RUBRICA “BENI COMUNI”, 48. DOVE ERAVAMO RIMASTI?

di FRANCESCO CORRENTI

«Dove eravamo rimasti?»

Tre parole ed il segno di interpunzione detto punto interrogativo, una breve frase in tono di domanda, che a seconda dell’enfasi posta nel pronunciarla assume valore diverso… Dalla semplice richiesta di aiuto mnemonico in un incontro tra amici alla domanda formale per riprendere un discorso interrotto, una lezione, una rendicontazione, una confessione… Dalla domanda distaccata, quasi un’interlocuzione per riattaccare una conversazione qualunque, alle parole gravi e forse solenni che chiudono un vuoto, un momento di assenza, un periodo di silenzio e riaprono una conversazione troncata, una attività fermata che può riprendere, una consuetudine positiva che un intervento irrazionale e violento ha impedito per qualche tempo ed ora si è dissolto, svanito. Quasi come se nulla fosse… come se niente fosse successo!

 «Dove eravamo rimasti?» Queste parole cui faccio riferimento sono quelle pronunciate da Enzo Tortora, già conduttore per anni di programmi Rai e della trasmissione televisiva di grande successo “Portobello”, il 20 febbraio 1988, alla ripresa della trasmissione, dopo l’assurda vicenda iniziata platealmente il 17giugno 1983, cinque anni prima, con il suo arresto, in manette davanti alle telecamere, in mezzo alla folla. Non rievoco qui quella terribile e vergognosa vicenda, ben nota o facilmente conoscibile oggi da chi non la conoscesse. Ma il senso drammatico di quelle parole a me è ben evidente, come è evidente che esse segnano sì la “vittoria” della verità (del tutto inadeguata alla gravità delle accuse menzognere subite), ma rappresentano soprattutto la sconfitta dello Stato, della Giustizia, della Civiltà, della Umanità, per tutto quello che queste figure retoriche con tanto di iniziale maiuscola, i cardini su cui poggiano le nostre istituzioni, non hanno impedito di illegittimo, di ingiusto, di incivile, di disumano e così via.

Le immagini della copertina di questa settimana richiamano gli aspetti che vedo connessi alla frase emblematica, con il ricordo de «Il caso Enzo Tortora» – necessariamente in forma di solidarietà addolorata per il protagonista e vittima – attraverso la locandina del film biografico ideato e diretto da Ricky Tognazzi sul soggetto scritto da Simona Izzo, Giancarlo De Cataldo, Monica Zappelli nel 2012. Una piccola figura racchiusa nel quadrato d’una vignetta, riproduce in modo però alterato quella che è a sua volta la riproduzione d’una immagine divenuta famosa, virale, vero e proprio emblema del sacrosanto sentimento comune di ammirazione per gli Eroi e di condanna per la mafia. Dove eravamo, dove siamo rimasti dopo tutto ciò ch’è seguito alla morte di Borsellino e di Falcone, alle stragi connesse, alle tante vittime, alle commemorazioni e alle intitolazioni? Non voglio dar giudizi. Capisco che il tempo trasforma tutto. Sento, mi sembra di sentire, nel grammofono (giradischi, juke-box?) della mia memoria la voce famigliare di Mimmo Modugno: «’Mmiezz’a ’na  strada ’nfosa, ce simmo ditte “Addio”». Ma torno a quell’immagine dei due magistrati, tratta da uno straordinario scatto di Tony Gentile del 27 marzo 1992, quando l’autore era un giovane fotografo di cronaca e realizzò quel servizio al Teatro Garibaldi di Palermo.

