“I RACCONTI DEI SOPRAVVISSUTI” DI MICHELE CAPITANI – Vita e opinioni d’un ladro (diciamo) gentiluomo.
di MICHELE CAPITANI ♦
«A Reggina Coeli i mattaccini stavano tutti addobbati…»
Quando parla Enrico, mi pare di trovarmi in un film poliziottesco dei nostri anni Settanta. Lui è della vecchia malavita romana, ha sessant’anni benissimo portati, e si trova, qui nella scuola carceraria, in classe con giovanotti spauriti, ragazzi africani, e qualche altro adulto italiano che però si sbottona ben poco. A differenza di lui, appunto, che è documento vivente di quando nelle carceri la popolazione era di etnia coesa, e si parlavano i gerghi di chi frequentava le patrie galere; non come ora, che s’ode a destra un accento del sud, e a sinistra un saluto albanese, e le curve intonative linguistiche da tutte le curvature del pianeta.
Voglio ricordare di questo personaggio, perché uomo e alunno dai risvolti complessi, e per l’impressione controversa che mi ha sempre lasciato, a suo tempo, e ora nei ricordi…
Enrico, quando racconta di qualcosa che riguarda il crimine, e le sue furberie, e il mondo del carcere, ha sempre quel sorrisino di autocompiacimento, non tanto per le sue malefatte quanto per un’evidente e ostentata capacità di compiere “prodezze”, di svignarsela al momento giusto. Mai abbastanza per evitarsi vent’anni totali di galera fatti nella vita, ma a lui queste sembrano osservazioni di contorno, come se le condanne fossero indesiderate deviazioni da un percorso di cui tutto sommato farsi vanto. Signorilmente e senza plateali iattanze, ma sempre col suo sorrisino.
Io trovo che ci sia molto più fondamento nel suo vantarsi delle conquiste galanti, le quali però gli hanno lasciato anch’esse lacerti di una vita frammentata, di rami cresciuti malcerti, di un’eredità sparpagliata: strascichi di famiglie lasciate a metà, di figli dell’una o dell’altra o della terza donna, coi quali non ha rapporti, e via così. Però è quando racconta delle sue gesta criminali che tradisce una grande autoammirazione, per esempio se mi spiega come eludere e ingannare le telecamere di sorveglianza del condominio in cui va a fare un sopralluogo per poi tornare e rubare:
«Vabbe’, ma entrare in una casa non dev’essere facile» dico io.
«Che ce vo’? Usi la radiografia. O ar massimo te travesti da carabiniere»
«Ma poi la cassaforte?»
«Er forziere te lo fai apri’ dar padrone» dice, stringendo la mano come tenendo un coltello; qui s’accorge della mia espressione di schifata disapprovazione, per cui aggiunge:
«Però le mani addosso a quarcheduno nun l’ho mai messe, pensi che io i gioelli che ci ha addosso una donna non li guardo nemmeno»
«E comunque, Enri’, qua stai, alla fin fine»
«Nun me lo dica, professo’…» e mi racconta dei furti che operava spalleggiato da due carabinieri veri, ai quali però i loro colleghi avevano messo le cimici e li hanno beccati, «Insomma uno dei due se l’è cantata, e m’hanno preso pure a me»
***
Altre volte i suoi racconti sono meno irritanti, anzi esorbitano dal mondo davvero criminale e sfumano in picaresche atmosfere di periferia. Un giorno che, parlando dei differenti tipi di testo, arriviamo ai testi poetici, leggiamo la struggente “Lavandare” di Pascoli, e Daud, tunisino, chiede: «Cosa vuol dire aratro abbandonato?»
Spiego l’aratro, e lui:
«Ah, come quellu che tirano asini, cavalli… e cosa vol dire buoi?»
«Il maschio della mucca. Er manzo» risponde Enrico.
Yunus: «Invece com’è che si chiama quello che nasce da cavallo e asino?»
«Sarebbe er mulo, professo’?»
«Sì. Mulo o bardotto, dipende»
«Ecco, da noi si usa di più quello, perché è più forte» dice Yunus.
«Ma non si usa anche il cammello?» continuo io.
«No, perché costa troppo, anche migliaia di euro»
«Ah. E come mai?»
«Perché è il più forte e resistente, e consuma poco»
Daud aggiunge: «È pure buono!»
Enrico ne conviene, anzi dice di averlo mangiato spesso.
