ALTO LAZIO: RETROTERRA CULTURALE E ARTISTICO DEL PORTO DI CIVITAVECCHIA

di FRANCESCO CORRENTI

Relazione al convegno sul tema “Civitavecchia porto del Giubileo” promosso dal Lions Club International, Civitavecchia, Palazzo Comunale, Sala Consiliare “Renato Pucci”,17 aprile 1998.

Autorità, Signore e Signori. Il generale Pellegrino Meoli ha voluto ricordare con gentili parole di lode – di cui lo ringrazio di cuore – la mia attività di dirigente dell’ufficio comunale per l’urbanistica e di progettista di molti piani e di alcune opere pubbliche significative (tra cui questa sala che ci ospita), attività iniziata poco meno di un trentennio addietro. Il tempo passa, molte cose cambiano, anche se alcune, invece, sembra che restino immutabili. Quando, vincitore del concorso, ho preso servizio al comune di Civitavecchia, ero abbastanza fresco di laurea, con una tesi di urbanistica e composizione architettonica – coordinata con quella di Paola Moretti in restauro dei monumenti – che aveva come oggetto la città, il porto e l’intera fascia costiera di Civitavecchia, proponendone un riassetto molto audace, quasi utopistico per quel tempo. Il litorale di Civitavecchia, allora, era in una situazione di grave immobilità, a parte alcuni primi fenomeni negativi, ancora sconvolto dalle distruzioni belliche e con gravissimi, irreparabili danni al patrimonio monumentale. Proprio per questo, nel constatare lo stato attuale e nel formulare alcune ipotesi sul futuro e sulle possibili conseguenze dello straordinario evento che è ormai il nostro orizzonte temporale, vorrei ricordare alcune tappe dell’evoluzione avvenuta nel trentennio evocato.

Quasi esattamente venti anni orsono, il 27 aprile 1978, si svolse a Tolfa un convegno, patrocinato dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, sul tema: “Il comprensorio di Civitavecchia”. Nel novembre ’76, il Consiglio Regionale del Lazio aveva istituito i comprensori economico-urbanistici, che avrebbero dovuto sostituire, almeno per il governo del territorio, le province. Il comprensorio n. 4, che faceva capo a Civitavecchia, era esteso ad una superficie di 850 kmq ed era formato da undici comuni della provincia di Roma, con una popolazione complessiva di circa 110 mila unità. L’individuazione del comprensorio in quella consistenza, rappresentò il superamento dei primitivi indirizzi proposti dal Documento per la deliberazione programmatica sull’assetto del territorio regionale del ’74, che assegnava gli undici comuni a due diverse aree sub-regionali, la A4 e la B1.

Furono accolte, così, le istanze degli enti locali per una delimitazione maggiormente esplicita – tra l’altro – sul ruolo attribuito ai comprensori nel riequilibrio della situazione territoriale, condizionata dalla presenza dì Roma.

Il criterio di rispettare i confini amministrativi preesistenti non soddisfece alcune aspirazioni e in particolare quelle espresse allora, a Civitavecchia, dal movimento per la sua promozione a capoluogo dì provincia con giurisdizione anche sui comuni costieri dei Viterbese, ma tenne conto realisticamente di circostanze che avrebbero potuto costituire – si pensava – un ulteriore impedimento all’avvio dei comprensori e dei consorzi per la loro gestione, istituiti con la legge regionale 12 giugno 1975, n. 71.

D’altra parte, dopo un più che ventennale dibattito sull’argomento (risalivano al ’52 i primi studi per un piano territoriale di coordinamento del Lazio iniziati dal Provveditorato regionale alle opere pubbliche), prevalse sostanzialmente la tesi pragmatistica di giungere ad una prima suddivisione operativa, cui avrebbero potuto seguire gli opportuni adeguamenti, essendo inoltre evidente che la dimensione comprensoriale avrebbe dovuto costituire un livello di partecipazione e verifica, programmazione e pianificazione, aperto ed integrato verticalmente ed orizzontalmente.

