Sette giorni in barella, viaggio nella sanità italiana al tempo del Covid

di LUCIANO DAMIANI

Di questi tempi uno non dovrebbe aver bisogno del servizio sanitario, ma tant’è, quando capita non puoi farci nulla specie quando sei del tutto nelle mani degli altri, di chi ti deve soccorrere e mantenere in vita.

La sera prima del venerdì ti va una tazza di latte freddo, troppo buono il latte freddo, ma la notte sudi freddo, la pressione sotto le scarpe e la frequenza al galoppo, sarà stato il latte, piano piano passa. Al mattino, un po’ di debolezza, un po’ di nausea, ma sembra passare. Pranzi con un po’ di riso, per prudenza, ma si scatena l’inferno. Conati di vomito irrefrenabili riso e sangue, sangue e riso. Qualcuno ti deve salvare, Covid o non Covid. 

“Presto, serve un’ambulanza mio marito vomita sangue in quantità!”

“Signora, deve aver pazienza, l’ambulanza è a 20 km”

Ironia della sorte…… abitare a 1km dall’ospedale e, quando serve, avere l’ambulanza a 20!

Ti dicono che hai perso conoscenza un paio di volte prima dei soccorsi, a suon di ceffoni ti hanno mantenuto vigile. Non saprei dire, ma in qualche modo ti calmano, ti mettono sull’ambulanza e, a sirene spiegate, ti portano al pronto soccorso. Cambio barella.

Ti portano in una stanzetta e riprendi a vomitare. La stanza è piccola, il tuo sangue imbratta un po’ tutto, ora è viscoso, forse misto a catarro. Ti infilano un tubo su per il naso, “Quando te lo dico ingoialo”, “va bene”.

Il tubo sale e riscende nello stomaco. Inizia il lavaggio con l’acqua fredda…  non sai se sia acqua ma è fredda. Tanta ne insufflano e tanta ne tirano via finché non vien “pulita”.

Finalmente ti calmi riacquisti un poco di lucidità, arriva un traumatizzato alla testa con una ferita da pulire prima della TAC.

Senti tutto ciò che accade, il medico manda un fax per avere l’elicottero, ti porteranno in un altro ospedale che quello dove sei non ha la gastroscopia d’urgenza, è venerdì del primo pomeriggio. Ti domandi come possa essere che il venerdì pomeriggio non ci sia chi possa intervenire in gastroscopia…  e si che la città non è propriamente un paese…. ma va beh, hai sempre desiderato provare l’elicottero e l’importante è essere sicuro, nelle mani dei sanitari.

Il telefono del pronto soccorso continua a squillare: “Come ve lo devo dire? Ho 3 rossi veri non posso darvi retta!”.

L’elicottero non arriva…

“Ho fatto il fax per l’elicottero ma non ho ricevuto risposta..  ma c’è?”

“Veramente a noi è arrivato un fax bianco, non c’era scritto niente. Facciamo sapere se c’è”

Passa il tempo, l’elicottero non s’alza, brutto tempo. Si cerca un’ambulanza…  ne arriverà una da 40 km., quando sarà disponibile.

Ti hanno tamponato per il virus, il primo di una serie.

Arriva l’ambulanza, cambio barella e si parte. Le buche della strada le sentì tutte nella schiena, e ne sono tante. Dopo un’ora sei a destinazione, tampone e gastroscopia. Torni al pronto soccorso e ti sistemano in un grande stanzone, affollatissimo, barelle a contatto fra loro, gente che corre avanti e indietro, difficili da catturare per aver informazioni.

Scusi a chi posso chiedere informazioni?” “Al medico che si occupa di lei” “e chi si occupa di me?” “Ah… io mica lo so..” e sfugge via. È così per tutti, tutti chiedono al vento, chiunque tu riesca a fermare non sa nulla, ne ti sa dire a chi rivolgerti. Una signora riesce ad affacciarsi alla porta della stanza dove ci sono alcuni dottori… 

“Signora vada via subito di qui!”

La signora mestamente torna alla sua barella. Tutti corrono e quando riesci ad attirare l’attenzione “Guardi…  non sono di qui.”

Qualcuno chiede dell’acqua, altri lo seguono e s’alza un coro.. “Acqua… acqua….”, ma se non te la sei portata rimani a secco.

