DIO, PATRIA, FAMIGLIA E LE PARANOIE DI UN POTERE INSICURO. 

di NICOLA R. PORRO ♦

La nostra premier, in un sussulto di ritorno alle origini, ha rispolverato il motto mazziniano – Dio, patria e famiglia – offrendone una declinazione impropria e una versione deformante. Il Dio di Mazzini non aveva nulla a che fare con quello delle religioni storiche: era il Creatore dell’universo che ispirava l’illuministica religione dell’umanità evocata nel XIX secolo da Auguste Comte in opposizione alle teologie tradizionali. Quanto alla patria non si capisce con che coraggio la destra italiana si appropri di valori e idealità estranei alla sua storia. Vogliono arruolare il repubblicano Mazzini, il socialista Garibaldi, il libertario Pisacane nelle fila della destra? Consultassero almeno un Bignami per l’esame di Storia. La famiglia, poi: in quale mondo vivono questi guardiani della conservazione? Siamo ancora alla retorica della “cellula primaria”? Credo di no, a giudicare almeno dalla legittima libertà con cui i nostri governanti gestiscono le proprie convivenze, paternità e maternità.

Il motto mazziniano, maldestramente citato, intendeva piuttosto mobilitare e nobilitare una lotta di popolo per l’unificazione del Paese, la liberazione dallo straniero e una società democratica. Conteneva un appello a liberare l’Italia: la nostra patria – la terra dei padri – e non l’espressione geografica con cui l’aveva dispregiativamente definita il cancelliere Metternich nel 1847. Questione nazionale e questione sociale erano strettamente intrecciate nel movimento risorgimentale. Il nostro patriottismo non ha niente a che vedere con un’angusta, seppure legittima, rivendicazione territoriale. Promuove la rivolta contro tutti i poteri reazionari, fa propria una visione cosmopolitica, solidarizza nel 1863 con l’insurrezione indipendentistica della Polonia. La Giovine Italia di Mazzini annuncia la Giovine Europa. Garibaldi e Mazzini partecipano a Londra, nel 1864, alla fondazione dell’Internazionale Socialista. Nel corso della quale i congressisti decidono all’unanimità di adottare, come simbolo identitario del movimento, il colore rosso delle camicie garibaldine. Democratico per definizione, il movimento risorgimentale è progressista per vocazione e alieno da ogni forma di nazionalismo. Sogna un’Italia aperta al mondo, promotrice di un’Europa “dei popoli e dei diritti”. Il nostro Risorgimento, insomma, non ha davvero nulla a che spartire con la rappresentazione falsa e retorica che ne avrebbe offerto il fascismo e che si riaffaccia nella narrazione sovranista della destra contemporanea.

Temo però che non si tratti soltanto di propagandismo o di pura e semplice ignoranza. In gioco c’è forse una questione più profonda che riguarda il significato e il valore attribuiti alla nozione stessa di identità.

2 e 3

Allo scopo le parole pronunciate nei giorni scorsi a Budapest da Giorgia Meloni sono esemplari e insieme inquietanti. Ci riportano indietro nel tempo, a quel surreale comizio di Valenza del giugno 2022 quando l’attuale premier aveva solleticato gli umori di una destra così spaventata dalla modernità da rifugiarsi in rassicuranti identità pre-politiche: essere donna, madre, cristiana, italiana… una collana di disarmanti banalità gridate come proclami di battaglia. Utili forse, nelle intenzioni, a eccitare il fascistume di Vox le cui notti sono evidentemente popolate dall’incubo delle misteriose, ma sicuramente spietate e potentissime, ‘lobby lgbtq’. L’appello all’identità, la priorità ideologica ad essa conferita, descrivono del resto un nitido perimetro subculturale. Servono a rovesciare e screditare un’idea alternativa – e ben più legittima – di identità. Quella che assume la diversità come risorsa, che non teme la contaminazione, che vuole essere protagonista del progresso senza complessi e senza alterigia. Un’ampia maggioranza della destra italiana – purtroppo lontana dal liberismo conservatore d’impronta occidentale – è ancora evidentemente prigioniera dei propri fantasmi. Ha urlato Giorgia Meloni che «… Tutto ciò che ci definisce è sotto attacco. Siamo solo numeri, strumenti, nelle mani di coloro che ci vogliono manovrare». Tanta enfasi esige però qualche precisazione. Per esempio: che cosa mai dovrebbe definirci? E quale identità saremmo chiamati – e persino tenuti – a condividere?

