FATTI E FATTACCI DELLA CIVITA-VECCHIA DELL’OTTOCENTO – 2. Santa Firmina
di SILVIO SERANGELI ♦
Al presidio, fra le guardie della darsena, c’era entrato con l’aiuto del monsignore a cui la madre Assuntina faceva i servizi, gli lavava e stirava i panni, gli rassettava la casa, e magari gli cucinava pure. Una gran lavoratrice Assuntina che, da sola, doveva mantenere quattro figli, perché il marito tre anni prima se l’era inghiottito il mare, uno e due, in una notte di tempesta. Una brava persona monsignore che aveva pure raccomandato la sorella Lucetta a servizio da una signora, tanto perbene, a quello che si diceva in città. «Troppo bono monsignore – commentavano le beghine – perché magari Assuntina, oltre a fajelo er letto, ce se ammucchiava co lui». Solo invidia di zitellame bisunto e ammuffito perché il monsignore aveva altri gusti. Un lavoro duro, di nessuna soddisfazione per lui, Lisandro, lo stesso nome del nonno che aveva passato la sua vita in mezzo alle bestie, perché faceva il carradore. Aggiustava tutti i tipi di ruote, i cerchioni, le selle, le staffe e ferrava i cavalli. Gendarme alla darsena dei forzati: almeno era un lavoro, pagato poco, ma bisognava abbassare la testa e accontentarsi. Un inferno, una vita che non potevi augurare nemmeno al tuo nemico peggiore: i bancali della darsena, le catene, i condannati lerci e brutti da far paura. Le grida, le imprecazioni, la puzza nauseabonda dell’urina e delle feci sparse dovunque. Neppure le bestie, i cani da guardia di campagna alla catena erano trattati così. Era rimasto sconvolto per tanto tempo da quello che gli era capitato solo poco tempo dopo il suo reclutamento. Il bubbone era scoppiato di notte: urla, bestemmie, e la rivolta. Erano stati comandati di chiudere tutti i cancelli e le porte, imbracciare le armi e mettersi in postazione, pronti a sparare. E poi si erano visti i bagliori da piazza d’Arme dei fuochi accesi dai cittadini che temevano il peggio e avevano imbracciato i fucili. Anche lui, aveva minacciato i rivoltosi col moschetto infilandolo fra le sbarre. E aveva avuto paura, come tanti altri, giovani come lui, gendarmi improvvisati, contadini prestati alle armi e senza mestiere. C’era voluto un colpo di fortuna per ristabilire l’ordine: i rivoltosi erano riusciti a scardinare la porta della bettola, si erano riempiti di vino e l’ubriacatura li aveva resi inoffensivi. Non era facile scordare i pianti le urla le imprecazioni dei trenta ribelli messi con la faccia al muro per essere fucilati. E lui era lì col fucile puntato e il braccio che tremava. Non ci aveva dormito la notte. Il tempo aveva sbiadito e cancellato. Ma adesso Lisandro aveva un altro pensiero che non gli faceva chiudere occhio. Il figliolo della signora tanto perbene dove stava a servizio, prima aveva cominciato ad allungare le mani su Lucetta che aveva poco più di sedici anni, poi era successo quello doveva succedere. E la roscetta di casa era stata messa incinta. Non era servito a niente il colloquio di Lisandro con la brava signorona, madre del mascalzone senza arte né parte. Anzi, sai che ti dico, ti metto la ragazzina in mezzo a una strada: niente più i servizi a casa mia, perché vi siete inventati tutto per fregarmi un po’ di soldi. Il segreto per fortuna era rimasto fra i due fratelli. Ma quello, il mascalzone, che magari si vantava all’osteria, la doveva pagare. Ma quando? E come? Lo avrebbe potuto sorprendere mentre ritornava ubriaco a casa. Un paio di colpi di pugnale ben assestati avrebbero chiuso la questione. E se passava qualcuno, se reagiva? L’idea buona gli venne per Santa Fermina. La festa della santa patrona significava: la corsa dei cavalli, la lotta, i fuochi d’artificio, una grande confusione con i vicoli e le strade stracolmi di gente, che veniva anche dai paesi vicini, tutti a strattonarsi, a sgomitare per non perdersi lo spettacolo truculento della caccia alle anatre nello specchio d’acqua proprio sotto la Rocca. Lisandro si era tuffato cogli altri, non aveva perso di vista il figlio della signora, lo aveva braccato sempre più da vicino.
Aveva atteso il momento propizio, quando l’acqua si era tinta del rosso del sangue delle povere bestie, e si erano scatenato il pandemonio delle spinte, dei tira e molla fra i contendenti, ed era volato qualche cazzotto. Era arrivato alla spalle del ragazzo, gli aveva sferrato un colpo secco fra capo e collo, lo aveva tramortito. Poi impugnando i resti di un’anitra, aveva nascosto la mano con cui aveva cominciato a sangozzare il seduttore di sua sorella, lo aveva spinto sott’acqua fino a sfinirlo e lasciarlo senza vita. Nella confusione generale, in quella specie di camera della morte di una tonnara, nessuno si era accorto di niente. Lisandro guadagnò la riva, si fece largo fra gli spintoni, raggiunse la piazza d’Arme e poi casa sua per cambiarsi. Solo molto più tardi qualcuno si sarebbe accorto di quel corpo che galleggiava. Forse quel giovane aveva preso un brutto colpo o si era sentito male nella ressa. «Poveraccio, poveranima di ddio, cher celo se lo riccoja!». Ma bisognava sbrigarsi perché c’erano le foche, lo spettacolo dei fuochi, che chiudeva la festa. Per Lisandro l’incubo era finito. E La roscetta? La comare Vitulia, qualche giorno prima, aveva approfittato di un viaggio del marito a Toscanella dove doveva ritirare col suo carro alcune botti del vino nuovo. Con una scusa aveva portato con sé la ragazzina, l’aveva affidata alle mani sapienti di una sua amica, un’esperta mammana che l’aveva sgravata e liberata.
SILVIO SERANGELI
Foto e racconto davvero interessanti. La realtà vera è sempre superiore all’immaginata. Verismo di carne e sangue. Non solo di carta. Complimenti! 👏
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Una quinta scenica con la città dentro il porto. Gioco cruento ma ancora più cruento il dissolversi di tutto questo. Tu ci immetti in quel passato e ci concedi uno spazio alla fantasia. La visione reale che oggi i sensi percepiscono è desolante, penosamente assurda.
Rasserenante è il mondo, pur duro e violento, in cui tu ci fai immergere.
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