“LA CITTA’ INVISIBILE” A CURA DI ROSAMARIA SORGE – Le città in pentola
di ROSAMARIA SORGE ♦
Dal mondo dell’architettura e dell’urbanistica ci giungono riflessioni stimolanti che, alla luce dei cambiamenti che la pandemia ha innescato, ci offrono contributi alla reinterpretazione della città
Fra queste riflessioni quelle sullo spazio pubblico assumono un rilievo particolare specie dopo che per due anni le nostre vite sono state confinate in spazi ristretti , spesso soffocate all’interno di spazi privati che hanno ridotto la nostra libertà e offuscato la percezione della realtà.
Una delle riflessioni critiche che ci porta ad una lettura della città è quella che coniuga lo spazio pubblico e il cibo.
Qualche anno fa scrissi un articolo sul cibo, il mercato e la città raccontando alcuni esempi che conoscevo come il Mercato di Rotterdam o quello di Barcellona, e anche quello di Palermo e Civitavecchia, ma i mercati sono spazi circoscritti, delimitati, da cui si entra e si esce anche quando non ci sono porte, e in essi si riflette lo spirito della città, le sue abitudini, la sua storia, ma non definiscono per intero un territorio urbano proprio per i limiti spaziali che li caratterizzano.
Oggi invece assistiamo alla colonizzazione di tutti i luoghi da parte del cibo o se preferite del “ food”, una occupazione di suolo pubblico esagerata che rischia di distruggere la città, condizionando le politiche di riqualificazione e determinando un serie di effetti collaterali che con il tempo sarà difficile riequilibrare.
Nella realtà dei fatti la politica a cui spetterebbe il compito di operare una serie di scelte coerenti nella riqualificazione urbana, ha preferito trovare la soluzione più facile ed immediata al problema complesso dell’equilibrio tra benessere, qualità della vita urbana ed economia, lasciando proliferare a dismisura una moltitudine di locali che a tappetto hanno invaso i nostri centri storici, e con la complicità della pandemia si sono appropriati, dilatandosi, del suolo urbano.
L’assenza di una reale programmazione e di una progettualità condivisa si è nascosta dietro la presenza urbana del “ food “ tanto da farci apprezzare lo spazio che determinano; in effetti in occasione di alcune festività questa presenza diffusa ha dato colore e spirito ad angoli caratteristici delle città e ha illuso il nostro occhio.
Civitavecchia è un esempio lampante di quanto detto, basta un rapido giro per il Ghetto o per piazza Saffi e Piazza Leandra per rendersene conto, ma sarebbe anche opportuno sottolineare che l’eccesso di locali finge di annullare quelle differenze sociali ed economiche che nella realtà diventano ogni giorno più grandi. Il “ food “ mette in scena uno spettacolo che è solo apparenza, finge “ una società post-classista, transclassista, democratica, universalista “ che non esiste.
Di contro poi il fallimento di alcuni locali in altre parti dello stesso centro storico produce locali chiusi da anni, saracinesche abbassate in progressivo deterioramento o interni visibili colmi di immondizia e oggetti abbandonati, basta fare una passeggiata per via Trieste ad esempio, o anche via Traiana che, benchè non possa definirsi centro storico, rimane una strada del centro.
Sia ben chiaro questa disamina non ha lo scopo di colpire i locali del food ma una città non può vivere e avere una sua dimensione urbana affidando solo ai locali della ristorazione la risoluzione di tutti i suoi problemi di vivibilità, sostenibilità, inclusione e identità.
Inoltre la città ha anche altre esigenze che rischiano di restare inevase e cosa ancora peggiore, questa diffusa presenza fa correre il rischio di perdere l’abitudine ad altre necessità che smettono di essere sentite tali.
Una volta in Urbanistica si diceva che non si poteva andare contro la vocazione del territorio perché poi con il tempo questa avrebbe avuto in ogni caso il sopravvento e allora c’è da chiedersi se il proliferare del “ food” nella città sia il risultato di una reale vocazione dei territori o un modificarsi delle abitudini della popolazione che in questo momento storico ha messo il cibo al centro di tutti i suoi interessi. Del resto la stessa televisione ci propone in ogni canale un programma culinario e vi sono anche canali interamente dedicati alla trasformazione del cibo, come esistono ormai grandi spazi recuperati solo ed esclusivamente per far condividere diverse esperienze legate al cibo di città e territori diversi; insomma quello del food è diventata quasi una ossessione del mondo contemporaneo a cui non si sottrae di certo il vino; quest’ultimo si coniuga in una moltitudine di enoteche, piccole o grandi che aumentano di continuo, a cui si aggiungono eventi che lo vedono protagonista. Trasformare gli spazi cittadini in spazi commerciali a preponderanza alimentare, perdere le peculiarità storiche che caratterizzavano questi spazi, quali aberrazioni nel tempo potrebbero produrre? Penso che potrebbe essere questo un argomento di dibattito sulla città e sulla rigenerazione urbana che meriti un esame attento e puntuale e delle risposte condivise prima che sia troppo tardi perché il rischio che si corre è che il cibo si mangi le città.