«Tu? E dove?»
«A Roma, quando abbiamo occupato una scuola. Io so’ andato a imbianca’ le pareti»
«Cioè, siete entrati in una scuola abbandonata?»
«No, non era abbandonata, ma semo entrati uguale, per dare una casa alla gente. Ci abbiamo messo settanta famiglie»
«Accidenti…»
«Sì. E c’era una famiglia marocchina che ogni giovedì faceva il cammello, e mi invitava»
Fanfaronata o realtà, quando Enrico subentra nella discussione ha l’aria orgogliosa, soprattutto se narra d’aver dato casa a qualcuno, anzi stavolta ancora di più, forse per il numero di famiglie, forse per questa dimostrazione di gratitudine che riceveva puntualmente dai marocchini. Non mi sembra il caso, stavolta, di opinare che la cosa non era proprio legalissima, però mi sembra il caso di metterlo a parte della mia invidia per quelle cene plurietniche (e per il cammello, che finora non ho mai assaggiato). Ho detto invidia, non certo sorpresa, visto che poche persone ho visto esenti dal razzismo quanto Enrico: lui è amico di tutti, ride spesso insieme agli africani, in questo microcosmo dove essi devono per forza fare mondo a sé (e qui interviene Obi dicendo che anche fuori molti non considerano gli uomini tutti uguali). Anzi Enrico è proprio portato a considerarli perché li vede spesso soli e spersi, anche per ragioni linguistiche. Forse, se stesse fuori, li aiuterebbe a trovare casa.
***
Tanto è istintivamente solidale con chi vede smarrito (specialmente gli ultimi arrivati qui in carcere), quanto guarda con paterna aria di biasimo i giovani, ovviamente senza distinzione etnica. Un giorno esce nella discussione il dubbio se sia più facile stare in detenzione a 20 o a 60 anni. Enrico dice che non ce la fa più, che conta i giorni:
«A ‘sto giro, professo’, so’ cinque anni e mezzo che sto dentro».
Il giovane Nizam commenta: «Ci hai ragione», ma Enrico lo rintuzza:
«Ma te che ne sai? Voi giovani, dopo due mesi qui, già ve lamentate»
«No, io sono già nove mesi»
«E capirai!»
«Ma per voi più grandi è più facile»
«Tu fai un ragionamento stupido, perché tu qui nun ce dovresti sta’ proprio. Come i giovani che vedo in sezione, che ridono e scherzano. Ma fuori c’è la vita, qui non è la vita, questo è un mondo a parte. Io ci ho 62 anni ma per me è diverso».
Intervengo io: «Come mai dici che è più facile stare in galera da giovani?»
«Perché io ci ho una famiglia, ho una vita passata, e mi scoccia stare anni qui, che non so quanti me ne restano da campare. A vent’anni ci hai ancora tanto tempo davanti (si gira verso i ragazzi), ecco perché avete fatto una cavolata: che state a fa’ qui? Andate fuori, lavorate»
Nizam: «Io dopo che esco, neanche so dove andare: quando ho detto a mia madre che stavo in galera, si è arrabbiata troppo»
«Perché?» gli chiedo io.
«Perché mi ha detto: ti abbiamo dato 15.000 dollari per andare in Europa, e tu fai casini! E poi mio padre da noi è poliziotto, se si viene a sapere che il figlio sta in carcere per traffico di eroina, come fa a uscire e guardare in faccia la gente?»
Io a Enrico: «Vabbe’, Enri’, però tu anche a 20 anni già stavi dentro»
«Sì, anche se a differenza loro avevo una famiglia già a 19 anni. La mia prima figlia è nata che io stavo dentro; che brutto, professo’… Ma la prima volta che sono uscito, dopo una settimana già stavo a ruba’»
Però stavolta, sul viso, non gli compare il suo solito sorrisetto…
Poi arrivano le vacanze di Pasqua, e quando ci rivediamo, di ritorno dal nulla di sette giorni senza scuola, mi dice:
«Professo’, ho passato certi giorni…»
«Vabbe’, ora è passata, pensa che ti manca solo un mese al fine pena, dài»
«Eh, ma l’urtimi giorni so’ i peggio»
«Ah sì? Con tutta l’esperienza che hai?»
«Sì. Anche se ne ho conosciuti, specialmente giovani, che je danno giusto quarche mese… magari te dicono “Io ‘sti mesi me li faccio sulla tazza der cesso”»
«Cioè?!»
