I CANTASTORIE TRADITI — COME SI DISTRUGGE IN CINQUANT’ANNI E SPICCI UNA CIVILTÀ COSTRUITA IN TREMILA ANNI.

di EZIO CALDERAI ♦

Capitolo 14: L’arte che crea la vita: i miti e la storia e la civiltà nate dalla bellezza

   I cantastorie hanno fatto molto, ma molto di più.

   La Teogonia di Esiodo sicuramente non fu la prima narrazione sugli Dèi. Del resto, tutti i popoli che nei secoli erano emigrati in Grecia e nelle sue isole portavano con sé le proprie tradizioni, i propri costumi e con essi il proprio pantheon. Dai Balcani e forse dal sud della Russia venivano gli Achei, gli Ioni, gli Eoli e i Dori, dall’oriente i primi abitanti di Creta.

   Ciascuno aveva le sue storie, le scambiava con quelle degli altri, storie che, circolando, si arricchivano di particolari, si affinavano. I popoli giunti in Grecia erano giovani, affascinati da questi racconti, dalle imprese che venivano narrate, consideravano i protagonisti di queste imprese, specie gli eroi, modelli da imitare.

   Storie e racconti s’incrociano anche con quelli di popolazioni molto più antiche, egiziani, fenici, urriti, sumeri, assiri, le ultime tre figlie della Mesopotamia, la terra dei grandi fiumi, il Tigri e l’Eufrate, dove da tempo immemorabile era nata la scrittura e i primi codici delle leggi.

   Nel terzo millennio a.C. questi popoli elaborano le difficoltà dell’esistenza, la furia degli elementi, tempeste, inondazioni, le bestie feroci in agguato, la paura che si rinnova tutti i giorni, sempre eguale, grazie ai racconti che si scambiano nelle notti d’inverno, stretti gli uni agli altri per il freddo.

   Questi racconti rimangono nell’immaginario collettivo anche quando gli uomini capiscono come difendersi meglio da un ambiente ostile, costruiscono città, le cingono di mura, si diffondono in tutto il Medio Oriente e in Africa, raggiungono il Golfo Persico, toccano l’India.

   La paura è sparita da quando i successi cominciano a prevalere sui rovesci.

   Nel secondo millennio a.C. una rete di contatti s’irradia in tutto il mediterraneo, i mercanti e gli avventurieri si raccontano le rispettive esperienze molto prima dei poemi di Omero e di Esiodo.

   La ragnatela di questi racconti crea un universo parallelo, insieme di fantasia e di sublimazione della realtà, popolato di animali fantastici, di foreste incantate, di esseri soprannaturali, giganti, titani, centauri, ninfe, muse, erinni. Un universo governato dagli Dèi.

   In questo universo vivono, come foglie al vento d’autunno, i mortali e tra essi solo gli eroi hanno un ruolo nella grande commedia. La natura degli Dèi, che hanno le stesse passioni degli uomini e ad essi talvolta si uniscono, tradisce lo scopo di questa divina trasfigurazione del reale.

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   Nessuno, come i greci, è riuscito a trasformare ricordi ancestrali in strumenti di conoscenza, capaci di regolare l’esistenza degli uomini. Sono consapevoli che sopra di loro c’è un ordine superiore, ma sanno anche che il potere degli dèi va preso con le molle, poiché anch’essi hanno debolezze e commettono errori, come e più dei poveri diavoli che strappano la vita con i denti tutti i santi giorni, imparando a conservare il cibo, sempre scarso, andando per mare a dispetto di Poseidone, maturando la convinzione che sopra gli dèi c’è Dike, la giustizia.

   Questa, però, non sarebbe altro che una mera evoluzione antropologica, invece, in Grecia si compie un miracolo che l’uomo moderno inutilmente negli ultimi secoli ha cercato di realizzare: l’arte che crea la vita, non il contrario.

   Il miracolo avviene quando storie e racconti vengono raccolti da uomini curiosi, che poi li avrebbero cantati e trasmessi a uomini, donne e bambini in ogni villaggio che raggiungono nel corso delle loro peregrinazioni. Lungo i secoli questi artisti straordinari elaborano un materiale sterminato, gli danno forma compiuta e creano la meraviglia delle meraviglie: i miti dell’antica Grecia.   