Nello stesso tempo, si temeva che la riproposizione della tematica sull’ente intermedio, con gli atteggiamenti contrastanti assunti dalle forze politiche, rischiasse di compromettere e rinviare indefinitamente quel coordinamento intercomunale, che le amministrazioni locali avvertivano come esigenza improrogabile.

Oggi possiamo costatare che quei timori erano ben fondati e che il tentativo di introdurre altri livelli e organismi di coordinamento è naufragato nella successiva inattività delle amministrazioni e nell’indisponibilità delle forze politiche.

Eppure, per i comuni del quarto comprensorio laziale, la necessità del coordinamento era quanto mai urgente. Se per Civitavecchia, Tolfa, Allumiere, Santa Marinella già esistevano interrelazioni consolidate, così come esistevano tra esse e altri comuni più settentrionali, i rapporti con Cerveteri e Ladispoli, Manziana e Canale Monterano, Bracciano, Anguillara e Trevignano erano labili o inesistenti, sul piano operativo, gravitando questi ultimi casi, quasi esclusivamente, sull’area romana, già congestionata e in crescita caotica.

Nella mia relazione a quel convegno, sostenni la tesi che l’obiettivo da perseguire non era solo il superamento della tendenza centripeta verso Roma e, tanto meno, la creazione di un polo alternativo. Ribaltando la direttrice di gravitazione, infatti, si sarebbero riprodotti i fenomeni di squilibrio, per quanto mitigati dal ben diverso potenziale di concentrazione.

Ammettendo per un momento la validità di una simile soluzione, del resto, sarebbe mancato il centro-guida, dato che la stessa Civitavecchia, pur avendo – alla pari di Viterbo – capacità abbastanza elevate di “inquadramento terziario” del proprio hinterland, non poteva svolgere nel territorio quella funzione, per carenze interne ed esterne superabili solo nel lungo periodo.

È opportuno ricordare che Viterbo e Civitavecchia erano i soli comuni dell’Alto Lazio occidentale la cui dimensione urbana, demografica e produttiva ne consentisse, dal punto di vista geografico e urbanistico, la qualificazione di “città” (titolo, peraltro, che loro spetta anche dal punto di vista araldico).

L’Atlante SOMEA le identificava, nel 1973, come “città sub-regionali”, nella classe 12, ossia al quarto livello della gerarchia (decrescente fino al quindicesimo) adottata da quello studio economico/commerciale sulle città italiane. Tarquinia vi risulta classificata al sesto livello come “centro urbano locale di 2° ordine”. Bracciano, Cerveteri, Santa Marinella e Tuscania all’ottavo – costituente il livello di “soglia” – quali “centri semi-urbani”, embrionalmente dotati di una certa differenziazione delle attività. Gli altri comuni del comprensorio appartenevano, in tale schema, alle categorie dei “borghi urbanizzati” e dei “centri elementari”.

A vent’anni da quel convegno, nel meditare sul tema di questo odierno, ho avuto la sensazione che il tempo fosse trascorso, e con effetti fisici ben visibili, per me – come per tutti – ma che la situazione dei territori di cui parliamo era praticamente la stessa di allora, poco essendo avvenuto a migliorarne le condizioni ambientali e urbanistiche.

Prescindendo dai limiti del modello e dalle variazioni edilizie sopravvenute (comunque tali da non aver modificato il quadro economico, ma solo aggravato la situazione dei servizi e il degradamento ambientale), il profilo che emergeva era quello di un comprensorio tipicamente isorientato verso la contigua agglomerazione romana, quasi del tutto inserito nell’area metropolitana, senza altri rapporti che non fossero tenui interconnessioni tra centri limitrofi, con gli effetti indotti di aggressione del territorio e di depressione economica per cui Quaroni vedeva in Roma “la città del deserto”.

“Roma nel deserto del Lazio”: un deserto da essa stessa creato ab antiquo, con lo sconvolgimento morfologico dell’assetto territoriale etrusco, determinato dalla definitiva imposizione della direttrice longitudinale, inserita nello schema radiocentrico individuato dalle vie consolari e polarizzata in funzione esclusiva e tributaria della capitale.