Leggo che da pochi giorni si è conclusa, proprio in quel teatro, la mostra “Tony Gentile. Luce e memoria”, «con le grandi fotografie appese ai palchi, a ricordare la protesta dei lenzuoli sciorinati dai balconi per dire “No alla mafia”. Scatti di un bianco e nero furioso che sulle balaustre scarnificate di quello che un tempo fu un gioiello ottocentesco, oggi acquistano un significato ancora più importante: testimoni di dolore e di speranza, delle guerre tra clan mafiosi, di innominabili, di protagonisti di una stagione che arriverà – ma non si chiuderà – agli attentati in cui persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e Paolo Borsellino, e le rispettive scorte. E della rivolta germinata da quelle stragi, dalla rivalsa della città che ha avviato un cammino di riappropriazione degli spazi, fisici ma soprattutto morali ed etici. […] Gentile ha documentato delitti e arresti, visi imperscrutabili e politici conosciuti, bambini nei quartieri popolari, manifestazioni, scene quotidiane, i primi respiri di libertà e di rinascita; e fu lui a realizzare l’immagine iconica che racconta in uno sguardo, la grande complicità e amicizia tra i giudici Falcone e Borsellino, scattata precisamente 57 giorni prima della strage di Capaci, quasi uno scherzo del destino visto che passarono altri 57 giorni esatti prima dell’attentato di via D’Amelio».

Abbiamo visto che quella fotografia è stata ripresa e manipolata migliaia di volte, senza neppure riguardo ai diritti d’autore, ed è divenuta uno stereotipo abusato e stanco, pur se non metto in dubbio la sincera e genuina volontà di omaggio delle ripetute riproduzioni. In certi casi apparsi di recente, l’esigenza di non replicare meccanicamente l’immagine ha prodotto figure che sembrano quasi caricaturali, con sgradevoli deformazioni di quei sorrisi tanto significativi e commoventi. Per questo, ho voluto “alterare” l’immagine, anche se – semplicemente – invertendo la posizione dei due giudici amici ma nella stessa posa. Sono ancora vicini, spalla a spalla, gomito a gomito, continuano a sorridere, restano i due amici di sempre, pur volgendo lo sguardo altrove… Non bisbigliano tra loro ma sussurrano qualcosa anche agli altri “presenti”. L’immagine mantiene la sua efficace eloquenza. Per compiere la mia manomissione (mano/missione) ho scelto un soggetto ben preciso, come ho detto, quella che è a sua volta la riproduzione del famoso originale, ma non una riproduzione meccanica e banale, una copia o fotocopia, o peggio una caricatura, bensì una interpretazione originale che diviene “a sua volta” un’opera d’arte. Per cui sono sinceramente lieto di poter rendere merito per la molto apprezzabile iniziativa al “mio” Comune di Civitavecchia e quindi al sindaco Ernesto Tedesco, al Consiglio Comunale che con voto unanime l’ha approvata e, direttamente, al  consigliere Alessandro D’Amico che ne è stato il promotore. Con lui, voglio ringraziare chi altro – uffici e persone, cioè “colleghi” nella appartenenza all’ente pubblico locale – ha concorso a realizzare qualcosa che ha migliorato, abbellito, arricchito un bene comune quale è il lungomare cittadino. Non solo, appunto, per l’intitolazione del  lungomare ai Giudici Falcone e Borsellino e alle Vittime delle mafie, che è una scelta civile e doverosa, espressione della necessità di introdurre nella toponomastica urbana – come fu sempre, nel corso del tempo – la testimonianza aggiornata dei valori condivisi e delle attestazioni della riconoscenza collettiva.

Ma forse ancor più, per la scelta – a mio giudizio ottima – dell’opera da destinare al monumento, e quindi dell’artista, Filippo Pietro Castrovinci, nato ad Alassio (Savona) nel 1963 e attualmente con sede a Capri Leone presso Messina, del quale ho potuto in questa occasione conoscere e ammirare la particolarità della sua attività, che si innesta sull’antica tradizione ligure dei fabbri d’arte e dell’artigianato del ferro battuto, per giungere ad espressioni innovative di alta qualità artistica. Questa volta, il Comune ha acquistato l’opera, con una normale procedura di scelta e affidamento della fornitura. Il “dono alla Città” lo ha scelto, deliberato e pagato in modo semplice e lineare.

