I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.
di EZIO CALDERAI ♦
Capitolo 20: Nascita del pensiero occidentale, da Anassimandro, Eraclito e Parmenidee a Socrate,
Platone e Aristotele. L’irruzione dei Sofisti.
Per fortuna le energie degli ateniesi erano inesauribili.
Quando sembrava che la dissoluzione di Atene fosse fatale, come quella della vecchia Micene, un nucleo di pensatori straordinari illuminò il presente e il futuro della regina dell’Attica e del mondo intero.
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Il primo fu Socrate. Non si era mai visto niente di simile, eppure i greci erano abituati ai filosofi eccentrici, ai poeti itineranti, ma non era mai accaduto che un uomo che diceva di essere sicuro solo di non sapere attirasse tanto l’attenzione dei suoi concittadini. Ci sarà stata anche curiosità, non è da escludere, ma l’argomentare di quell’uomo era ammaliante.
Socrate è un uomo normale, un soldato valoroso, con l’unica debolezza di pensare, una malattia che finisce per contagiare chiunque incontrasse, i seguaci e quelli che gli sono ostili e che spesso lo prendono in giro.
Socrate non ha una scuola e non ne sente il bisogno, non prende un appunto e per tutta la vita non scriverà una riga, unico strumento la parola, il logos. Sembra tornare ai tempi remoti dei cantastorie, alla felice stagione della poesia e delle storie meravigliose che hanno dato vita alla cultura greca, e forse Socrate un po’ cantastorie lo è, laddove affida alla parola i contatti con i suoi concittadini.
Lì, però, la similitudine si ferma: i cantastorie fanno volare le loro storie sulle ali della poesia e hanno bisogno di un pubblico, Socrate non ha storie da raccontare, ma ne ricerca una soltanto, difficile da trovare perché invisibile, venendo da dentro, il pubblico non gli serve, gli basta uno solo dei suoi simili con il quale intrecciare un dialogo, che procede per domande successive, un metodo mai sperimentato e che i posteri definiranno induttivo.
Socrate mette al centro della sua speculazione l’uomo, accantonando i filoni classici della filosofia greca, dalla cosmologia al naturalismo.
Che si può dire di un uomo che i contemporanei giudicavano il più sapiente di tutti i greci, se non il più vieto dei luoghi comuni e la più greve delle banalità? Se li uso per una volta – di altre non mi sono accorto, ma non sono stato mai autolesionista – credo che mi perdonerete. Lo faccio allora?
Avverto che per una volta me lo concedete. Allora lo faccio: Socrate è uno degli uomini più eccezionali che abbia mai attraversato questa valle di lacrime. Ecco, l’ho fatto.
D’altra parte, sono in buona compagnia con chi ci ricorda che non c’è stato un solo uomo nella storia del mondo, che non abbia scritto una riga, al quale siano stati dedicati non un fiume, ma innumerevoli fiumi d‘inchiostro; con chi lo considera per i suoi modelli di vita un cristiano ante litteram, tra gli altri,o uno dei più grandi umanisti del ‘400, Erasmo da Rotterdam, che lo invocava durante la giornata più volte – Sancte Socrates ora pro nobis -; con chi, tra l’umanesimo e il rinascimento vide in lui uno dei modelli più alti di quella umanità ideale che era stata riscoperta nel mondo antico; con chi tra gli illuministi lo considera un eroe della tolleranza e della libertà di pensiero.
Per me, Socrate è solo un uomo greco del V secolo, che quando incita a conoscere sé stessi richiama il motto scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, un uomo che ha ereditato una cultura elaborata per secoli e che conosce perfettamente, ma considera ormai insufficiente, un uomo che, attraverso il pensiero e il dialogo, tenta di afferrare il fine ultimo dell’esistenza, che pone la morale al di sopra dei falsi idoli del denaro e del potere, senza rotture con il passato e l’attualità dei suoi tempi, senza eccessi rivoluzionari, senza rinnegare la natura dell’uomo come animale politico, ché anzi pretende dalla politica il massimo della virtù perché la polis solo dalla politica può essere guidata.
