico di mio suocero in via Achille Montanucci 10, a casa (nella farmacia comunale di piazza Calamatta sarebbe impossibile), il dottor Odoardo Toti, ispettore onorario alle Antichità e studioso già di chiara fama.

Con il dottor Toti siamo stati i relatori ufficiali del convegno “Civitavecchia da salvare”, che avevo potuto organizzare insieme alla mostra a settembre del ’71, grazie al sostegno del presidente Maurizio Busnengo dell’AAST. Con lui parliamo di Cencelle – mi fa dono delle copie di un suo interessante scritto del 1958 – e di vari argomenti sull’archeologia e la storia, tra cui la strana questione della chiesa di “San Giovanni alle Terme”, citata da Gregorio Magno, e del Campanile che io chiamo di Sant’Egidio, toponimo della località (e con me altri come Cesare Marletta, un altro valente studioso conosciuto da qualche tempo), di cui ho eseguito un accurato rilievo architettonico. Altrettanto ho fatto con il cosiddetto “Tempietto”, la chiesa cimiteriali di San Lorenzo, per cui sono stato alla biblioteca dell’Accademia nazionale di San Luca, dove ho chiesto le foto del progetto di Benedetto Piernicoli, parlandone anche con Paolo Marconi, curatore del poderoso catalogo dei disegni di architettura dell’Accademia, di cui è uscito il primo volume nel 1974.
Questi, quindi, gli inizi delle ricerche a tappeto sulla storia urbanistica e architettonica di Civitavecchia, dapprima con l’ipotesi di indagare sul tema dell’architettura religiosa della città, propostomi dalla Cassa di Risparmio, entrando in un settore che avevo in precedenza affrontato marginalmente, preso dalle questioni riguardanti il “nuovissimo” Piano Regolatore Generale e gli strumenti attuativi da progettare. Avevo a disposizione, fortunatamente, tutto il vastissimo materiale della tesi di Paola Moretti (Un intervento per la salvaguardia e la riqualificazione ambientale del porto monumentale di Civitavecchia, Roma 1965-66), gli studi per il progetto di restauro del Molo del Lazzaretto del 1968 e le altre elaborazioni sul territorio dell’Alto Lazio, meglio sul Patrimonio di San Pietro in Tuscia, che avevano visto interventi di restauro e di analisi storico-architettonica su Tarquinia, Cerveteri, Tuscania, Vulci (il Castello dell’Abbadia al Ponte), Lucus Feroniae e molto altro.

Due anni dopo, nel 1977, è possibile fare istituire dal Consiglio comunale (sindaco Ennio Piroli, assessori di riferimento Alfio Insolera e Archilde Izzi) quel Centro di documentazione sull’assetto del territorio e la storia urbana, che ha lo scopo (raggiunto in pieno) di promuovere conferenze nelle scuole cittadine, collaborare con le associazioni culturali locali e con l’Università di Roma per studi e ricerche sulla città e curare una rivista trimestrale dedicata alla diffusione dei provvedimenti urbanistici adottati dall’Amministrazione comunale all’illustrazione dei temi riguardanti il patrimonio storico, archeologico, architettonico e ambientale, alla recensione di opere relative a questi temi e alla pubblicazione di saggi, studi universitari, tesi di laurea, progetti urbanistici, architettonici e di restauro.
In quest’ambito, con diversi istituti della Facoltà di Architettura di Roma, è stato promosso e realizzato il rilievo di una buona parte del centro storico e dell’intera zona di espansione ottocentesca della città. Questi confortanti e promettenti risultati hanno costituito l’esito di quel lavoro di sensibilizzazione cui ho accennato e che ha richiesto, peraltro, una lunga e costante applicazione per superare la limitazione del dibattito culturale ad ambiti ristretti e specialistici, il purtroppo diffuso disinteresse per tali tematiche e la riluttanza della pubblica amministrazione ad incentivare studi ed iniziative che sembrano non avere un’immediata e concreta utilità.