Già in precedenza, il succedersi di ruoli e vocazioni di questo territorio fornisce la conferma storica del perdurare o del ripetersi di medesimi fattori di squilibrio o riequilibrio, strettamente dipendenti dalla serie di involuzioni ed evoluzioni, ora lente ed organiche ora improvvise ed artificiose.  Esse impongono – con lo spostamento del polo gravitazionale degli interessi politici ed economici – un andamento di volta in volta longitudinale o trasversale (ossia rispettivamente, parallelo o perpendicolare alla costa) all’organizzazione delle strutture socio-economiche e alle correnti dei traffici commerciali, con alterne conseguenze d’emarginazione e di asservimento a centri di potere esterni o d’integrazione funzionale tra poli di equilibrio interni. 

Nell’organizzazione trasversale potremmo riconoscere una matrice organica, naturale come il corso delle valli torrentizie su cui si appoggia, per i collegamenti e la dislocazione degli abitanti; in quella longitudinale, una matrice artificiale, razionale, forse, ma comunque “imposta” al territorio e alla sua gente. È nelle fasi di assetto trasversale che si verifica, già in epoca protostorica, una piena utilizzazione di tutte le risorse ambientali da parte della popolazione insediata.

A mio parere, è possibile, anzi, riconoscere nell’ordinamento politico-economico di quelle antiche popolazioni, una forma evoluta di organismo sociale coordinato, che ho definito comunità comprensoriale: al substrato tradizionale dell’economia agricola, con le componenti dell’allevamento e delle attività collaterali, s’innesta un processo di industrializzazione e di commercializzazione di materie prime e di prodotti, imperniato sulle risorse minerarie del comprensorio stesso. Corrisponde a tale organismo un assetto territoriale quasi una vera organizzazione urbanistica, che se non può dirsi ancora “pianificata”, per l’estrema aderenza alle situazioni naturali dell’ambiente, implica tuttavia una meditata definizione dell’habitat.

Centro geografico e direzionale della comunità, racchiusa entro il “grande arco” del Mignone, è lo stesso bacino estrattivo, l’acropoli territoriale dei Monti della Tolfa, ove si concentra la popolazione con insediamenti che già prefigurano un continuum spaziale.

Posti a formare una cintura protettiva, troviamo poi una serie di nuclei fortificati, in posizione dominante allo sbocco sulla costa delle vallate, con esplicito ruolo di controllo e di difesa, lungo le vie di penetrazione all’interno.

Completano il quadro territoriale e organizzativo gli stanziamenti costieri alla foce dei corsi d’acqua, cui si può attribuire la funzione di sistema portuale e di empori della comunità, ove avvengono le operazioni commerciali con i mercanti stranieri (sono noti i rinvenimenti nella zona di frammenti di ceramica micenea).

L’avvento etrusco e il fiorire di centri urbani egemonici da precedenti villaggi villanoviani periferici, in posizione di confine strategico per uno sviluppo metropolitano in funzione terziaria, comportano un radicale mutamento nella delimitazione di questo “comprensorio” e nell’orientamento delle direttrici di sviluppo, ancora però in termini di positiva integrazione. Le interrelazioni territoriali si spingono dalla costa alla valle del Tevere ed oltre, attraverso la fascia collinare, che diviene il cuore della confederazione etrusca, ove convengono i rappresentanti delle città dei due versanti, per le adunanze rituali al Fanum Voltumnae.

Con le sue selve misteriose, essa è la sintesi del mondo culturale etrusco, mentre i suoi laghi sembrano rappresentare il simbolo stesso di quel popolo, che sulle acque del Tirreno e attraverso i guadi tiberini espande i propri commerci.

La struttura sociale etrusca impedisce il superamento dei limiti comprensoriali delle città-stato, la cui organizzazione interna avrebbe potuto costituire, invece, il supporto organico d’un più ampio sistema veramente integrato.