Ma c’è un altro problema pressante, i cellulari si scaricano, e sono ben pochi coloro che hanno una presa di corrente vicina. Qualche parente trova il modo di fare arrivare telefoni e carica batterie. Tuo figlio ti compra un powerpack per il tuo telefono lo lascia al triage perché te lo portino, ma non arriverà mai. Centellini le comunicazioni perché tu lo possa usare il più a lungo possibile.

È notte ma tutte le luci sono accese, barelle e barellieri continuano ad andare e venire. Cerchi di sistemarti la mascherina sulla maschera dell’ossigeno, cosa affatto semplice, ma scopri che puoi sistemarla coprendo anche gli occhi, viene bene per dormire. In qualche modo ti accoccoli in quella barella senza cuscino puntando i piedi per non scivolare troppo. In qualche modo ti addormenti.. le due o le tre della notte, il primo giorno in barella è passato.

Il giorno dopo una TAC certifica che non sanguini più. La batteria del telefono è al lumicino ma, per fortuna ti spostano vicino ad una presa di corrente, sei salvo. La giornata passa nella noia, continui a cambiare posizione, sdraiato, di lato, di tre quarti. Vicino a te portano una barella con un trentenne con evidenti problemi mentali, si aggrappa alla tua barella e la tira a se, allunga la sua mano sporca di sangue verso di te, evidentemente cerca un contatto, cerchi di fargli capire che è pericoloso ma lui insiste, allunga la mano quanto più può verso di te, ed alla fine non puoi negargli questo atto di carità, gli tieni la mano per lunghi periodi, sperando che te la cavi…  e rinunci pure a fargli tenere la mascherina, ma bisogna pur essere buoni e dare una mano quando qualcuno te la chiede, quando non puoi pensare che comprenda.

Passa ancora un altro giorno in barella, non mangi e non bevi, cerchi inutilmente di farti fare una flebo d’acqua, ti deve bastare quella presente nel medicinale che ti somministrano per flebo.

Qualcuno ti dice che ti debbono ricoverare, ma non sanno ancora dove.

Arriva il lunedì, sempre in barella. C’è anche la caposala, appare disponibile a rispondere alle domande….  le chiedi per prima cosa delle flebo di idratazione, e compaiono come per incanto, ti chiedi se forse non le tenga a chiave, ecco perché sabato e domenica non ne hanno distribuite, ma non può essere. Al mattino presto un signore, con una cartellina in mano, viene da te e ti dice che ti ricoverano all’ospedale della tua città, li non c’è posto, presto arriverà l’ambulanza. Passano le ore, una signora cui avevano detto che sarebbe uscita la mattina continua invano a chiedere informazioni a chiunque passi. Una signora su una lettiga rigida chiede disperatamente di essere soccorsa, dopo qualche ora, finalmente, qualcuno di buon cuore le sfila la tavola da sotto la schiena.

Finalmente arriva la tua ambulanza, in serata sei al pronto soccorso della tua città, da dove eri partito. Un altro giorno in barella. Il pronto soccorso, con il Covid, è diventato un reparto di degenza, riesci a rimediare un cuscino, merce rara nel pronto soccorso, nelle stanze e nel corridoio sono disegnati dei rettangoli, ognuno di questi è un “posto letto”, la moltiplicazione dei posti letto. Se mai la moltiplicazione dei posti barella, ammesso che ci siano tante barelle per quanti rettangoli sono stati disegnati, hai sentito qualcuno dire al telefono: “Non abbiamo più barelle!”.

Passa un altro giorno in barella ma per lo meno non c’è l’affollamento di prima. Ancora tamponi e preghi che siano “delicati”. Ti rendi conto che i turni dei medici sono davvero pesanti, il medico del mattino lo vedi andar via la sera alle otto.

Ti dicono che non hai più bisogno di essere ricoverato, altri due giorni di barella e poi…. il grande morbido ed accogliente letto di casa.

Un grande e doveroso ringraziamento va al personale che, come fosse in trincea, si adopera per quello che può per la logistica che c’è e per i mezzi a disposizione. La sanità al tempo del Covid è davvero un’avventura.

LUCIANO DAMIANI