Nel frattempo, la ricerca individuale, condotta nel corso di tanti anni, ha non solo approfondito gli studi iniziali, ma ne ha in più parti corretto le conclusioni, portando ad interpretazioni che modificano sostanzialmente le versioni tradizionali, ancora oggi diffuse, delle vicende cittadine. Il lavoro si è basato su una rilettura critica delle fonti storiche originali e delle storie municipali, con la compilazione di quadri sinottici e la rielaborazione di una completa cronologia degli eventi storici, degli interventi urbanistici ed edilizi e di ogni altro dato di rilievo riguardante la città i suoi abitanti e il suo territorio dall’antichità ad oggi.
Nel quadro del Progetto innovativo in ambito urbano “Porti e Stazioni” finanziato dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a cura dell’Ufficio Consortile Interregionale della Tuscia, istituito per l’attuazione del Prusst “Patrimonio di San Pietro in Tuscia ovvero il Territorio degli Etruschi”, del Patto Territoriale degli Etruschi, dei Programmi innovativi e dell’Area integrata “Litorale Nord”, è stata elaborata la pianta “Forma Civitatis” che dà il titolo a questa puntata, una mappa georeferenziata di Civitavecchia alla metà del XIX secolo, copyright © 2005 by U.C.I.Tuscia, Roma (per le referenze si veda la nota 1).
Contestualmente sono stati avviati settori di ricerca paralleli, i cui risultati sono serviti da supporto alle elaborazioni cronologiche e che hanno condotto, già alla fine del decennio degli anni Ottanta, a notevoli risultati:
- alla schedatura delle fonti, dei documenti bibliografici ed archivistici e dei rinvenimenti archeologici (circa 2500 schede);
- alla stesura di una carta archeologica del territorio comunale e dei Comuni contermini in scala 1:25.000;
- alla ricostruzione grafica delle fasi di sviluppo urbano dalla città romana ad oggi in oltre 70 planimetrie in scala 1:2000 per altrettanti periodi (riferiti, dal 1477 al 1870, a ciascun pontificato o fase politica);
- alla ricostruzione grafica in scala 1:1000 e 1:500 del tessuto urbano e degli edifici non più esistenti, con l’analisi delle unità edilizie e delle proprietà pubbliche, di enti religiosi e di privati dal XVI al XIX secolo;
- alla ricostruzione grafica in scala 1:100, con piante, prospetti e sezioni, degli edifici scomparsi documentati in mappe e disegni di archivi pubblici e privati;
- alla restituzione grafica, in scala variabile da 1:25.000 a 1:1000, delle antiche mappe (tra cui il Catasto Alessandrino da Roma a Civitavecchia), dei rilievi topografici di Antonio da Sangallo il Giovane e degli altri rilievi e progetti eseguiti per Civitavecchia da Leonardo, dal Bernini e dagli altri architetti che vi hanno operato in passato;
- alla classificazione cronologica, con schede fotografiche, delle antiche mappe, dei disegni, delle stampe, delle cartoline e delle fotografie d’epoca reperite;
- al rilievo architettonico in scala 1:200, 1:100 e 1:50 dei monumenti e degli edifici storici esistenti nella campagna, in città e nel porto;
- al rilievo diretto o alla rielaborazione di rilievi già eseguiti per i siti ed i rinvenimenti archeologico nella città e nel territorio;
- alla schedatura delle iscrizioni, degli stemmi pontifici e dagli altri elementi architettonici) recuperati dalle distruzioni belliche;
- all’inventario di oltre 600 toponimi con l’analisi della loro origine e dei mutamenti subiti;
- alla ricostruzione cartografica dell’assetto territoriale dai primi insediamenti umani ai nostri giorni, con studi sui percorsi preistorici ed etruschi, sulla viabilità romana (da cui è scaturita una nuova ipotesi sul tracciato dell’Aurelia antica), sulle proprietà imperiali, camerali, abbaziali, delle chiese, delle commende e confraternite, nonché sulle tenute concesse per gli usi civici, ed infine sugli insediamenti altomedioevali determinati dalle incursioni saracene e da altri fattori, con una analisi della politica territoriale di Leone IV e dei suoi successori.
Come ho detto, questo materiale – oltre che alle finalità storiografiche proprie della ricerca – si è dimostrato estremamente utile in sede di pianificazione, consentendo di inserire negli strumenti urbanistici vincoli dettagliati e specifiche norme per la conservazione, il recupero, e la valorizzazione di tutti i tipi di preesistenze. Studi particolari sono stati compiuti anche per il riuso di strutture interessanti l’archeologia industriale e la cultura materiale.
