ELOGIO DI SAVITRI

di GIORGIO LEONARDI

Ogni volta che si parla dell’importanza del ruolo delle donne nella società (e nella famiglia, che della società è il nucleo primario) mi torna in mente una storia, piuttosto nota, avvolta dall’alone del mito. La racconta bene Euripide in una sua tragedia che prende il titolo dal nome della protagonista. La sintetizzo e semplifico alla mia maniera.

A Fere, antica città della Tessaglia, regnava da monarca il saggio Admeto. Questi, grazie all’intercessione di Apollo, con cui si era dimostrato generoso, aveva ottenuto la possibilità di scampare alla morte, a patto che, al momento opportuno, un’altra persona si fosse sacrificata in sua vece. Facile a dirsi. E infatti, quando giunse la sua ora e Thanatos si presentò alla sua porta, nessuno tra amici e parenti volle prendere il suo posto. Neppure uno dei due anziani genitori. Solo Alcesti, la sua amorevole sposa, si fece avanti, offrendo la propria vita al posto di quella del marito, che incredibilmente accettò. La scena, a ogni modo, è un po’ epica e un po’ paradossale: la donna usa parole toccanti e dignitose, dichiara amore eterno al marito (che piagnucola spudorato come se lui, in tutto questo, non c’entrasse nulla), gli affida i figli e si dà stoicamente la morte bevendo una coppa di veleno, distesa sul talamo nuziale.

A questo punto della vicenda compare Ercole che, nel bel mezzo delle esequie, venuto a conoscenza della storia, decide di compiere un’impresa delle sue, da eroe degno di tal fama. Volendo fare un favore ad Admeto, scende nel mondo dei morti, si prende di peso Alcesti e la riporta, viva e vegeta, al suo sposo. Ercole fa un figurone, invece Admeto, a mio avviso, ne esce malamente… ma alla fine tutti vissero felici e contenti. Questo a raccontarlo per sommi capi.

Alcesti è indubbiamente un’eroina, e viene sempre indicata come esempio virtuoso di coraggio e lealtà coniugale, al cospetto di un marito che invece preferisco non definire. E quando a teatro cala il sipario nello spettatore resta un po’ di amaro in bocca.

Ma c’è anche un’altra storia che mi piace ricordare. Cambiamo totalmente scenario, perché bisogna spostarsi in Estremo Oriente. Si tratta di una leggenda contenuta in quel fantastico repertorio che è il “Mahabharata”, antico e chilometrico poema epico indiano che meriterebbe una lettura. Se non ne avete la pazienza, data la mole, consiglio almeno la visione dell’affascinante trasposizione cinematografica fattane da Peter Brook (giocoforza parziale, nonostante le oltre 5 ore di pellicola). Anche il film è comunque un’impresa impegnativa, però ne vale la pena.

Dunque, c’è una giovane e bella principessa indiana che si chiama Savitri. Un giorno il padre le dice:

«Figlia mia, è giunta l’età in cui devi prendere marito. Va’ e scegli il tuo uomo».

Così Savitri parte in una sorta di “tour” prematrimoniale che comprende regni vicini e lontani, senza tuttavia trovare un solo principe degno del suo amore. Ormai rassegnata a restare zitella, sulla via del ritorno, si trova a passare per un bosco, dove incontra un giovane dall’aspetto modesto e saggio. In realtà è il figlio di un re senza regno, ritiratosi in povertà perché giustamente disgustato dal mondo. Il ragazzo si chiama Satyavan, e Savitri se ne innamora perdutamente.

«Padre, ho trovato il mio sposo», annuncia contenta una volta tornata a casa.

Sembra profilarsi un esito felice, ma un indovino predice che su quell’uomo pende un destino funesto: di lì a un anno verrà la morte a portarselo via. Savitri comunque non sente ragioni: sposerà lo stesso Satyavan (perché forse sa già che l’amore può vincere la morte). Divenuta sua moglie si ritira con lui in un’umile capanna, avendo deciso di rinunciare a tutte le ricchezze ma non ai suoi sentimenti.

Trascorso un anno, la donna realizza che è giunto l’ultimo giorno di vita di Satyavan. Lo accompagna nella sua consueta uscita per boschi a raccogliere legna per il focolare, e i due stanno camminando fianco a fianco quando l’uomo si accascia abbandonandosi inerte tra le braccia di lei. Ed ecco giungere gli emissari di Yama, il dio della Morte, per portarsi via dal corpo l’anima di Satyavan. Ma Savitri accende un fuoco e li scaccia. Non è finita. Si presenta allora il dio Yama in persona a reclamare ciò che gli spetta. La donna, che non ha il potere di contrastare i desideri di un dio, deve avergli detto qualcosa come:

«D’accordo, prendi pure la sua anima, ma io la seguirò, non abbandonerò il mio amore».

