La notte delle stelle. Splendori e miserie del grande calcio (1)
NICOLA R. PORRO ♦
La vicenda Superlega e il suo repentino fallimento meritano qualche riflessione a mente fredda, sottratta alle (più che legittime) reazioni suscitate fra quanti si interessano di calcio, e non solo loro. Occorre soprattutto metterne a fuoco aspetti banalizzati dall’approccio semplificante dei media e dalla stessa mobilitazione emozionale delle tifoserie.
Il progetto Superlega, infatti, va inserito in una sorta di selezione darwiniana, in atto da almeno due decenni nel grande calcio europeo. Da quando, cioè, per un concorso di ragioni che analizzeremo più avanti, si è venuto scavando un fossato incolmabile fra l’élite campionistica, rappresentata dai grandi club appartenenti alle cinque leghe Big Five (quelle di Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Spagna) e le altre società. L’idea di un campionato di eccellenza a scala europea non rappresenta, del resto, una novità assoluta. Già nel lontano 1998 alcune società, appartenenti all’aristocrazia del calcio professionistico dell’epoca, tentate dal modello dello sport professionistico nord-americano, avevano abbozzato l’ipotesi di un torneo continentale di eccellenza non molto dissimile da quello proposto dai dodici club scissionisti alla fine dell’aprile scorso. Esso esprimeva già allora una tendenziale convergenza di interessi fra ambienti economico-finanziari e grandi club professionistici. Convergenza che, due decenni più tardi, avrebbe preso la forma di una vera e propria fusione fra attori sportivi e soggetti imprenditoriali favorita dalla mediatizzazione del grande calcio commerciale e dall’enorme crescita dei fatturati prodotti soprattutto, ma non solo, dai diritti televisivi.
Va caso mai osservato come l’operazione venuta allo scoperto nella primavera 2021 si ammantasse di una legittimazione simbolica – il calcio come arena espressiva e come anticipazione concreta di una compiuta europeizzazione – che non compariva affatto nel tentativo precedente.Sì nobili intenti erano tuttavia contraddetti dalla conventio ad excludendum a danno dei club di status inferiore. In base alla quale le grandi società si arrogavano il diritto di fissare unilateralmente gerarchie di status e regole del gioco: un modello ispirato alla cultura del particolarismo feudale più che alla consensuale costruzione dell’Europa unita. La Superlega sta all’europeismo democratico come l’internazionalizzazione del business system degli anni Settanta all’internazionalismo proletario di rivoluzionaria memoria….
Interessante è piuttosto collegare la proposta Superlega alla pandemia che aveva investito l’Europa nei primi mesi del 2020 cancellando di fatto l’offerta di sport spettacolo: stadi deserti, tracollo di incassi, sponsorizzazioni cancellate o non rinnovate, ricavi del marketing spariti. Dalla Premier inglese alla Ligue 1 francese, dalla Bundesliga alla Liga spagnola alla nostra Lega calcio, le Big Five vedono spalancarsi la voragine dei debiti in assenza di qualsiasi strategia di risposta. In meno di tre mesi i dodici club “secessionisti” accumulano perdite pari a un miliardo e quattrocento milioni di euro. Tanto che, quando si paleserà il progetto Superlega, qualche malizioso osservatore inviterà provocatoriamente a considerare anche i suoi potenziali vantaggi essendo Juve, Inter e Milan responsabili del 47% di tutti i debiti delle società calcistiche italiane.
La pandemia avrebbe insomma accelerato e drammatizzato processi già in atto nel contesto di una progressiva frantumazione dei vecchi equilibri che presiedevano al sistema europeo di leghe, federazioni e società. Un sistema il cui dominante settore professionistico poggia su quattro pilastri (cfr. A. F. Giudice, «Vincitori e vinti della Superlega», La Voce online del 22 aprile 2021).
(i) Ogni club possiede un core business formato da incassi al botteghino, abbonamenti, diritti tv, sponsorizzazioni e merchandising: tutto ciò, insomma, che dovrebbe bastare a coprire i costi fissi, come gli stipendi dei giocatori e la manutenzione degli impianti.
(ii) Quello che gli economisti definiscono player trading consiste invece in acquisti e vendite di giocatori che consentono la produzione di plusvalenze.
(iii) Il terzo sottosistema è rappresentato dalla gestione diretta, da parte dei club, del vivaio e delle carriere dei giovani atleti.
(iv) A queste forme tradizionali di business vanno aggiunte quelle generate, soprattutto a partire dai primi anni Duemila, dalla rivoluzione digitale. L’uso dei social, in particolare, ha prodotto un’offerta specializzata, rivolta a tifoserie fidelizzate e orientata alla loro continua dilatazione. Con l’obiettivo non tanto di vendere merci quanto piuttosto di veicolare stili di consumo, fruizione e fidelizzazione (lifestyle) elaborati da sistemi commerciali specializzati e sperimentati in altri sottosistemi dell’intrattenimento, come quello dei concerti, nonché all’interno di reti di consumo diffuse e persino di circuiti di appartenenza politica.
