Fatti & Fattacci della Civita-Vecchia dell’Ottocento – 8. BICETTA

8 Bicetta

di SILVIO SERANGELI

Curiosi, sfaccendati di tutte le risme si accalcavano, davano micidiali gomitate davanti alla chiesa, per farsi largo. I gendarmi controllavano ogni angolo, erano andati a ispezionare, scala per scala, perfino dentro il palazzo dove abitava la sposa. Un matrimonio che sembrava una favola: la sposa bellissima, lo sposo il rampollo di una delle famiglie più ricche.

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Ma non era per lui che si era smosso quell’ambaradam. C’era il fondato timore che Aurelio, il primo fidanzato della ragazza, facesse ancora un botta da matto, ripetesse il gesto che aveva tenuto banco per mesi nella cronaca spicciola e nei pettegolezzi della città. Che era successo? Il fattaccio era capitato durante la settima santa, nella sera dei Sepolcri. Sarà stato qualche bicchiere di troppo, il caratteraccio e la facilità a perdere il controllo, sta di fatto che il nostro giovanotto aveva preso a male parole la sua vecchia fidanzata che aveva incrociato per strada. Berenice, che tutti chiamavano Bicetta per la sua figura longilinea e per i tratti dolci del suo faccino, se ne tornava a casa dopo la visita con la sorella e le amiche al sepolcro della chiesa matrice. «Me sento un po’ stanca, m’ha dato fastidio tutto quell’incenso e er fumo delle candele». Aveva salutato la compagnia e aveva cominciato a salire le scale di casa, che stava poi proprio all’angolo della piazza, dove a pianterreno c’era l’antiquario e al primo piano la sede del consolato di Francia. Com’è, come non è, svoltato l’angolo della seconda rampa si trovò di fronte il suo vecchio amore. «Perché nun m’ami più? Che t’ho fatto? Sei solo ‘na mignotta». Solo la prontezza di spirito di Bicetta, che si era riparata col braccio, impedì al pugnale che Aurelio aveva sfoderato dal suo bastone da passeggio di ferirla gravemente. Si alzarono le urla, la richiesta d’aiuto della giovane. Poco dopo la scala si era popolata di gente. Erano accorse la sorella e le amiche di Bice e l’avevano portata  a braccia alla vicina Spezieria, per farla medicare. Fortunatamente erano solo un paio di graffi. E Aurelio, il feritore, che fine aveva fatto? Quando aveva sentito tutto quel trambusto per le scale l’Ammiraglio aveva aperto la porta. Aveva capito subito la situazione, aveva afferrato il giovane che cercava  di ferirsi e vaneggiava e gli aveva dato rifugio nel suo appartamento. Lo conosceva bene, sapeva che era un bravo impiegato nel suo lavoro al porto, e che non era un assassino. Così, quando arrivarono gli sbirri, l’Ammiraglio aveva messo su una bella sceneggiata con Aurelio riverso sul divano che piangeva. Era stato solo un incidente, il giovane era contrito e cristianamente pentito. Perché mettere in discussione la testimonianza di un personaggio potente? Così Aurelio si fece qualche giorno alla Fortezza, poi su suggerimento degli amici, cambiò aria e passò qualche mese a Barcellona dove aveva conoscenze nel  mondo degli spedizionieri. Al processo i testimoni si impapocchiarono. Tutti erano concordi, compreso il padre: «È bono e caro, ma ogni tanto perde er lume della raggione». E fu assolto anche perché Berenice e la sua famiglia si erano disinteressati del processo. Per la cronaca, il nostro accoltellatore miracolosamente rinsavì, riprese le sua attività amatorie e i suoi corteggiamenti fino ad iscriversi alla Società Filarmonica perché la frequentava la bellissima Lucia. Era più che una promessa del bel canto che intendeva trasferirsi a Roma dove avrebbe sicuramente fatto carriera nel bel mondo del melodramma. Finì che i due si piacquero, si sposarono e misero al mondo cinque figli, uno dopo l’altro. Per la bella soprano si era chiuso il sipario del Teatro dell’Opera, rimaneva l’operetta quotidiana della cittadina sonnolenta e pettegola. Berenice, Bicetta, invece si recava spesso a Roma, magari con la sorella, per fare acquisti nei negozi alla moda e controllare le sue proprietà. Era una signora. Il marito  era un “illustrissimo” e vantava un patrimonio, ma lei aveva del suo, e tanto. In fondo non era stato un matrimonio d’interessi come dicevano le malelingue, perché proprio nell’occasione delle nozze, il sor Gregorio, il Commissario di Sanità nel porto di Civitavecchia, aveva concesso in dote alla sua pupilla novemila scudi, il «credito fruttifero» di alcune case a Roma, e un «decente corredo». Una singolare munificenza questa dell’ottantenne capitano che, pur non avendo legami di parentela con la famiglia dell’“agricoltore” Vincenzo e della defunta moglie Maria, nel suo testamento aveva indicato Berenice come erede universale, senza dimenticare le sue sorelle, alle quali aveva assegnato tremila scudi e «l’utile di alcuni casamenti» a Roma. Perché tanta grazia? Lo sapeva, e bene, Er Micio, l’uomo di fiducia del Commissario. C’era che la sora Maria stava a servizio tutto il giorno e portava con sé le fiarelle. E c’era pure che la serva se l’intendeva con il padrone: per dire che c’andava a letto. E lui, che era un uomo solo, avanti con gli anni, s’era affezionato alle bambine. Troppo, secondo Righetto, che sentiva e vedeva tutto, come se in quella grande casa non ci fossero le mura. S’erano fatte grandi e sempre più belle quelle ragazzine, soprattutto Bicetta che quando ti fissava ti scioglievi come un cero. Aveva capito tutto il maneggio della madre e, quando la povera Maria era morta, ancora giovane, l’aveva sostituita, non in tutto perché il padrone era ormai avanti negli anni e il nerbo non gli funzionava più.  026 Due dolci donzelle 2Così quando il Commissario chiudeva la porta della camera, si lasciava spogliare, toccare, accarezzare. E quando la cercava con la lingua nel boschetto fra le gambe cominciava il teatro. Capitava che fuori della porta, il fedele Micio, che non era proprio una tomba e riferiva in giro, sentisse i lamenti della ragazza, i sospiri, i gridolini di piacere. Magari, dopo la sbornia peccaminosa, il padrone rimaneva a letto un paio di giorni, sconvolto. Bicetta usciva dalla porta tutta impettita e sorridente con tutte le pieghe della veste a posto, come se avesse bevuto un rosolio e fatto quattro chiacchiere: pura e vergine più di prima. Bella e fortunata. «La piaciona» come la definivano in modo sprezzante le comari, le madri di tante belle ragazze da marito, rimaste a bocca asciutta alle quali rimaneva solo l’invidia e la lingua biforcuta. «Ma l’avete vista la madonella de cera, la santarella? Ma che c’ha la ciocia d’oro? Lunga lunga, secca secca che sur petto pare ce sia passato San Giuseppe cor pialletto! Mignotta come la madre!»

SILVIO SERANGELI

 

** Le foto di Gigi Seghenzi da una ricostruzione storica del 1970 a piazza Leandra.