E infatti si mette alle calcagna del dio, passo dopo passo, in cammino verso il regno delle ombre. Yama di tanto in tanto si volta e la vede lì imperterrita. Stupito dalla determinazione della donna nel seguire lo spirito di Satyavan, cerca più volte di dissuaderla concedendole delle grazie (a patto che non reclami la vita del marito). Savitri ne approfitta, chiede e ottiene dal dio due grazie, ma non molla e continua tenacemente il suo pedinamento. Yama, che non riesce proprio a togliersela dai piedi, le accorda allora una terza e ultima grazia, e Savitri chiede che un figlio di Satyavan possa ereditare il regno. Yama glielo concede, ma poiché la coppia non ha ancora figli, il dio per mantenere la sua parola si vede quindi costretto a restituire la vita all’uomo e a lasciarlo alla sua amata perché possano prolificare. E così i due, legati per sempre dal loro amore, daranno effettivamente inizio a una futura generazione di re.

Quelle di Alcesti e di Savitri sono due storie indubbiamente romantiche in cui l’amore trionfa sulla morte, e hanno più di qualcosa in comune, oltre al lieto fine. Si tratta, è chiaro, di due eroine femminili a tutto tondo.

Tuttavia non se ne avrà a male la lodevole Alcesti se qui vorrò tessere l’elogio di Savitri.

Savitri è una figura femminile straordinaria, che spicca in un panorama induista in cui, come sappiamo, la donna generalmente non gode di molto rispetto. Nella leggenda appare fin da subito padrona della sua sorte: sceglie liberamente il suo uomo senza subire condizionamenti, lo sposa malgrado venisse sconsigliata dalla profezia funesta dell’indovino, lo accoglie tra le sue braccia quando muore (con un gesto di protezione che sembra quello di una genitrice), e lo riporta in vita sfidando il dio della Morte grazie alla sua ostinata tenacia, che è un gesto d’amore assoluto.

Anche Alcesti (che invece va in sposa a un uomo impostole dal padre) compie un gesto d’amore, e anche lei fa una scelta volontaria e coraggiosa. È vero, ma quello di offrirsi al posto di Admeto sembra, in fin dei conti, il sacrificio di una subalterna: una vocazione al martirio, che non ci piace moltissimo, anche perché il marito non sembra meritarlo. Alcesti è animata da una volontà passiva (se mi si passa il quasi-ossimoro), Savitri da una volontà attiva, che le fa ottenere lo stesso risultato della sua omologa greca, però combattendo e non immolandosi, affermando così la forza della sua individualità e della vita, e non rinunciando a esse.

Oggi in psicologia conosciamo la “Sindrome di Alcesti”, che è attribuita alle donne che sviluppano una dipendenza affettiva nei confronti del partner, fino a portarle eventualmente al sacrificio estremo. Una condizione mentale che, in presenza di un soggetto maschile involuto, è spesso alla base di storie di violenze e fattacci di sangue su troppe pagine di cronaca nera, dove non ci sono divinità magnanime che intervengono a ristabilire un’armonia, e invece trionfano gli orchi. Non c’è catarsi nel teatro ignobile della realtà.

Savitri, a differenza di Alcesti, ci insegna piuttosto che il legame che unisce una coppia è il combinato disposto dell’amore per l’altro e dell’amore per sé stessi, che un rapporto di coppia sano può essere solo paritario, e che la forza della donna è la forza dell’uomo (e viceversa). E se la forza dell’uomo trae alimento dalla debolezza della donna o dall’offuscamento della sua figura, quella non si chiama “forza” ma “abuso”. Perché, al netto del gesto stoico di Alcesti, un uomo come Admeto che accetta il sacrificio estremo della compagna per la propria salvezza personale, semplicemente non è un uomo che ama. Ma naturalmente questo il mito non lo dice.

Ecco cosa dice invece il “Mahabharata”, concludendo la storia di Savitri e Satyavan, quando la donna si china sul corpo del marito, a cui è stato restituito il soffio della vita:

«Poi si sollevò, legandosi le trecce, aiutò dolcemente il suo signore ad alzarsi. Con lui percorse la foresta dove non vi erano sentieri, guardandolo con l’amore negli occhi. Lui avvolse il braccio sinistro sul collo di lei come fosse un morbido abbraccio, Savitri intrecciò delicatamente il suo braccio destro attorno alla vita di lui. E così camminarono insieme nella foresta oscura, con le stelle silenziose che li guardavano dall’alto, mentre la mezzanotte palpitante osservava l’amore immortale di Savitri, senza dire una sola parola».

Savitri, la protagonista, il paradigma della donna autodeterminata, sensibile e forte, ha vinto. Anche sulle preclusioni, a pensarci oggi. E su questo sì che può calare il sipario con buona pace di tutti.

GIORGIO LEONARDI

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