Ad ogni possibilità evolutiva, comunque, pone fine la conquista romana e il nuovo assetto longitudinale che ne consegue.  Esso determina la rapida decadenza delle attività produttive, l’abbandono delle risorse locali ed il crollo della precedente economia agricola dei pagi indigeni, prima con l’introduzione del latifondo a manodopera servile, poi con l’importazione delle derrate dalle provincie dell’impero.

Al latifondo si sostituisce, quindi, la villa rustica e infine la residenza, spesso marittima, a diretto contatto del mare, con vaste peschiere, destinata agli otia di personaggi potenti e di facoltose famiglie dell’Urbe: precedenti storici, ma certamente meno squallidi, delle attuali lottizzazioni cosiddette “turistiche”.

1998.04.16. Sintesi del convegno

La stessa costruzione del porto di Centumcellae si colloca, con le altre strutture di carattere militare o commerciale, nel quadro d’un sistema, certamente sapiente, per le finalità di Roma, ma che relega a ruoli di servizio le aree e le popolazioni locali: il centro maggiore del nostro comprensorio nasce, così, come atto d’imperio del potere centrale, appunto cattedrale nel deserto, voluta nel quadro della politica traianea, che tentava di recuperare, con interventi infrastrutturali, la gravissima crisi economica dell’Italia ed in particolare della terra d’Etruria.

Le successive vicende non mutano, nell’ottica attuale, il quadro sin qui delineato: ancora deserto ostile nel periodo lunghissimo delle invasioni, plaga malarica e incolta nell’età feudale, territorio da cui trarre risorse nello Stato Pontificio, il comprensorio non trae vantaggi neppure dall’annessione allo Stato unitario e le sue condizioni di sottosviluppo perdurano fino ad oggi, aggravate da nuove minacce, anche se in tempi recenti prospettive più concrete sostituiscono i discorsi, le promesse e gli auspici per uno sviluppo che l’Alto Lazio attende da secoli.

E forse, in questo senso, si può trarre dalla situazione qualche motivo d’ottimismo, pur nel rammarico per le sofferenze, la povertà, i disagi della lotta quotidiana per l’esistenza delle generazioni che ci hanno preceduto su questo territorio: la possibilità, cioè, di iniziare proprio dal deserto, in particolare dal deserto di gravi interventi compromissori.

È vero: il territorio è stato aggredito in più parti e lì lo scempio operato è tra i più gravi. Accanto alla speculazione privata dei lager di fine settimana, si sono affiancati gli enti pubblici, lo stesso Stato, a deturpare e distruggere ciò che avrebbero dovuto tutelare.

Sono episodi ben noti, di cui – vent’anni addietro – andava sempre più diffondendosi la consapevolezza, divenuta ormai patrimonio comune. Ma l’ottimismo di allora, il credere che tale coscienza significasse la possibilità di porre rimedio ai guasti, se pure oggi ha lasciato il posto a più caute speranze – nella certezza che l’opera di bonifica, di risanamento e restauro ambientale e paesistico sarà ancora lunga e difficile –, ha ancora una funzione di sprone.

Credo utile, per comprendere quel clima, riportare integralmente la restante parte di quella mia relazione.

“Esistono – scrivevo – ancora vastissime zone incontaminate: rimaste prive di interventi positivi, non hanno dovuto subire neppure quelli negativi. Da esse, dovrà iniziare la programmazione del riassetto territoriale. È un compito difficile e affascinante, di grande interesse culturale e di alta portata sociale, ben più che il ridisegnare Roma sulla settecentesca pianta del Nolli.

“Perché appunto questa possibilità offre buona parte del comprensorio alla sua popolazione: inventare, creare il proprio futuro da una “Etruria interrotta” da più di duemila anni.

“Non altri che la popolazione può essere chiamato a progettare il futuro. Se essa ha dato prova di essere all’altezza del compito, malgrado il lungo condizionamento subito, non altrettanto è avvenuto da parte dei suoi amministratori. Sussistono, a livello centrale e a volte nelle stesse forze politiche locali, prevenzioni da abbattere e preconcetti da ribaltare.

