IL CACIO

di CARLO ALBERTO FALZETTI

 Domenico Tiburzi, detto Meco,  aveva morto un bel verro sulle coste argillose del Ventre Cupo che s’affacciano alla vista di Capalbio. Un coscio della bestia tagliato e nettato di tutto l’ispido pelame s’aveva a dare a Nonno Eraclio che dimorava laggiù, in basso, nel  padule di Burano  alla marina.

Glielo doveva per una soffiata andata nel verso giusto.

Così, il brigante, si incamminò, cauto come sempre, verso la meta con quel fardello che intanto si frollava nel grosso tascapane a tracolla.

Nonno Eraclio era da sempre uno dei tanti  guardia della tenuta  del Principe di Piombino . Viveva là nel mezzo delle giuncaie in un casolare sbilenco con le mura spesse che residuavano da una rude torre  a sentinella dell’antico pericolo saraceno. Nelle tre stanze affumicate viveva Eraclio, il suo figliolo di trentanni ed il nipotino Mecuccio che portava il nome in onore del re di macchia. La mamma se l’era portata via da anni la perniciosa che lì, nel ristagno delle acque, trovava il suo incontrastato regno.

Nonno Eraclio aveva appena salutato il figliolo che era andato a spedarsi nei fitti viottoli  attorno al padule a caccia di beccaccini ed alzavole. Aveva nostalgia il vecchio che non riusciva a perdonare al Padreterno d’avergli  calato il velo sugli occhi impedendogli il suo affaccendarsi venatorio.  Guardava il figlio allontanarsi col suo vecchio schioppo dopo averlo riempito dei soliti petulanti ammaestramenti sul volo e le abitudini dei pennuti lacustri. Parole dette e rimasticate tante volte da non essere più ascoltate, ma per Eraclio erano il mesto consòlo alla sua inerzia obbligata.

Prese lo zappone e si diede ad estirpare l’erbaccia. Dalla finestra  Mecuccio scrutava la scena. Non poteva metter piede oltre l’uscio perché la tosse convulsa lo tormentava. Tormentava quel corpicino gracile e smunto sormontato da una testolina curiosa di tutto,  sempre pronta ad agitarsi ad ogni minima novità. Col suo eterno pigiametto  di feltro, col naso schiacciato sul vetro guardava con contentezza il Nonno accanirsi sulla malvagia zolla.

D’un tratto, il bimbetto aprì la porta e,  prendendo coraggio, disse con la su’ vocina triste: “ Oh Nonno  posso sortir fora per qualche attimo, che me lo permettete?”

Nonno Eraclio non ebbe il tempo di urlare il divieto che la tosse cominciò a prendere il sopravvento.

Ma ecco che all’improvviso, silenzioso come una volpe nell’ agguato, comparire il re di macchia che rapido si infilò nella casa col suo regalo appetitoso.

Nonno Eraclio corse subito a tirar fuori un cacio immacolato ed un rosso dal colore rubino. Due preziosità che, mostrando con fierezza la loro giusta stagionatura, suscitarono le meraviglie del brigante. “Oh come hai di queste cose? Mi fai sospettare. In casa  siete solo voi due? Non mi starai tirando un brutto tiro? Bada, t’accoppo prima! ”.

Eraclio s’affrettò a quietarlo. Il cacio “bono” ed il vino di qualità erano stati sgraffignati perché il Principe aveva fatto una delle sue rare visite in zona per una battuta di caccia con tanto di ospiti e relative vivande succulente. Alla fine del giorno, spariti i padroni,  s’era fatto sacco tra gli addetti degli avanzi di certo generosi.