Zero slogan, nessuna parola intrisa di demagogia, utile solo ad accattivarsi le simpatie dei suoi concittadini, ma una speculazione profonda mai tentata prima di lui.
Un uomo accusato di empietà per aver rinnegato la religione ufficiale della polis e per aver corrotto la gioventù ateniese e condannato a morte, un uomo che tutti i più grandi avvocati, a cominciare da Lisia, avrebbero voluto difendere, ma che volle difendersi da solo per spiegare come entrambe le accuse fossero infondate, un uomo che non ebbe cedimenti di fronte a un potere che lo considerava ingombrante, un uomo che rifiutò l’aiuto dei suoi amici e dei suoi allievi, disposti a corrompere per farlo fuggire e salvargli la vita, spiegando che, pur essendo innocente, la sua colpevolezza era stata pronunciata da un Tribunale e lui non avrebbe violato la legge, l’avesse fatto avrebbe messo nel nulla tutto quello in cui aveva creduto nella vita. Nel Critone Platone gli fa pronunciare queste parole: «è meglio subire ingiustizia piuttosto che commetterla».
Un atteggiamento diverso da quello di Antigone, nel dramma supremo di Sofocle, rappresentato solo quarant’anni prima, dove, il conflitto tra leggi ingiuste e diritto naturale, ispirato alla morale degli uomini di tutti i tempi, si conclude con un bagno di sangue.
La condanna era già scritta, anche se, difendendosi davanti all’Areopago, Socrate ricordò ai giudici che le domande che aveva fatto per tutta la vita, sarebbero rimaste anche dopo la sua morte.
La sentenza di morte viene eseguita in un tristissimo giorno del 399 a.C., primo anno del nuovo secolo. Socrate vive quel giorno come aveva sempre vissuto, parlando di filosofia, in tutta serenità, circondato dagli amici e seguaci che aveva voluto con sé.
Quando l’incaricato gli porta la tazza con l’infuso di cicuta, la prende senza esitare e si rammarica con gli amici perché non gli avevano ubbidito quando aveva chiesto di vivere quel momento con la sua stessa serenità e in letizia. Poi comincio a bere e il veleno fece effetto dalle estremità per salire lentamente. Per tutto il tempo, mentre la paralisi, si estendeva continuò a parlare di filosofia, in quei momenti di immortalità dell’anima, fino a quando il suo cuore generoso si fermò.
Troppo facile ordinare a chi lo amava di non disperarsi e di non piangere quando sta per lasciarti il migliore degli amici e il migliore dei maestri, ma essi ebbero il privilegio di ascoltare le ultime parole «dell’uomo più sapiente dei greci».
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Confesso che Platone mi ha sempre messo in soggezione, sarà la monumentalità della sua opera, sarà l’influenza che ha esercitato e continua a esercitare ancora ai nostri giorni, sarà per la leggera antipatia che m’ispirava per aver teorizzato il governo dei filosofi, dei «migliori», anticamera dei regimi autoritari, non saprei dirlo.
Poi, però, rifletti meglio e capisci di trovarti di fronte a uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi.
Nasce ad Atene nel 428 a.C. e, ancora adolescente, diventa uno dei seguaci di Socrate. Come tutti gli allievi vive drammaticamente la morte del Maestro e come loro è ossessionato dal monito da lui rivolto ai giudici il giorno del processo: «non vi illudete che, uccidendomi, riuscirete a esorcizzare le domande che io ho rivolto agli ateniesi, io parlavo loro del fine ultimo dell’esistenza».
Tra i discepoli si sviluppò quasi una gara a ricordare il Maestro. In realtà non ci fu nessuna competizione, ma tutti volevano riprendere, per consegnarli all’eternità, le parole, i ragionamenti, il metodo seguito da Socrate. Degli scritti di molti sono rimasti pochi frammenti, mentre di altri, Senofonte, Dialoghi e Memorabili, e Platone, Dialoghi, abbiamo l’intera opera.