“Proprio la questione dei centri storici ne porge l’esempio più chiaro.

“La posizione subalterna dei comuni del comprensorio, la loro essenza secolare di borghi di servizio, le loro stesse origini, hanno conferito agli abitati caratteri morfologici e tipologici privi di monumentalità e di valori architettonici inquadrabili nelle categorie previste dalla legislazione del ’39, rendendone difficile la tutela, del resto neppur ritenuta necessaria, fino a tempi recenti, dagli organi istituzionali.

“Il modello ufficiale di centro storico-artistico non ha riconosciuto a questi aggregati minori d’origine rurale, artigiana ed operaia, neppure la qualità generica di ambiente tipico, in quel processo di negazione dei valori tradizionali della cultura popolare, che fisicamente si è espresso nell’emarginazione della classe lavoratrice dalla città aristocratica e dalla città borghese: non a caso, il sobborgo fatto costruire da Innocenzo XII sul finire del ’600, fuori le mura di Civitavecchia, quale quartiere da destinare, come scrivono le cronache del tempo, a “pescatori e lavandaie”, porta tuttora il nome di Ghetto.

“Del resto, nel 1761, un altro storiografo civitavecchiese, il Frangipani, nella prefazione alla sua opera, così indicava i criteri da adottare per uno sviluppo commerciale della città: «Necessaria cosa è una grande popolazione, ma non ricca, né mercantile, né nobile, né cittadinesca, alla riserva de necessarj, ma povera, plebea, e miserabile; e sforzarli tutti ad esercitarsi nella marineria, eccetto pochi, che sono necessarj per la coltivazione del territorio; la quale poi se fosse grandissima, si fa supplire co’ forastieri, che verrebbero da altre parti dello Stato. Il modo di far tal popolazione senza sguarnire lo Stato di gente – prosegue il Frangipani – è prima con i volontarj, secondo con i vagabondi e vagabonde, terzo per i condannati al remo eccetto li casi più atroci, e colle loro mogli, assicurati per altri con le sue debite cautele; questi fra donne e uomini dovrebbero formare almeno cinque mila persone; e nascendo due mila e cinquecento persone l’anno in vent’anni, levàti li cinquecento per quelli che muojono, e per quelli che non nascono, sono quaranta mila; e i loro padri liberi, e figli, non i rilegati, si averebbero da impiegare tutti alla marina per pescare e servire sopra li bastimenti sì da guerra, che di mercanzie, ed abiteranno a dritta e sinistra lungo le riviere della città, per adesso con fabbriche di poca spesa, guardati – massime di notte – con le sue guardie ed altro […]. Per li nobili poi, cittadini e mercanti si dovrà ingrandire la presente città […] verso tramontana, e in altre parti credute proprie […] ed ivi incominciare le fabbriche chi vorrà

“Lo storiografo, infine, raccomanda che «tanto nelle strade sul mare, quanto per le strade delle campagne e piazze della città dovranno tutti esser ripieni di alberi di mori gelsi, e così le donne potranno anche industriarsi con i vermi da seta».

“Non dubito che un simile programma pluriennale di attuazione, così dettagliato ed attento all’incremento della produzione, alla sicurezza ed all’ordine pubblico, all’edilizia economica e al giusto spazio per la libera iniziativa dei privati, possa trovare ancora oggi i suoi estimatori.

“Per questo motivo è necessario (riprendo qui le parole della relazione al bilancio di previsione per il 1978 approvata dal Consiglio Comunale di Civitavecchia), modificare una immagine di irreversibilità, che il lungo condizionamento ha, purtroppo, legittimato a livello subconscio negli stessi cittadini, inseriti in questa logica accettata e interiorizzata passivamente, dalla quale derivano altre false convinzioni, come quella che vuole l’economia non già distinta, ma opposta all’estetica, la conservazione delle preesistenze storiche in antitesi con lo sviluppo urbanistico, il rispetto di tradizioni popolari in contrasto con il progresso sociale.