Il fatturato aggregato dei quattro comparti appena descritti è passato per i grandi club europei dai 2.8 miliardi di euro del 2006 ai 21.1 del 2018, soprattutto grazie alle fortune crescenti del calcio in mercati di recente acquisizione come l’Asia e il Nord America. Della questione mi ero occupato ai suoi albori, quando diedi alle stampe (mi scuso dell’autocitazione), il mio Sociologia del calcio (Carocci, Roma 2008). È infatti in quella fase che prende consistenza il gap fra i maggiori club dei campionati Big Fivee il resto del mondo. A definire questa gerarchia, basata sul fatturato calcistico delle società, sulla loro dimensione reputazionale (immagine pubblica, storia e tradizione) e, più di recente, sulla consistenza delle community mediatiche, hanno concorso in maniera decisiva le politiche della Uefa. Quest’ultima, centralizzando via via la gestione finanziaria dei diritti di Champions e di Europa League e avocando a sé l’amministrazione di premi e plusvalenze, ha contribuito non poco a recintare il perimetro del potere calcistico. Proprio la fideistica adesione ai criteri del “merito sportivo”, ad esempio, ha originato la cristallizzazione delle gerarchie continentali a beneficio esclusivo dei campionati Big Five. Risorse e opportunità si sono concentrate in una cerchia ristretta e quasi impermeabile di grandi club, compromettendo la stessa incertezza competitiva. Già nel decennio 1989-1999, del resto, solo una su quattro delle semifinaliste Champions League era espressione di leghe non-Big-Five. In quello successivo, tuttavia, riuscirono almeno ad accedere alle semifinali dei principali tornei squadre “di seconda fascia” come Leeds, Porto, Valencia, PSV Eindhoven, La Coruna, Villareal, Bayer Leverkusen, Monaco. A partire dal periodo 2009-2019, invece, ben l’82.5% dei club semifinalisti di Champions apparterrà alla top-10 e ben il 97.5% alla top-20 delle legheBig Five. Analogo il panorama offerto dai campionati nazionali. La Juventus vince per nove volte il titolo nazionale, il Bayern otto. In Francia il Psg conquista sette degli ultimi otto campionati disputati. Real e Barcelona in quindici anni sommano quattordici titoli spagnoli.
Nel 2011, per contenere gli effetti perversi dell’indebitamento cronico dei grandi club professionistici, la Uefa varerà un programma pomposamente battezzato Financial fair play che prevedeva l’obbligo del pareggio di bilancio e norme più rigorose di gestione delle risorse. L’operazione non ebbe successo. Anzi, le regole introdotte per salvaguardare la concorrenza e tutelare le società minori scoraggiarono solo in minima parte le scorrerie degli speculatori, ma al prezzo di cancellare il tradizionale mecenatismo e di limitare le possibilità di accesso dei piccoli azionisti. Della maldestra riforma beneficiarono solo i top club che se ne servirono per erigere barriere all’ingresso di altri partner e preservare il vantaggio competitivo di cui godevano. L’Uefa si arrenderà senza combattere ai nuovi padroni del vapore. Il tycoon russo Roman Abramovic metterà così le mani sul Chelsea, l’imprenditore emiratino Mansour bin Zayed al Nahyan sul Manchester City, il parigino Psg diverrà proprietà del fondo sovrano Qatar Investment Authority, un ente di Stato di quel Paese mediorientale cui la FIFA, guarda caso, assegnerà, fra lo stupore di mezzo mondo, l’organizzazione dei Mondiali 2022.
Queste sommarie note alla questione Superlega non esauriscono il tema. Esso è più complesso di quanto non suggerisca la legittima reazione della grande maggioranza dell’opinione pubblica. Bisognerà perciò tornare su questa vicenda esemplare senza limitarsi a infierire sugli spregiudicati quanto incauti promotori. Difendere il calcio come grande spettacolo popolare, come “bene comune” dell’Europa, significa sottrarsi a letture di comodo o troppo sbrigative. L’infausto progetto della Superlega avrebbe certamente favorito e anticipato una radicale metamorfosi del sistema. Delegittimando la Uefa, si sarebbe ulteriormente ridimensionato il suo ruolo di intermediazione. Liberandosi dalla sua tutela, in cambio dell’elargizione di benefit pronta cassa promessi a favore dei club minori e per una non meglio precisata “incentivazione” del calcio giovanile e femminile, l’intero sistema, e non solo solo l’aristocrazia dei club di eccellenza, sarebbe stato consegnato a interessi del tutto estranei alla tradizione, alla cultura e alle passioni che alimentano la grande narrazione del calcio europeo. Interessi e logiche che poco hanno a che spartire con l’ideale europeistico e molto con la filosofia win-windel capitalismo finanziario.
Guai però a illudersi che si tratti di una partita chiusa e attenzione a coltivare una rappresentazione manichea della questione. I perdenti di oggi potrebbero tornare presto alla carica e sono troppi gli scheletri nell’armadio dei vincenti per fare eccessivo affidamento sul ruolo di tutela degli organismi deputati. A cominciare dalla leadership Uefa, che oggi si intesta senza merito una vittoria che non le appartiene. La questione è però più ampia e meritevole di qualche approfondimento.
NICOLA R. PORRO
Gran bel articolo, approfondito e ricco di spunti interessanti. Grazie.
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