4 Melon resize

Per andare sul sicuro ho provato a interpellare l’Enciclopedia Treccani che così definisce la nozione di ‘identità’: «L’essere tutt’uno, di persona o cosa che in un primo tempo sia apparsa con nome o aspetti diversi che abbiano fatto credere trattarsi di persone o cose distinte». Formulazione un po’ involuta ma indubbiamente suggestiva. Ci interroga, ci costringe a riflettere. Solleva un dubbio che pesa come un macigno: ma esiste qualcosa che possiamo battezzare con certezza identità, senza ambiguità o reticenze? E se identità non fosse altro che il prodotto di un bisogno di riconoscersi, di trovarsi e di ritrovarsi? In altre parole, un bisogno sociale che costruisce l’identità attorno a un’idea di comunità. Con un’avvertenza di capitale importanza: ogni comunità umana è il prodotto storico di diversità che si sono incontrate, contaminate, integralmente fuse o provvisoriamente costituite. Le radici dell’identità affondano nelle diversità, le assumono, le rigenerano. La nostra identità non è che il prodotto di infinite osmosi, contaminazioni, trasformazioni. La Storia con la esse maiuscola rappresenta il tentativo di gettare un po’ di luce sui processi che nel tempo hanno conferito identità a comunità che si sono incessantemente incontrate, scontrate, mescolate e trasformate. Proprio la Storia con la esse maiuscola dovrebbe insegnarci che il “successo” delle culture umane è sempre direttamente proporzionale alla capacità di produrre identità valorizzando, e non sopprimendo o mortificando, le diversità. È un crogiolo di fusione (melting pot) l’immagine che la sociologia americana ha associato sin dai primi del Novecento agli Usa. Non proprio un Paese di retrovia… Analogamente, credere in Dio è un nobile sentimento se non produce uno stigma verso chi non crede o coltiva altre fedi. L’amor di patria perde ogni nobiltà se si traduce in disprezzo delle patrie altrui. La famiglia conserva la propria funzione sociale nella misura in cui non diventa vessillo e strumento per anacronistiche campagne conservatrici.

La Storia stessa è un universo di trasformazioni. Le categorie del presente non sono capaci di spiegare il passato né di predire il futuro. Talvolta ci forniscono però preziosi idealtipi, capaci di resistere al tempo. La Roma dei Cesari ha fornito l’imprinting dell’imperialismo politico-militare. Allo stesso tempo, costituiva per l’epoca una metropoli multietnica e multiculturale paragonabile all’attuale New York. E quanti mutamenti, quante variazioni sul tema, quante variazioni di senso hanno conosciuto nei secoli le parole chiave di cui ci occupiamo! Tornando alla nostra riflessione, ad esempio, chi ha detto che la Patria o la Nazione, rappresentino solo nozioni anacronistiche e incarnino solo sentimenti regressivi? Abbiamo rimosso la Resistenza italiana , il Vietnam, i movimenti anticolonialistici del Terzo Mondo?

5 Melon bis resize

Ciò che è essenziale è piuttosto esorcizzare le paure senza rinunciare al banale buon senso. Nessuno scandalo, nessuna minaccia alla democrazia, se allo stadio ci dividiamo in ‘Noi’ e ‘Loro’. Parliamo di gioco, di competizione, di una teatralizzazione dell’antagonismo circoscritta in un tempo di novanta minuti e nello spazio di un rettangolo erboso. Può anche scapparci una scazzottata, ma altra cosa è tracciare una linea di demarcazione invalicabile che separa ciò che io sono da ciò che è l’altro. L’avversario si trasforma inevitabilmente nel nemico solo quando è percepito come il ‘diverso da me’. È in questo tornante che il patriottismo può degenerare nel nazionalismo e persino farsi complice dei suoi orrori. Se dimentichiamo che tutti noi, cittadini di ogni tempo e di ogni latitudine, siamo sempre uguali e contemporaneamente sempre diversi – e se non trasmettiamo questa convinzione a chi verrà dopo di noi – anche un’innocua domanda di identità potrà liberare tossine. Il primato assegnato all’identità può comprimere e reprimere un’idea di società in cui si cammina insieme e insieme si affrontano rischi, difficoltà, dissensi.  Le domande giuste cui rispondere sono invece di disarmante semplicità: perché dovremmo preoccuparci di difendere un’identità che non abbiamo mai perso? Perché temiamo di smarrire una delle poche cose che è impossibile smarrire? Perché fantastichiamo su un’identità collettiva univoca quando esistono infinite differenti identità, individuali e collettive? Che senso ha fare appello alla difesa di un’identità fintamente univoca, ipostatizzata, e perciò manipolabile da qualsiasi demagogo? Parlare una sola lingua, nell’accezione estensiva e metaforica del termine, prima che illiberale, è miope. Le libere e prospere società dell’Occidente – quelle che un vecchio umorista aveva definito” le peggiori del mondo, fatta eccezione per tutte le altre” – sono tali in quanto sono (spesso) società multiculturali nonché protagoniste di incessanti contaminazioni. Dove vuole arrivare la destra quando finge di credere che i suoi avversari desiderino un futuro nel quale sia negata la possibilità di essere chi siamo? Sino a prova contraria sono piuttosto le autocrazie – non tutte, ma in larga maggioranza, impregnate del pensiero reazionario – a perseguire simili disegni. I veri leader, quelli capaci di ispirare i propri seguaci, ma anche di dialogare con i propri avversari, devono sapersi misurare con il dubbio. Perché non confrontarsi civilmente su questioni cruciali: sappiamo davvero da dove siamo arrivati? Siamo consapevoli del fatto che ignorare o manipolare la Storia condanna a riviverne gli orrori? E soprattutto: abbiamo idea di un possibile approdo del cammino comune? Abbiamo una mappa per raggiungere una destinazione condivisa? O sbraitare su Dio, patria e famiglia è solo un diversivo di fine estate per non parlare di attese deluse e promesse non mantenute?

NICOLA R. PORRO

https://spazioliberoblog.com/

SPAZIO CLICK