“Non vi è sostanziale diversità tra l’indifferenza a certe problematiche e la loro aperta negazione. Dalla mancanza di sensibilità che nasce dall’assuefarsi a quanto di spiacevole ci circonda, si passa in breve a forme, singole e collettive, di autolesionistico compiacimento, anch’esso, in fondo, un mezzo di difesa o di estraniamento dallo stato di disagio in cui, altrimenti, si dovrebbe vivere.

“Oggi questi atteggiamenti vanno scomparendo, sostituiti da un senso di rispetto per il territorio che ha portato ad intraprendere esemplari iniziative di salvaguardia ecologica e di approfondimento conoscitivo dell’ambiente. L’attività che il Comune di Civitavecchia intende condurre – con la collaborazione dell’I.N.U. e in vista della formazione del primo programma pluriennale – attraverso l’istituzione d’un centro di documentazione urbanistica a disposizione della cittadinanza, attraverso i progetti d’intervento per l’occupazione giovanile nella ricognizione del territorio comunale e attraverso la partecipazione diretta, il confronto con gli enti pubblici e la collaborazione con gli altri Comuni, sono indici confortanti d’una politica culturale e urbanistica rinnovatrice, ben diffusa nel comprensorio.

“È importante proseguire l’azione iniziata, di cui questo stesso Convegno rappresenta una tappa fondamentale, rieducando tutti noti – con la pazienza, la perseveranza e l’attenzione richieste dall’intossicazione psicologia che ci affligge – a notare nuovamente gli assurdi colori di certi intonaci, le forme ridicole di certe costruzioni e l’insipienza del loro inserimento ambientale, l’incongruenza tra un effettivo sviluppo industriale e portuale e la posizione di silos, depositi, serbatoi costieri e magazzini, il danno (che è economico, oltre che ecologico) provocato da cave, sbancamenti, strade, linee elettriche e costruzioni in zone che, al tempo stesso, si vorrebbero valorizzare per il turismo, la cultura, la residenza o il tempo libero.

“A notare tutto ciò e a farcene infastidire, a rigettarlo, finalmente convinti della falsità e della demagogia di quanto ci è stato fatto credere da sempre: che questo fosse il prezzo da pagare all’economia e allo sviluppo, che questa fosse la “vocazione” univoca, senza alternative e senza correttivi, dei nostri quartieri, delle nostre città e del nostro territorio

“Quando noi per primi avremo raggiunto quest’autocoscienza, sarà più facile trasferire all’esterno le nostre esigenze, le istanze di un comprensorio relegato per secoli in un suolo passivo, indotto a ritenere benefici e vantaggi le imposizioni subite, ad accettare come inevitabili corollari di quei “vantaggi” i disagi più evidenti del ruolo riservatogli. Allora, sarà possibile parlare di programmazione democratica, di partecipazione attiva e diretta, senza che l’autonomia dei Comuni e della popolazione sia ridotta a forme di localismo evasivo in cui la libertà di scelta è nel colore delle ciminiere.

“In questa dimensione nuova della gestione urbanistica, il problema dei centri storici e, più in generale, del recupero e del riuso del patrimonio edilizio esistente assume una centralità determinante.

“Parlare di centro storico non ha senso, se non s’inquadra nel suo complesso la riqualificazione del territorio: di un territorio – come si è detto –, particolarmente ricco e predisposto, per antiche vocazioni e per peculiari risorse, ad un assetto organico e integrato.

“Il che evidenzia l’aspetto inverso, la reciprocità delle tematiche, non potendosi immaginare una pianificazione anche di singole parti del territorio, che ignori le situazioni ambientali e i rapporti con i valori storici e culturali nel loro complesso.