Tiburzi tranquillizzato continuo a trangugiare il vino e a dar di taglio alla tonda “formetta” di cacio dalla crosta gialla paglierino. Mecuccio era lì ritto in piedi con gli occhi sbarrati ad ammirare Meco, l’uomo di fama. Tagliava la fetta con la lama a foglia del suo affezionato coltellaccio di Scarperia. Poi, afferrato con la mano sinistra il pezzo di cacio ne toglieva con cura tutto il contorno.  Cominciava ad affettare con la destra il boccone che subito portava alle labbra prima che il taglio fosse terminato . Una liturgia cadenzata, interrotta ogni tanto dalle sorsate impetuose del rosso ben invecchiato. Tutta la scena attirava la curiosità di Mecuccio.

Ad un tratto Meco si bloccò. Un moto dell’anima lo percorse, moto insolito per quel cignale selvatico ed ombroso. Chiuse la lama e porse l’arnese a Mecuccio perché lo osservasse da vicino. Il bimbo accarezzò con amore la punta di corno del manico. S’avvide che due incisioni correvano lungo tutto il nero manico che terminava nel calcagno a forma di pinna. L’emozione era al colmo: aveva tra le sue mani il coltellaccio del Tiburzi, proprio quello che chissà quanto aveva terrorizzato la gente.

Quanto avrebbe goduto a raccontare quella visione: lui accanto al re da tutti temuto, da nessuno visto. Ma a chi poteva raccontare confinato com’era, in quel tugurio, immerso nel pieno del padule?  Guardava il cacio che, lentamente spariva nella gola del brigante che, dopo aver ripreso il coltello, silenzioso ed affamato non distoglieva lo sguardo dal tavolo.. Mecuccio stava assistendo ad uno spettacolo inimmaginabile. Mecuccio di fronte al re del bosco e senza tradire alcunché di paura.

 Poi, l’eccitazione cominciò a far sentire i suoi effetti e di nuovo riprese a tossire senza più freno.

Nonno Eraclio provò a spiegare al brigante quanto sarebbe stato prezioso un suo aiuto. Una medicina, un farmaco, un sollievo. “ Meco, tu pole fa qualcosa. Io lo so! Non me lo abbandonà così. Il chinino, dicono, che è la cura giusta. Meco tu lo poi avè. Tu puoi, Meco. Facce grazia. Non me lo abbandonà.”.

Ricevuta qualche assicurazione Eraclio fece uscire il brigante che, bofonchiando parole incomprensibili, rapido guadagnò la strada verso i monti di casa.

“ Nonno, nonno. Venite…venite”

Un fiotto di catarro uscì fuori dalla bocca di Mecuccio. Eraclio abbracciandolo sentì la vampa della febbre. Il bambino cominciò a fremere invaso da una tosse imponente che non cessava un attimo.

Nonno Eraclio a forza riuscì a mettere quel corpicino sulla sua rapazzola . Forse l’emozione della giornata che aveva di colpo rotto la mesta monotonia dei giorni, forse quel cuoricino che aveva troppo palpitato.

“Signoreiddio perché? Se moro prima io chi avrà cura i questo figliolo col padre che deve sta sempre fora a lavorà? Se more prima lui perché io devo campà? Boia cane!”

Eraclio curvo su se stesso piangeva senza lacrimare tormentato da quella tosse maledetta che non dava tregua “ Bimbino caro che po’ fa il nonno? Che po’ fa ? Eh Dio bono, perché? Perché tanta cattiveria…Icchè s’è fatto di male al mondo?”.

Poi  d’un tratto la tosse si chetò.

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Oggi il lago di Burano è una tenuta imponente di proprietà milanese confinante con Ansedonia . L’agro attorno a Capalbio è meta ambita di seconde case di eccellenza. Chi può immaginare cosa fosse quella terra un tempo. Alla gente di oggi piace sentir cantare che” l’uccello perse la penna e che ci si è persa la persona cara”. Ma,  Mecuccio, Meco, Eraclio, la mamma senza nome  non sono solo folclore da esibire.

Quando passi, lettore, lungo l’Aurelia prova ad immaginare una realtà diversa. Se ci riesci.

CARLO ALBERTO FALZETTI

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