Senofonte è un grandissimo narratore, scrive un libro, tra storia e romanzo, Anabasi (La Spedizione), tra i più belli mai scritti per chi ama l’avventura; ama Socrate, lo ricorda con commozione, ma Platone è un’altra cosa, voglio dire che l’allievo, già filosofo, parla lo stesso linguaggio del Maestro e si rivela tra i più grandi, meravigliosi, scrittori di tutti i tempi.
Fin dai primi dialoghi dedicati al Maestro, Platone ne ricostruisce la figura con una freschezza e un’immediatezza prive di retorica. A chi legge sembra di partecipare alla conversazione, di stare nello stesso giardino, nello stesso mercato, di seguire anche con gli occhi i gesti del grande Socrate.
Platone fonda la propria scuola in una località vicino ad Atene chiamata Accademia, nome che verrà mantenuto anche quando la scuola si trasferirà in centro città e che rimarrà nei millenni tra le parole più usate per definire i luoghi di condivisione della cultura.
Nella vita di Platone ci saranno tre stagioni, quella della gioventù, quella della maturità e quella della vecchiaia, cui corrisponderanno forme diverse di speculazione e di linguaggio, senza, tuttavia, che le qualità eccelse dello scrittore sbiadissero. Solo i temi diventavano più complessi, mai, però, a scapito della immaginazione.
Platone fu l’ultimo creatore di miti quando in Grecia si erano esauriti. Il celeberrimo mito della caverna, che il filosofo usa per farci capire la differenza delle due forme di conoscenza: l’opinione (doxa), incerta e variabile, la scienza (epistème), certa e stabile.
Il mito appare nel 7° libro de La Repubblica dove si parla delle migliori forme di governo e del rapporto tra giustizia e politica, ancora in forma di dialogo con protagonista sempre Socrate, il quale conclude che solo la preparazione filosofica consente di uscire dalla caverna, cioè abbandonare le opinioni e abbracciare la scienza, con corollario necessario la legittimazione dei soli filosofi a governare lo Stato.
Si può condividere o meno e io ho già detto di non condividere l’incubo del governo dei migliori, ma nessuno come Platone ha raggiunto la metafisica attraverso la speculazione e ad un tempo l’immaginazione. Quello della caverna non è l’unico dei miti elaborati dal Maestro; ne scrisse almeno una ventina, che s’inseriscono nella teoria delle idee, che nella lingua greca ha un significato diverso dalla nostra. L’idea è la forma.
Ormai, però, Platone è vecchio e forse preoccupato dalle critiche del suo discepole più brillante, Aristotele, che l’accusa di scarso realismo e per l’insanabile contraddizione tra il mondo delle idee e quello empirico, che tenta di superare con la figura del Demiurgo, semi-dio mediatore tra le due dimensioni e ordinatore del caos, una specie di anima del mondo.
Troppo complicata l’evoluzione della filosofia platonica per cercare di penetrarla: non è questo il libro e ancor meno sarebbe adeguato il vostro narratore. Quel che conta è che Platone per tutta la vita ha cercato il bene, sintesi di tutte le qualità dell’uomo e presupposto necessario della crescita armoniosa dello Stato.
La sua influenza nell’antichità fu enorme. Scuole destinate a forgiare l’umanità per molti secoli, come lo stoicismo, l’epicureismo e il neo-platonismo traggono linfa dal grande filosofo ateniese; e molti studiosi hanno affermato che il cristianesimo ha un debito perenne con Platone, argomentando principalmente dalla Città di Dio di Sant’Agostino, uno dei libri più belli mai scritti, che riecheggia lo Stato ideale nelle pagine immortali de La Repubblica.
L’occidente riscopre Platone durante l’Umanesimo fiorentino, ma ancora oggi se ne parla, a volte con accenti critici, come fa Karl Popper, il maggior filosofo liberale del ‘900, che lo considera un comunista, quasi, un anticipatore della società egualitaria di Karl Marx, ma quest’ultimo, a sua volta, l’aveva aspramente criticato per aver diviso la società in caste e per la natura aristocratica della sua utopia.
Platone, che aveva viaggiato più volte in Sicilia, muore ad Atene nel 348 a.C.