“L’obiettivo rende necessaria una strategia basata sul ripensamento delle espansioni urbane previste dai piani regolatori, sia in termini quantitativi che localizzativi; sull’attribuire – evitando l’inutile urbanizzazione di nuove aree – una sostanziale incidenza alla componente deli riuso nel dimensionamento dei programmi, tanto per il settore residenziale che per altre destinazioni, ed in particolare per i servizi pubblici e sociali (si tenga, presente la proposta dell’A.R.C.I. per il recupero di strutture, obsolete per le originarie funzioni, ad attività culturali e del tempo libero); sull’impiegare nel modo più avanzato la recente legislazione statale e regionale sul territorio, sui distretti scolastici e sulle unità socio-sanitarie locali, sulle deleghe di funzioni amministrative, per sperimentare nuovi metodi d’intervento degli enti locali in settori fondamentali per lo sviluppo e la qualità dell’ambiente di vita.

“Se il programma pluriennale rappresenta il primo strumento oggi a disposizione dei Comuni per dimostrare concretamente le affermate intenzioni di coordinare fin d’ora la pianificazione su basi intercomunali, il banco di prova è rappresentato dall’attuale fase preliminare, di consultazione e soprattutto di ricerca.

“L’indicazione più rilevante in questa direzione, emersa nel seminario I.N.U. di Venezia (mi riferisco in particolare alla relazione Ghio) è appunto l’invito rivolto alle forze politiche e sociali e alle pubbliche amministrazioni a mettere a punto un sistema critico-conoscitivo e un sistema di controllo, verifica e diffusione dell’informazione, che consenta effettivamente l’adozione di una strategia della conoscenza in funzione della strategia della partecipazione alla programmazione.”

Rileggere oggi quelle intenzioni, che non erano d’un singolo ma frutto di convinzioni ampiamente condivise, espresse in un convegno di amministratori e di urbanisti, mi porta a riflettere su quanto è accaduto da allora.

È un bilancio personale, certo, fatto alla luce delle esperienze e delle vicende di una vita, ma anche un bilancio collettivo, per quanto una società, una generazione, una categoria, forse una ideologia, possano rispecchiarsi e riconoscersi in alcuni aspetti settoriali e specifici.

Parrebbe, se il bilancio dovesse tener conto solo dei risultati apparenti e tangibili, una situazione dolorosamente fallimentare. Quasi nessuno degli obiettivi enunciati, quasi nessuna delle speranze espresse, pochissimi dei mezzi indicati hanno visto un esito positivo.

Il territorio e l’ambiente hanno subito oltraggi neppure immaginabili allora, la legislazione urbanistica e sui lavori pubblici si è involuta e complicata – nonostante le intenzioni di snellimento – ed è approdata a forme di intervento che ignorano del tutto la programmazione e il coordinamento, gli interventi per l’edilizia residenziale pubblica continuano a non vedere una logica nella loro localizzazione nazionale e regionale.

La disoccupazione giovanile si è ulteriormente aggravata, le infrastrutture previste da decenni ed essenziali alla ripresa economica non sono state ancora realizzate o completate, l’immenso patrimonio storico-artistico non trova sufficienti risorse per la sua conservazione e valorizzazione, le strategie e i mezzi posti in essere ai vari livelli di governo del territorio per uno sviluppo sostenibile, secondo i criteri dell’ecologia urbana, appaiono confusi e contraddittori. Eppure, è mia ferma convinzione che si possa continuare a sperare, che si debba continuare a lottare, perché nonostante le sconfitte, nonostante gli ostacoli, malgrado i problemi, l’obiettivo resta di grande valore politico e sociale, anzi è la sola possibilità che rimane per un futuro migliore delle popolazioni di questa nostra Tuscia, terra contraddittoria di assurde povertà e di eccezionali tesori. 

FRANCESCO CORRENTI

P.S.: Mi giungono da più parti proposte ed auspici per un “archivio di documenti per gli studiosi della storia della città”. Di questo si parla proprio nella mia relazione, come realtà di imminente attuazione, che – come è noto – esisteva fino al 2007 (il CDU, Centro di documentazione urbanistica sull’assetto del territorio e la storia urbana) e di cui era prevista e finanziata la ricostituzione, sospesa per il momento. Nell’attesa, credo utile ripubblicare questa testimonianza.

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