   Nessuno può dire quanti di essi abbiano avuto coscienza che proprio i racconti costituivano il mezzo pressoché esclusiva per catturare e trasmettere la conoscenza, né quando questa consapevolezza si sia fatta strada. Il come, il quando, il perché, tuttavia, hanno poca importanza, quel che conta è che con i miti sia stata trasmessa ai greci l’amore, il dramma dell’esistenza. la sapienza, la disciplina dell’ordine famigliare, l’educazione, il rispetto e la conoscenza della natura, la cura dei corpi e delle anime, prima ancora che Pitagora nel VI secolo a.C. dicesse che tutti gli uomini ne hanno una.

   Il mito è educazione e l’educazione richiede maestri, che, a partire, dall’VII secolo a.C. fondano innumerevoli scuole. 

   In nessuna parte del mondo, in nessuna epoca, in nessuna cultura, anche di quelle che hanno dato vita a civiltà millenarie, si è verificato qualcosa di simile ed è semplicemente prodigioso che uomini e donne che in tutta la loro vita raramente, sfiniti dalla durezza del lavoro, riuscivano ad alzare la testa, all’arrivo del cantastorie si fermassero, si sedessero in circolo e rivolgessero il capo verso il cantastorie che con la sua voce e la musica della sua cetra li avvinceva. 

   Il mito è il racconto della vita sublimato dalla poesia: senza la qualità poetica si sarebbe disperso un attimo dopo che il narratore avesse posato la cetra. Invece i miti sono rimasti, da tremila anni se ne parla, ti emozionano quando sfogli le pagine dei libri che li riportano, ti stupisci quando rifletti sulla loro perfezione, sulla qualità dei versi, sulla freschezza dell’inventiva, sulla naturalezza della fantasia, ti chiedi se senza di essi sarebbe potuta nascere la filosofia o addirittura la psicanalisi.

   Pochi come i romani li hanno amati, i loro poeti su di essi hanno scritto opere immortali, come le Metamorfosi di Ovidio, di bellezza incomparabile.    

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   Anche se girovago solitario, il cantastorie sa di non essere solo e sa pure che in occasione delle feste dionisiache o anche di feste di minor importanza, incontrerà molti colleghi, la maggior parte mai visti, e con loro sarà in competizione per i premi in lizza.

   Sempre più spesso, rinunciando a sterili gelosie, impareranno gli uni dagli altri, si mischieranno ai mimi, alle danzatrici, gli strumenti musicali diventeranno sempre più numerosi.

   La loro esibizione, tra la meraviglia degli spettatori, sarà simile a un vero e proprio spettacolo, uno spettacolo popolare che si sostiene sulla poesia, sulla magia di versi spesso di rara bellezza, sulla grazia delle giovani danzatrici, sui mimi che più degli altri attirano la curiosità dei bambini.

   Sembra un miracolo, tuttavia, come ormai in molti sostengono, è proprio da questa rappresentazione composita che prenderanno forma le tragedie e più spesso le commedie attiche.

   I cantastorie non spariranno, continueranno a girare non soltanto tutta la Grecia e l’intera Europa, ma alla fine del ‘400 a.C., quando la prosa ebbe la meglio sulla poesia, quella cultura popolare finì.

   Rimasero le storie, rimase la poesia, ma i mimi e le danzatrici trovarono il loro posto in Teatro.

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   Si può dire che, attraverso la narrazione e il mito, innumerevoli straordinari poeti hanno creato una lingua, hanno letto e anticipato i cambiamenti dei costumi, hanno contribuito ad acuire la sensibilità degli uomini e delle donne ed a formare le loro istituzioni.

   In nessun luogo più che ad Atene questi movimenti si sono affermati.

   Leggendo il mito di Icaro che perse la vita per dimostrare che l’uomo poteva volare, o quello di Teseo e il Minotauro, si capisce la grandezza di Atene, si spiega come una città-stato relativamente piccola potesse sconfiggere gli sterminati eserciti dei persiani dominatori d’oriente, diventare la prima potenza marittima del mediterraneo al tempo conosciuto.

   Non perché io abbia una preferenza, impossibile da celare, per Atene, è un fatto che nel V secolo a.C., all’epoca del suo massimo splendore quella città non avesse eguali nel mondo e non li avrà nei millenni successivi.

   Solo la Firenze del Rinascimento e la Vienna di fine ‘800 potranno esserle paragonate.

EZIO CALDERAI                                                                     (CONTINUA)

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