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Una continuità mai più verificatasi, un filo d’oro, unisce Socrate, Platone e Aristotele, tre uomini cui dobbiamo la civiltà e il pensiero occidentali.
Platone è stato il più grande dei discepoli di Socrate, Aristotele lo è stato di Platone.
Aristotele nasce nel 385 c.C. a Stagira nell’estremo nord della Grecia a confine con la Macedonia.
Figlio di un medico, appena adolescente raggiunse l’Accademia di Platone, ma già allora aveva maturato un’educazione superiore, impegnandosi in studi e ricerche su tutto lo scibile umano.
A quarant’anni era già famoso in tutta la Grecia e nel 343 a. C. Filippo II lo chiamò per educare il figlio Alessandro, che all’epoca aveva 14 anni. Per due anni rimase a Pella, ma neppure Aristotele poteva immaginare il destino del suo prodigioso allievo. La leggenda vuole che donò al giovane una edizione speciale, rilegata, dell’Iliade e dell’Odissea, che Alessandro portò con sé in una sacca da cui non si separò mai, né in battaglia, né nei suoi fantastici viaggi.
La leggenda potrebbe avere un fondo di verità, anzi è facile che sia vera, anche se con essa si voleva significare che Alessandro era imbevuto di cultura greca, come in effetti lo era, senza dimenticare, però, che fu anzitutto un macedone.
Lasciata Pella, dopo altre peregrinazioni, Aristotele tornò ad Atene dove nel 335 fondò la sua scuola in un pubblico ginnasio chiamato Liceo e le diede il nome di Peripato, passeggiata, quella parte coperta del giardino dove il Maestro e gli allievi erano soliti discutere passeggiando. I costi della scuola vennero sempre pagati da Alessandro a testimonianza del legame che l’aveva sempre unito al Maestro.
Io non so se la produzione di Aristotele possa essere definita enciclopedica, quel che è certo è che si occupò di tutte le branche del sapere. Attraverso un’opera prodigiosa, che si stenta a credere come abbia potuto compierla, avendo affrontato studi di metafisica, di fisica, di biologia, di psicologia, di etica, di politica, di poetica, di retorica e di logica. Da non credere!
Per questo Aristotele dominò la cultura occidentale fino al 17° secolo.
L’ammirazione verso il Maestro, «l’uomo che i malvagi non hanno neppure il diritto di lodare», era sconfinata, al punto di non fare mistero della sua convinzione che le teorie attribuite a Socrate nei dialoghi fossero state concepite in realtà da Platone.
La venerazione per il Maestro non gli impedì di discostarsi dalla sua possente costruzione filosofica.
Quella di Aristotele, possiamo azzardarci, è una concezione fortemente realista, influenzata dall’esperienza sensibile. L’idea ideale e immutabile lascia il posto alla materia, che può essere anche spirituale, ma è quella che muove l’esistenza di ogni persona. Scrive Aristotele: «il binomio statico di materia e forma si risolve quindi in quello dinamico di potenza e atto».
Malgrado tutto, Aristotele non riuscì a liberarsi del tutto dall’anelito alla trascendenza del Maestro, ma nell’etica se ne discosta più sensibilmente, laddove afferma che la separazione dell’anima dalla schiavitù del corpo dipende soltanto da concrete capacità pratiche.
Alla politica e all’«animale politico» per eccellenza, l’uomo, Aristotele dedica VIII libri e la sua è l’apologia della polis: «… limita con le sue leggi la natura dell’uomo … lo Stato risponde ai bisogni naturali dell’individuo e ogni Stato è una comunità (koinonia) e ogni comunità si costituisce in vista di un bene … ‘bene’ perseguito dallo Stato, in quanto comunità più importante che comprende tutte le altre» (tornerà a parlarne nell’Etica Nicomachea). Qui la rottura con il Maestro è radicale, a differenza di Platone, per Aristotele la politica ha una certa autonomia rispetto alla filosofia: il politico e il legislatore possono svolgere bene il proprio compito grazie alla loro saggezza pratica. I politici, però, debbono avere cultura e conoscenze e debbono aspirare alla filosofia, da studiare nel tempo libero alla pari della matematica, la fisica, la cosmologia.