Yunus: «È gergo carcerario»
«Ah, vuol dire che se li fanno come niente fosse?»
Enrico: «Bravo professo’. Però la sera a letto se girano verso er muro e piagnono»
«I giovani mi sa che non ci sono abituati»
«Me ricordo che nel ’78 me diedero due anni, e in cella con me c’era uno che doveva fa’ cinque mesi, e ogni sera se metteva a piagne’»
«Te sarà venuta voja de daje quarche pizza» osservo.
«Quarche?! L’ho gonfiato come ‘na zampogna. E che cazzo!»
«Mah, forse in quei casi è più il trauma di trovarsi in galera per la prima volta, che non la durata che ci hai davanti, no? Ma poi, solo cinque mesi… che aveva combinato? Furto del giornale al bar?»
«Solo a me, pe’ furto me diedero du’ anni»
«Ci avevi aggravanti, immagino»
«Sì, avevamo scassinato un negozio de scarpe qua vicino, a Santa Marinella, ma robba bona, tutte de cuoio, nel ’78 ci avremmo fatto otto milioni! Solo che la vicina stava a tromba’ invece che a dormi’, ha sentito il rumore e ha chiamato ‘e guardie, e c’è stato l’inseguimento…»
Io: «Be’, senti, meno male che v’hanno beccato: pensa a quer poveraccio che se ritrovava senza merce»
«Ah professo’, ma quelli i soldi ce l’hanno»
«Ma tu che cazzo ne sai!»
E a lui ritorna quel sorrisetto, per il suo saperla lunga e per aver potuto narrare un’altra delle sue bieche prodezze, ma anche per come gli rispondo. Il sorrisetto di uno un po’ furbo e un po’ fregnone, un po’ simpatico e un po’ pezzo de merda. Stavo per dire infame, ma questo no, o almeno non mi pare che Enrico lo sia.
***
Mi viene da pensare che la galera forse è un mondo in cui tutto si mescola, verità e mezogna, racconto e omissione, ma in fin dei conti è solo un mondo parallelo: anche fuori da qui la vita è mezze misure, è sentiero fra ostacoli e panorami, dove si riesce a proseguire, ma a volte non si riesce, e poi adattamenti, ripensamenti… Un mondo in cui si pensa di essere furbi ma arriva ogni tanto qualcosa a metterti di fronte all’evidenza che sei stato incauto, o troppo fiducioso in te stesso; che sei un saggio sempre imperfetto, e hai mentito, a te stesso prima che agli altri. E come là fuori, anche qui dentro le cose terribili e sorprendenti, incoerenti e irrisolte hanno bisogno di uscir fuori e venir dette perché almeno le parole abbiano la sensazione di essere libere.
Sarò io l’insegnante, ma Enrico senza volerlo mi irrita eppure mi interroga, coi suoi racconti, la sua autocompiacenza per le sue abilità e destrezze, la sua scalcinata mitomania, e la sicurezza che ostenta qui dentro, e il suo inderogabile complesso di eguaglianza verso gli altri. Anche troppo, visto come spiega il suo diritto di fare i conti nelle tasche degli altri e considerarle come sue.
Cosa penserei di lui, fuori di qui? Quel che penso di alcuni altri nostri alunni: che costoro sono le persone che distruggono ciò che noi costruiamo, che operano per costruire un mondo insicuro, ingiusto e violento. Quelli che delle nostre fatiche si puliscono il sedere. Insomma, uno che fuori di qui considererei un verme, eppure qui dentro la faccenda è diversa, e quando scrive il tema sui suoi trascorsi scolastici esce fuori una storia giovanile tormentata, un equilibrio che, a undici anni, bastò un trasferimeno in altra scuola per distruggere, e per far degradare la storia di quel bambino di cinquant’anni fa, piano piano, in una storia di devianza.
«Mi’ madre, pora donna, quanto l’ho fatta tribbola’…» ed ecco che anche un ladro un poco di compassione riesce a suscitarmela: anche quando pensa alla madre, del suo sciocco sorrisetto non c’è più traccia.
E a me viene più facile cosiderarlo così come devo fare, perché, stringendo stringendo, sono pagato per considerarlo come alunno, non per giudicarlo.
Quello l’ha già fatto qualcun altro, per fortuna.
MICHELE CAPITANI