L’oggetto degli atti è chiaro, in linguaggio tecnico-burocratico facile e diretto: «Posa in opera nel luogo stabilito dal Comune di Civitavecchia di una scultura in acciaio inox, costituita da una base su cui poggiano numerose aste minuziosamente lavorate, che nell’insieme e solo ad una certa distanza, rendono nitida l’immagine di Falcone e Borsellino». L’aspetto economico è altrettanto chiaro: «Impegnare la somma complessiva pari a € 3.950,00 al capitolo 1328 denominato “Decoro Urbano” del bilancio per l’esercizio finanziario 2021».

Opera moderna, riproducibile in serie come un manufatto industriale, certo non è una superba scultura di greco scalpello, come scriveva Pietro Manzi a proposito dell’Apollo trovato presso la sua villa del Belvedere. Non si allaccia al filone retorico delle colonne spezzate, non si finge una scultura antropomorfa senza la mano e il genio di Gian Lorenzo Bernini o di Igor Mitoraj, raggiunge un livello espressivo molto elevato con un costo veramente contenuto. Inoltre è un’opera che respinge la banalità della copia, dell’ennesima imitazione dell’icona, ed esprime genialità, sorprendendo piacevolmente l’osservatore, infondendogli – senza contraddire né attenuare il carattere di monumento commemorativo e la deplorazione della violenza criminale – un senso di serenità che fa proprio il buonumore infuso dal sorriso dei due Giudici. E con ciò chiudo l’argomento degli spunti esterni sul tema della domanda del titolo.

Ma è chiaro che per me quegli spunti erano un pretesto per andare a parare da qualche altra parte. Per quanto riguarda la mia personale risposta alla domanda «dove eravamo rimasti?» rivolta a me stesso e agli amici e colleghi nelle diverse attività, devo dire che troppe volte mi sono trovato a riprendere attività interrotte, cioè fatte interrompere – sempre in modo irrituale e scorretto – da intromissioni di interessi del tutto estranei ed opposti a quello pubblico ed al bene comune. La mano a palmo aperto di Enzo Tortora, a significare i suoi cinque anni “di piombo”, l’ho ripresa e fatta mia con le mie impronte a palmo aperto sulla porta di cemento «OC». Cinque anni difficili, dal 1992 al 1997, li ho avuti anche io e dopo ho avuto la soddisfazione di riprendere e concludere il progetto di ampliamento della Sede comunale del Pincio con l’ala dei nuovi uffici “Paolo Pulci” e la nuova Sala consiliare “Renato Pucci”. Come, poi, di vedere quasi integralmente attuato il mio Piano di riqualificazione ambientale del Porto monumentale (Targa ANCSA del Premio Gubbio 1990) con gli interventi dell’Autorità Portuale e della Soprintendenza. Purtroppo, non ho avuto lo stesso piacere con il Piano della zona turistico-termale T.A/Ficoncella – Terme Taurine – Sant’Egidio, benché inizialmente avviato ad attuazione con ottime prospettive e ingenti finanziamenti, purtroppo poi sprecati e dissipati in malo modo per quelle “intromissioni” di cui ho detto, che hanno portato gravissimi danni, oltre al rudere dell’orrido ecomostro (opera, come ha detto qualcuno, di buoni a nulla capaci di tutto).

La puntata termina qui. Potrei giungere con il racconto fino a questi giorni di luglio 2023, che vedono ancora una volta di attualità la fatidica domanda, la cui risposta mi è chiarissima, conoscendo molto bene dove, come e perché ripartire da dove eravamo rimasti. Credo in linea con lo spirito della rubrica e con la temperatura di queste giornate, rinviare il resoconto della soluzione positiva, immancabile, a «dopo Santa Rosa», come diciamo qui in Tuscia, cioè passato l’evento del 3 settembre (che è anche Patrimonio Immateriale dell’Umanità), augurando anche altrettanto successo ad un amico e collega architetto, con un ruolo di primaria importanza proprio in quell’evento. 

FRANCESCO CORRENTI

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