Non credo che Aristotele, frequentando ai nostri giorni le nostre assemblee elettive, rimarrebbe contento, sicuramente troverebbe qualcuno che gli direbbe: scansati, tu sei antiquato.
Nel 322 a. C. a Calcide, Aristotele lascia questo mondo con un testamento dall’incipit meraviglioso:
«Andrà senz’altro bene, ma qualora capitasse qualcosa …».
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Ma come, questo popolo in meno di due secoli ha sconfitto la potenza più forte che l’antichità abbia mai conosciuto, con i suoi commerci e la sua cultura ha illuminato il Mediterraneo, esce di casa e porta i bambini a spasso tra i frontoni del Partenone e le statue di Fidia, i più audaci arrivano all’isola di Cnido per ammirare le forme dell’Afrodite di Prassitele, parla nelle assemblee pubbliche e partecipa al governo della città, scrive romanzi quando altrove si fanno i numeri con i nodi ai fazzoletti, indaga il senso della vita e l’immortalità dell’anima, e poi prima Alessandro il Macedone e poi i Romani lo relegano ai margini della storia?
In realtà non è andata proprio così: l’impero di Atene sarà stato il più breve della storia dell’uomo, ma nessun impero si è congedato, lasciando i dialoghi di Platone, il Partenone, l’Afrodite cnidia, la Venere di Milo, la Vittoria di Samotracia, il sapere e la bellezza come firma d’autore.
EZIO CALDERAI (CONTINUA)
Caro Ezio ti meravigli giustamente della genialità di Socrate.
E’ il periodo assiale che fa nascere qualcosa che è per l’eternità umana.
Un asse per la storia universale tra l’800 ac e il 200ac.: Confucio, Laozi, le Upanishad, Il Buddha,Zarathustra, i Profeti di Israele, i Pre-socratici, Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone, Aristotele……
Di certo Socrate è colui che più si avvicina al nostro modo di vedere il mondo.
Tutto in lui è logos. La sua morte è la quintessenza del logos. Basti pensare alla modalità della morte del Cristo, tutta passione e tragedia.
Per Platone che dire? Come si è detto varie volte: la filosofia antica, medievale, moderna è null’altro che una nota a piè di pagina dell’opera platonica.
Le tue riflessioni sempre interessanti e piacevoli mi fanno riflettere su quello che più di ogni altra cosa mi attrae e dovrebbe essere di insegnamento al nostro mondo: la “paideia”.
Vorrei riflettere su questa enorme ricchezza che ci ha lasciato il mondo greco. Vorrei rispondere in tal senso ai programmi “scolastici” che si vanno realizzando secondo l’attuale compagine governativa.
Vedi, dunque, quanto ancora dobbiamo attingere a questo mondo (il nostro Grund) che tu ci rammenti settimanalmente.
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” Caro Ezio, ti scrivo, così mi calmo un po’…”
Quanta philos-sophia, sei forse stato allievo del professor Trevi ( Società Italiana di Psicoanalisi) al Liceo?
E’ la morte di Socrate ad avviare la carriera di Platone e ovviamente i dialoghi socratici dimostrarono che Socrate era stato ingiustamente condannato.
In Platone si aggiunge la ricerca e il procedimento di indagine nell’ esporre la dottrina delle idee. L’altra dottrina fondamentale è la teoria della reminiscenza, per cui la conoscenza emerge gradualmente nel corso della discussione, come accade nel Lachete.
Sono legata ad un passaggio del Fedone in cui Socrate afferma che filosofare significa fare le prove per la morte( Non dobbiamo porci domande su quello che abbiamo sotto gli occhi concretamente…)
Noi siamo immersi nell’ universale, per questo é corretto usare il termine ” il mondo delle idee”.
E se vogliamo avere la visione della vita dopo la morte, leggiamo il mito di ER alla fine de la Repubblica.
Grazie Ezio. Paola
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