ROSAMARIA SORGE
Architetto Rosamaria, condivido in pieno le sue parole e l’analisi dettagliata che tu fai del centro storico, e non solo, di Cvecchia!
È bene che un’esperta nell’architettura e nell’urbanistica esemplifichi, con un ampio orizzonte culturale, il degrado urbano attuale!
Pensare che il centro storico”rinasca “in tal modo è un assurdo!
Abitando in centro, inoltre, attendo da decenni un valido piano della mobilità, completamente disatteso da questo proliferare di fratte, seggiolini, tavolini di plastica… sui marciapiedi e sulla strada (via Cialdi).
Mi associo con te nella più autentica definizione
del cibo e spero che qualcuno degli amici dia notizia dello scempio dei Magazzini Romani nel Porto Storico, aperti con tanto di inaugurazione sulla cultura del cibo del nostro territorio e poi?!
Specchietto per le allodole(citaz. architetto Correnti).
A presto.
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Allodole, pecore o meglio pecoroni, canose vs volpi, lupi, faine e squali. De nobis fabula narratur. E non c’è storia.. Facendo la turista al Policlinico, in risposta a alla mia irritazione per mancanze, disorganizzazioni, incongruenze tra regole e comportamenti, la “gente” (definizione nobilitata da recenti studi sociali) osserva coralmente che “siamo in Italia”. Cioè la patria delle ab-errazioni.. Basta saperlo, ma senza rinunciare a pensare diversamente e diversamente operare.. 👍👏👏👏💪
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Cara Rosamaria, a parte che sei la mia consuocera preferita, ho trovato veramente interessante la tua riflessione sul mutamento delle città nel nostro tempo. Tuttavia sono scettico che la mano pubblica – figuriamoci quella privata! – possa porre rimedio a quella che per noi è una deriva sconsolante, mentre per i più giovani è un modello di città che è loro congeniale. Peraltro, ancora ancora Civitavecchia conserva caratteristiche delle città che abbiamo conoscuto, ma tra qualche anno – non sono in grado di prevedere un orizzonte temporale – la vita, in paesi come l’Italia e la Francia, sarà relegata ai centri urbani medio-grandi, escludendo, peraltro, le periferie. Tutto il resto sarà dormitorio, privo di servizi, che verranno forniti una volta ogni 15 giorni. Prova a pensare quanti sono, già oggi, i piccoli comuni spopolati. Per dire, insomma, che il ragionamento dovrenne essere esteso e incrociato con la crisi demografica che l’Italia sta vivendo. A presto
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La tua tesi, per quanto colta ed argomentata, mi pare un filino snob. Premetto che l’urbanistica non è minimamente una materia che pratico ma, da abitante della suddetta zona, ti dico che l’insediamento di numerosi locali e ristoranti ha molto migliorato la zona, facendola rivivere. Quando sono arrivato io, 12 anni fa, era un deserto. Oggi è una zona viva, vivace, in cui i locali stanno svolgendo anche una funzione di trascinamento di eventi culturali od almeno di intrattenimento. Se le autorità, poi, riuscissero ad intervenire per tenerla pulita, installare una illuminazione decente e dei contenitori per i rifiuti o – addirittura – per far rispettare le zone pedonali, secondo me la zona potrebbe essere persino un fiore all’occhiello della nostra città. Magari unendola ad un Mercato storico rilanciato e valorizzato, come accade in mezza Europa. La qualità architettonica della zona mi pare possa essere definita almeno modesta, nonostante non sia un esperto, ed anche la qualità delle abitazioni è decisamente degradata. Insomma credo che gli investimenti di ristoratori et similia meritino maggior rispetto e persino un sostegno da parte dell’amministrazione comunale. Cosa che non è affatto avvenuta. Certo una amministrazione che si rispetti avrebbe dovuto avere un piano per il Centro Storico od almeno una visione. Insomma avrebbe dovuto interrogarsi su cosa si poteva e doveva fare per migliorare questa zona. Ma, da quando ho memoria, non mi pare sia mai successo, nonostante siano cambiate molte giunte di tutti i colori.
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Il problema è proprio questo che non esiste un piano di rigenerazione urbana e di recupero del centro storico e di zone come il Ghetto assimilabile al centro storico; la CE ha stanziato molti fondi per il recupero dei centri storici, recupero che passa per il rifacimento delle facciate, per una illuminazione adeguata, per una gestione più consona dei rifiuti, ma anche per stimolare attività che vadano oltre la ristorazione, senza dimenticare il verde e la mobilità; certo che i locali hanno dato vita a zone abbandonate ma non è questa la strada giusta per valorizzare il centro storico o meglio non può essere solo questa perché se rimane solo questa si accentua la povertà dell’offerta che dovrebbe andate oltre e permettere un uso più articolato del centro storico
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