Scelgo sempre Leopardi

di CATERINA VALCHERA

Sospinta dall’amarezza e dalla delusione per aver dovuto rinunciare a condividere  il magnifico evento di cui la nostra Associazione è stata promotrice e co-organizzatrice, ho cercato consolazione nella voce di un classico, di un’ amichevole fonte di saggezza da accostare al conforto delle vostre affettuose testimonianze. La voce di Epitteto che mi arriva attraverso quel vademecum morale che è il suo Encheiridion, un manuale tascabile di neo-stoicismo, che Leopardi “volgarizzò”, tra il novembre e il dicembre del 1825,facendolo precedere da un suggestivo Preambolo, per illuminare le ragioni della scelta: Non poche sentenze verissime, diverse considerazioni sottili, molti precetti e ricordi sommamente utili, oltre una grata semplicità e dimestichezza del dire, fanno assai prezioso e caro questo libricciuolo. Precetti per raggiungere una tranquillità d’animo che il grande recanatese, disperato assertore della potenza del desiderio generato dall’amor sui, chiama però freddezza d’animo, o noncuranza, o vogliasi indifferenza. La sua  è invero una splendida traduzione, ma gli stralci qui riportati provengono  da una versione corrente per alleggerirne la lettura. Questo testo di filosofia pratica, secondo Leopardi, è davvero “profittevole” nell’uso della vita umana e più acconcio alle persone non eroiche ma temperate e mediocremente forti o anche deboli, come sono generalmente i moderni rispetto agli antichi. Dunque giusto per me, soprattutto in questo particolare momento. Ascoltiamo alcuni degli insegnamenti così “maneggevoli”, come li definisce il poeta, a partire dall’incipit lapidario e incontestabile: Tra le cose che esistono al mondo, alcune sono in nostro potere, altre no. Dipendono da noi un’opinione, un desiderio, un impulso, un rifiuto e, in una sola parola, quanti sono i nostri atti. Non sono invece in nostro potere il corpo, i beni, la reputazione, le cariche e, per dirlo in una parola,quante non sono nostre azioni. Basterebbe già questo, mi dico, per allentare il risentito dispiacere di cui sono ora “schiava”. Epitteto mi ricorda, subito dopo, che è mio soltanto ciò che mi appartiene e che solo tenendo presente questo principio, niente potrà ostacolarmi, danneggiarmi, risultarmi dannoso. Naturalmente ciò vale solo se si parte dal catechistico concetto che la felicità consiste nell’allineamento del proprio Io interiore al Logos universale. Il consiglio è che, in attesa di decidere come comportarsi di fronte alle cose, tra percezione, rappresentazione e adesione al Logos (i tre gradi della conoscenza) sarà meglio “prendere tempo”, rinviare, osservando con attenzione e valutando con maggior cura la “rappresentazione” che ci colpisca per la sua asprezza. Mi pare di essere già più calma per poter fare buon uso delle rappresentazioni di ciò che è esterno a me. Come suggerisce Epitteto, eliminerò del tutto il desiderio nel momento presente, perché se riguarda una delle cose che non sono in mio potere, “è necessario” che io fallisca. Ma che libertà è allora la mia, se chiama in causa il concetto di necessità? Libertà di fede nel Logos. Forse non fa per me, ma sento congeniali al mio caso le distinzioni che indica Epitteto e soprattutto il suggerimento finale del secondo capitoletto: Utilizza soltanto lo slancio e l’avversione, tuttavia in modo leggero, con riserva e liberamente. Un dolce-perentorio  invito alla temperatio. E ancora più vero, perennemente vero, mi pare l’esordio del quinto: Non i fatti turbano gli uomini, ma i giudizi sui fatti. Per esempio la morte non è nulla di terribile (poiché tale sarebbe sembrata anche a Socrate), ma il giudizio sulla morte, e cioè che sia terribile, quello è terribile. Dunque qualora siamo ostacolati o sconvolti, o addolorati, non dobbiamo mai ritenere responsabile nessun altro, ma noi stessi, cioè i nostri giudizi. Certo, se la metti in questi termini, caro Epitteto, il dispiacere di aver perduto un’occasione sociale e culturale a me cara diventa futile, anzi errato, basato su un giudizio infondato. Sarà…Se non mi sento persuasa è forse perché non ho raggiunto lo stadio di chi è educato alla filosofia (il terzo livello) e sono ancora in cammino, incolpo la sorte o i “lacciuoli” familiari , sono ancora una persona “ignorante”, visto che  continuo a dirmi, sbagliando, “L’ho persa” e continuo a provare una sorta di desiderio retrogrado. Riguardo il testo e mi capita sotto gli occhi il minicapitolo ottavo: un comandamento laico, data la concentrazione sentenziosa, un vero apoftegma: Non desiderare che gli avvenimenti accadano come vuoi, ma desidera che avvengano come si verificano e sarai sereno.  Santo cielo, mi viene in mente Renzi! Però devo riconoscere che Epitteto ha un’alta considerazione dell’individuo, come di un essere capace  di trascurare ciò che non dipende da lui; ma soprattutto apprezzo il passaggio (cap.25) in cui dice, parlando di qualcosa che altri hanno ottenuto: Se sono beni, devi rallegrarti che li abbiano ottenuti; se invece sono mali, non irritarti per il fatto di averli ottenuti. Ecco questo davvero mi convince perché l’ho già messo in atto! Mi sono sinceramente rallegrata del successo del Premio Scalfari, ho partecipato con gioia alla vostra gioia e ancora plaudo agli organizzatori. Ma, non me ne voglia Epitteto, avrei voluto teletrasportarmi al teatro Traiano!!!! Più che stoica mi sento leopardiana.

CATERINA VALCHERA

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