Tra i risultati più validi della ricerca, per quanto riguarda il territorio circostante la città, è l’identificazione di tutti i confini del Catasto Gregoriano con i loro corrispondenti attuali e la ricostruzione – su questa base – delle mappe più antiche e delle descrizioni di possedimenti, di strade e di altre indicazioni topografiche contenute negli atti farfensi e in altri documenti camerali, notarili e comunali. Il che ha permesso, tra l’altro, l’esatta localizzazione dei toponimi citati dalle fonti, risalendo in alcuni casi fino all’età romana.
Analogo lavoro è stato compiuto per il centro urbano, individuando le corrispondenze tra catasto attuale e catasti storici e correggendole sulla base dei rilievi aerofotogrammetrici, ottenendo così una carta di base, nella quale sono stati trascritti gli antichi rilievi e progetti. In sostanza, si è proceduto alla stesura di un rilievo della città le cui misurazioni ed i riferimenti topografici risalgono anche a 500 anni addietro, con l’ausilio di “rilevatori” come Leonardo da Vinci, Antonio da Sangallo il Giovane, Carlo Fontana…
Nota 1 – Progetto e coordinamento scientifico: architetto Francesco Correnti, Elaborazione informatica: architetto Elisa Fochetti. Documentazione di base: rilievi, ricerche d’archivio ed elaborazioni grafiche di Arnaldo Massarelli; anastilosi del tessuto urbano e planimetria dei resti archeologici di Francesco Correnti; ricerche d’archivio e ricostruzioni dello sviluppo urbano di Paola Moretti. La pianta rappresenta la sintesi e la rielaborazione informatica dei risultati delle ricerche, degli studi e delle ricostruzioni raggiunti da parte dei suddetti autori, attraverso un lavoro sistematico protrattosi per quaranta anni sui documenti riguardanti la città e il porto di Civitavecchia. Questi risultati sono stati proposti ai giovani professionisti selezionati per collaborare con il Comune di Civitavecchia ed hanno fornito il supporto storico-scientifico delle proposte sul tema “Progettare in Comune”.
FRANCESCO CORRENTI

“Se si fossero lasciate le cose come ERANO” nel 1945..
Qui si coniuga la Forma civitatis con il Bene Comune.
Ora si parla di scontro di civiltà, ma quale cura ha avuto Civitavecchia della sua propria ” civiltà”?
Spero che il tuo documento sia letto da più persone che abbiano sete di cultura, come io stessa cerco di comunicare.
Tu ami il nostro Bene Comune.
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Troppe volte il rimpianto.
Quando il Sangallo alzò le mura nessuna fu la pietà per la traccia romana.
Quando la Malasorte toccò la sua opera nessuno si degno ‘di di un qualche rispetto
Quando le bombe lacerarono il tessuto urbano la ricostruzione non si curò della memoria.
Rimane solo la possibilità di scrivere in luogo dall’aver fatto. Carlo alberto
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Paola e Carlo Alberto, con angolazioni diverse, esprimono quell’unico sentimento di profondo attaccamento a tutto l’insieme di cose che costituiscono il luogo – nel senso più ampio – della nostra vita – dal suo inizio alla sua fine – tra speranza e rimpianto, dispiacere ed affetto. I “nostri” luoghi possono essere molti e così è per me, ciascuno per un motivo particolare, spesso legato all’averli vissuti (non esserci vissuto) come “situazioni di idee”, posti in cui ho avuto l’occasione di “situare” delle mie “ideazioni”, con quanto di studio, conoscenza e pensiero ciò comporta, indipendentemente dal loro valore, bellezza, successo, anzi anche se non realizzate. Tra questi, la “vostra” città è quella che più presto, più a lungo, più profondamente, più disperatamente, più inaspettatamente, più inutilmente, ha coinvolto le mie idee, il mio studio, il mio lavoro e il mio divertimento. Per questo, ma credo di non saperlo esprimere al meglio, questo concetto, è veramente il mio luogo “più pensato” e, credo, più “conosciuto” nel significato che dò a queste parole.
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